Storia della letteratura tedesca dal 1870 al 1933 (Illustrato)
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Storia della letteratura tedesca dal 1870 al 1933 (Illustrato)

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Informazioni sul libro

INDICE DALLA GUERRA DEL 1870 ALLA GUERRA DEL 1914
GLI EPIGONI E I RIBELLI
HAUPTMANN E GLI SBOCCHI DEL NATURALISMO.
FRANK WEDEKIND, IL PRECORRITORE
CREPUSCOLO LIRICO DI UN IMPERO
STEFAN GEORGE E LA SUA CERCHIA
RILKE, LE COSE, DIO
COSMICI, ESOTERICI, VEGGENTI
VISIONI DALLO SPARTIACQUE
MORBI E GUARIGIONI.
EVOLUZIONI DELLA BORGHESIA: I DUE MANN
JACOB WASSERMANN O DEL ROMANZESCO
DONNE SCRITTRICI E RICCARDA HUCH
NEOCLASSICISMO E MISTICISMO STRAPAESANO
LETTERATURA DELLA CRISI
L'EVASIONE DALLA REALTÀ
LIRICA ESPRESSIONISTA
UMANITÀ DI FRANZ WERFEL
IL DRAMMA ALLA RINCORSA DELLA VITA
LA VITA SULLE ORME DEL DRAMMA
IL FENOMENO KAISER.
DAL ROMANZO SINTETICO ALLA PROTESTA SOCIALE
PONTI TRA L'ESPRESSIONISMO E LA NUOVA OBIETTIVITÀ
ROMANZI POLITICI
APPENDICE
STEFAN ZWEIG
MORTE DI STEFAN ZWEIG.
IL MEDICO POETA HANS CAROSSA
ERICH KAESTNER
HERMANN KESTEN
JOSEPH ROTH
I
II
III
ANTOLOGIE TEDESCHE
ZOLLA E DESTINO
KARL BENNO VON MECHOW
NUOVI ORIZZONTI DI FALLADA.
RICHARD BILLINGER
NAZISMO E LETTERATURA

Domande frequenti

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831618588
LETTERATURA DELLA CRISI

L’EVASIONE DALLA REALTÀ

Uno studio che, considerando il ritmo degli inni nazionali e la peculiarità degli entusiasmi, comparasse il modo di manifestarsi dell’amor patrio presso i vari popoli lumeggierebbe vantaggiosamente la loro psicologia collettiva.
Quando, in un fatale pomeriggio dell’agosto 1914 alla folla assiepata dinanzi al Castello di Berlino nella vana attesa del Kaiser, un poliziotto annunciò, dopo tante alterne voci di pace e di guerra, l’avvenuto ordine di mobilitazione, dalla nereggiante piazza s’alzò, commosso, solenne e come sostenuto da una voce sola l’antico canto-preghiera: «Ed ora rendete tutti grazie a Dio».
Di che cosa la gente ringraziava il Signore? Dell’appagamento belluino dopo l’estrema tensione delle ultime ore? O della azione in ogni modo liberatrice che, come il grido per chi sogna, veniva ad affrancarla dall’incubo durato per tutti i decenni in cui Europa e Germania erano andate minacciosamente bivaccando tra i barili delle «polveri asciutte»? Dell’irrompere, dopo tanti anni d’amministrazione ordinaria, di quella grosse Zeit a più riprese promessa dall’eloquente Imperatore e altrettante volte frustrata dagli scacchi di una politica estera che aveva distrutto brano a brano tutta l’opera del Cancelliere di ferro? Delle vittorie che s’attendevano schiaccianti dalla formidabile preparazione dell’esercito o, indipendentemente dall’esito, della prova in sé, della gioia potenziatrice di sentirsi parte in un dramma che s’intuiva, fin dalle prime battute, grandioso? Era quella che animava la folla una variante tellurica e politica della stessa mistica fede nei compiti imposti dal destino che or ora abbiamo visto riflettersi, come in uno specchio della Germania intima, negli estatici contadini di Stehr? O si riproduceva invece, in migliaia e migliaia di anime, la stessa fremente aspettativa d’ebbrezze eroiche che in piena pace aveva fatto sognare al poeta Stadler la bella morte sul campo? Certo non v’è uno tra i sessanta milioni di tedeschi che in quel momento sia travagliato dall’inquietudine di Georg Heym il quale tre anni prima, insofferente della paludosa normalità, voglioso di definitivi rivolgimenti e tuttavia ossessionato da apocalittici presagi, aveva presentito la gran morìa, la catastrofe, la rivoluzione.
Un’immensa folata di entusiasmo fraternizzatore traversa invece la Germania, abbatte barriere di partiti e di confessioni, di temperamenti e di età, spinge la socialdemocrazia tra le braccia dei nazionalisti, i cinquantenni come Dehmel tra i volontari imberbi, gli altezzosi Junker tra il proletariato delle trincee. E la prima cannonata, le prime strepitose vittorie, le prime ecatombi compiono un disorientante prodigio: pochi giorni nel tempo diventano uno spazio immenso nella prospettiva dell’anima; tra lo ieri e l’oggi, tra ciò che oggi afferra, inebbria, sconvolge, entusiasma, indigna e ciò che ieri ancora poteva preoccupare, interessare, prendere s’eleva una gran muraglia incomprensiva alla cui ombra tutti i valori della vita, a cominciar da quelli più fondamentali e positivi, perdono consistenza o cambiano di significato.
In campo letterario l’uragano rischia addirittura di far piazza pulita. Ciò che fino alle soglie della fatale estate suscitava consensi pugnaci, polemiche acri, ardori ammirativi o iconoclasti sembra superato, svuotato, sommerso. Chi ancora legga i versi di Hofmannsthal, sordo ai fragori che riempiono il mondo, viene additato trasecolando come uno che s’ostini a usare la chiave di casa anche dopo il bombardamento che gli ha sfasciato le mura maestre. Se l’occhio distratto cadrà per caso sulle pagine di Schnitzler ci si domanderà come mai l’ennesima reincarnazione d’Anatolio il lieve non indossi l’uniforme anziché correr dietro le proprie pene d’amor perdute. Le disavventure politiche di Hauptmann sembreran cose di un secolo fa e non si riuscirà a capire come mai fino a ieri si fosse potuta seguire con interesse la dolorosa evoluzione di Thomas Mann dalla borghesia all’arte o lamentare la persistente siccità poetica di Rilke o battersi pro e contro il sacerdozio estetico di George che pure questa guerra aveva profetato come espiazione della generale, compiaciuta e grassa banalità dell’era guglielmina.
E quasi che all’illanguidito interesse per loro corrisponda non so quale intimo smarrimento, tutti i poeti fin qui conosciuti ammutoliscono. Dehmel soltanto, la cui incandescente vitalità riesce sempre a trovare accordi col presente più contraddittorio, traversa l’infiammata realtà senza bruciarsi le ali, canta l’unione sacra succeduta al fariseismo di ieri, la maschia gioia della morte in armi di contro al quietismo vegetativo, la vittoria splendida dopo la felicità dell’abnegazione. Gli altri, cui non è musa l’immediatezza, sono come dominati da un evento che per assumere forma d’arte richiederà distanza ed imperio sulle tempeste del cuore.
Non arte che rispecchi si domanda, del resto, in simili frangenti, ma qualcosa che secondi la propria ebbrezza compartecipe. La robusta e sbrigativa versificazione dei fanti in dispregio ai molti nemici è proprio quel che ci vuole, mentre a soddisfare le esigenze corrive dell’entusiasmo provvede in abbondanza, esaltando l’esercito, il cameratismo, gli alleati, i capi, le vittorie, una vera e propria perdurante alluvione di poesie occasionali. Ben cinquantamila liriche d’argomento bellico al giorno arriva a contare nel primo mese di guerra il diligente Julius Bab e tre milioni ne registrerà complessivamente nel marzo 1815 un benemerito cultore di statistica letteraria. Oggi le sole cinque dita di una mano bastano a numerare gli episodi individualmente più notevoli di questo lirico cataclisma: la gloriola di Ernst Lissauer sbocciata d’improvviso col suo Canto dell’odio, contro l’Inghilterra e subito dopo sfiorita; la gloria vera di Heinrich Lersch (1889-1936), il poeta-calderaio che coi suoi ritmi martellanti induce i compagni a seguirlo in trincea così come domani saprà dar voce, nelle liriche del Mann im Eisen, allo strazio del lavoratore tedesco durante l’occupazione della Ruhr o, in Hammerschläge, ridire la semplice storia della propria vita; l’apparizione di Karl Bröger, Alfons Petzold, Max Barthel, Gerrit Engelke, poeti-operai e la dipartita eroica di volontari della guerra e della poesia come Walther Heymann e Walther Flex; e di nuovo Dehmel che, col prolungarsi del conflitto, ritrova accenti d’umana pietà pur restando affascinato dal bifronte, umano e barbaro aspetto della guerra e persuaso, anche dopo il disastro, della fondamentale, gioiosa utilità della stessa sofferenza.
Ma se lieve è la traccia che questa poesia lascia sulla superficie del tempo, tanto più notevole è il suo valore barometrico. Irruente e baldanzosa in principio quando ancora si credeva che la guerra potesse ridursi a una serie fulminea di vittorie, essa muta insensibilmente di tono a misura che la lotta s’irrigidisce sulle posizioni, che il blocco si fa più duro e che, malgrado avventurati colpi di maglio e sorprese sottomarine, diventa sempre più problematica la probabilità del successo finale e vano per quanto grandioso l’eroismo dei combattenti e insostenibile per ogni sorta di privazioni la situazione dell’ammirevole popolo tedesco. Dal dicembre del 1916 il contenuto di questa poesia si fa tetragono e un po’ più triste e già un anno dopo s’avvertono, proprio tra gli entusiasmi della prima ora, le prime defezioni. S’incomincia col compianger chi soffre per poi indignarsi contro chi comanda e mentre v’è ancora chi incoraggia alla resistenza e vuol credere alla vittoria, già un gruppo di desperados s’accalca intorno alla bandiera del giornale Action di Franz Pfemfert dando fiato alle selvaggie tube dell’accusa.
È il segnale: la poesia di guerra batte in ritirata e avanza su tutta la linea, molto prima del brumoso 8 novembre 1918, la lirica della rivoluzione.
Sotto lo specchio delle acque, intanto, agitato in senso successivamente opposto dall’attivismo poetico, un’ampia e lenta fluttuazione si propaga. L’indefinito prolungarsi del conflitto, la troppo greve mora delle esperienze individuali, il cerchio di ferro che il blocco prima e l’inflazione poi stringono intorno alla Germania inducono a poco a poco nei più sensibili, col senso di una collettiva mostruosa prigionia senza scampo, anche un desiderio, sempre più prepotente, d’evasione. Non v’è chi non accetti con bella disciplina gli imperativi bellici e tutti alla fine si piegano rassegnati alle conseguenze dei quattrocentoquaranta articoli del Trattato di Versailles. Ma se la guerra – che è stata essa stessa una fuga dal provocato accerchiamento politico verso l’azione – isola la patria dall’universo, e la vertiginosa svalutazione monetaria nega a questo popolo d’appassionati migratori quella gioia di misurare in lungo e in largo il mondo ch’essi han sempre considerata un particolare favore di Dio, nessuno può impedire allo spirito di cercar compensi di là da ogni barriera e a una letteratura, nata con rapido prodigio dall’identica insofferenza, d’offrirgli evasioni dall’opprimente realtà nel tempo e nello spazio, nel fascino di terre e di civiltà lontane, nell’infanzia del genere umano e perfino al di fuori delle aprioristiche tre dimensioni che limitano il nostro insaziato bisogno di conoscenza.
A guardar bene però, non è la verità che si cerca, l’acqua chiara alla propria sete, ma il sogno delle fonti, la diversione incantata, il miraggio che secondi l’immaginosa febbre del desiderio, la narcosi che annulli la grigia sofferenza dell’ora. E Waldemar Bonsels, nato nel 1881 ad Ahrenburg nello Holstein, imbrocca perfettamente il tono quando nel suo Viaggio in India (Indienfahrt, 1916), diventato subito famoso, evoca, con un processo spirituale opposto al disincantato rien que la terre morandiano, proprio ciò che di quel paese è disposto a vedere con un lettore che perdutamente lo sogni. La sua prosa, tutta pervasa da un intimo senso canoro, circonda d’intenerita pensosità l’antica terra dei veda dove la Schwärmerei tedesca non era più tornata dai tempi di Heine e trova accenti di confidenza arguta a contatto con uomini semplici, bambini ed animali.
Se in Himmelsvolk e ne L’ape Maja e le sue avventure Bonsels era riuscito a rinnovar la favola parlando il linguaggio assorto che persuade i piccini, qui si direbbe ch’egli cerchi di regalare un mondo nativamente infantile agli adulti stanchi di una civiltà culminata negli orrori della guerra. Ma egli ha il torto di servire due padroni: mentre, a tratti, il suo religioso rispetto delle cose può alla lontana ricordare Rilke, molta indeterminatezza voluta, molte vacue profonderie fatte apposta per dar l’illusione del pensiero a cervelli bisognosi soltanto di generico stupefacente filosofico si mescolano a parole dettate da una saggezza forse illimpidita dal dolore. E più tardi – in Menschenwege (1918) e in Eros und Evangelien (1920), in Mario und die Tiere (1928) e in Mario und Gisela (1930), in Tage der Kindheit (1931) e nel romanzo Die Nachtwache (1933) – diventa davvero difficile distinguere il vagabondo sentimentale e l’amico dei bimbi e degli animali dal consumato conoscitore del pubblico e dei segreti di fabbrica delle grandi tirature.
Al momento però di tentare la fuga non conta se a disserrar la porta del carcere sia stata una chiave o un grimaldello. È buono tutto ciò che serve, sia o no destinato particolarmente allo scopo. Così la stessa ondata che solleva Bonsels alla notorietà per una congruenza rara tra richiesta e contenuto è quella cui deve in ritardo il successo Max Dauthendey (1867-1918), anche se la sua opera non risponda che in parte e per caso alle esigenze dell’ora.
Dauthendey, il fragile figlio del primo intraprendente introduttore dei dagherrotipi in Germania ed in Russia, si sente pittore e non vuol diventare fotografo. Ma è dalla penna, non dal pennello, che sorte nel ‘94 il macchiaiolismo Ultravioletto delle sue prime poesie, cromatiche ed esanimi finché non venga a dar loro ala l’amore. Il quale governa le rime e i madrigali delle Reliquie e del Libro delle cantilene (Singsangbuch, 1898) mai stanche d’aggirarsi voluttuose, monogame e un po’ monomaniache intorno alle svedesi e coniugali grazie di Annie. Da allora Max che, pur essendo nato a Würzburg sulle rive del Meno, ha l’aspetto di un giavanese e il piccolo grazioso sorriso di un orientale, segna sui fogli del suo calendario (Der brennende Kalender) tutta una sequenza d’ardori nuziali, mitigati appena dal rezzo anacreontico del suo Lusamgärtlein e delle Canzoni assorte nel verziere (In sich versunkene Lieder im Laub) e vinti soltanto dall’inesausta sete di visione che per tutta la vita costringe il poeta a viaggiar da un capo all’altro del mondo.
E nella vita e nei viaggi egli resta il poeta dell’ispirazione, della brevità e dell’immediatezza. Quando dimentica questa sua legge partorisce drammi privi di spina dorsale, poemi cosmici fumosi e impossibili, rimari filosofici nati morti e La terra alata (Die geflügelte Erde, 1907), un mostro lirico-giornalistico che in cinquecento pagine di ritmi prosastici si sforza di ridire la crociera del poeta traverso sette mari e le sue migrazioni innamorate dal Nilo al Gange, dall’Imalaia a Ceylon, dal Giappone al Colorado, dal Niagara a Nuova York. Quando egli invece obbedisce a se stesso, la prosa dei suoi racconti ha più musicalità delle sue liriche e dalla sua vissuta esperienza di migratore sortono, delicate e quintessenziali, le leggende indiane di Lingam, le intercontinentali Storie dai quattro venti (Geschichten aus den vien Winden) e soprattutto le aeree novelle che Gli otto volti del lago di Biva (Die acht Gesischter am Bivasee), otto aspetti diversi dello stesso nipponico paesaggio lacustre, gli suggeriscono melodiosamente e che il poeta dipinge in colori di madreperla e di giada con la tecnica serica degli antichi pittori giapponesi e con quella cortesia spirituale e idiomatica dell’Estremo Oriente per cui anche il sangue diventa una tonalità di colore e la stessa desolazione del pianto ha freschezze di rugiada.
La sorte di Dauthendey, poetica e gentile, somiglia un poco a quella del fringuello cieco. Egli, che ha reso come pochi il subìto fascino di terre lontane, viaggiando non sogna che il ritorno: il Giappone, da lui trasfigurato poeticamente, di fatto lo rattrista e lo mette in fuga perché gli ricorda troppo la natia Franconia; l’intrapreso giro del mondo si tramuta per la sua inquietudine nostalgica in una specie di crociera dalla pat...

Indice dei contenuti

  1. Enrico Rocca
  2. DALLA GUERRA DEL 1870 ALLA GUERRA DEL 1914
  3. VISIONI DALLO SPARTIACQUE
  4. LETTERATURA DELLA CRISI
  5. APPENDICE
  6. INDICE DEGLI AUTORI
  7. INDICE DELLE TAVOLE