Il telaio di Caterina
Le due sorelle, rimaste orfane, si sentirono bruscamente sole come bimbe che si tengon per mano in una stanza al buio.
Le zie, un po’ per amore del fratello e più per un senso di pietà verso le nipoti, vollero restare.
Zia Vanna disse per la prima:
— Con che cuore potrò lasciare Marietta?
— Ed io — sospirò zia Fifì, — come posso abbandonare Caterina, in questi momenti?
Ognuna, nel lungo tempo passato curando invano la povera cognata, si era lasciata prendere da una particolare tenerezza.
Caterina e Marietta si attaccarono più tenacemente l’una all’altra. L’una non usciva dalla camera se l’altra si sentiva poco bene, l’una smetteva di parlare se l’altra corrugava un po’ la fronte, afferrata dai dolorosi ricordi. Dormivano insieme, in due bianchi lettini e avevano l’abitudine di chiamarsi, a pena coricate.
— Caterina!
— Marietta!
Non si sarebbero addormentate, senza salutarsi così.
Si somigliavano anche. Solo, Caterina pareva più forte; Marietta era più gracile. Per questo zia Vanna aveva molte cure per la sua prediletta. In casa era convenuto, e non nascevano gelosie se a colazione Mariettina sorbiva un paio d’uova mentre l’altra si contentava d’una frutta o d’un pezzetto di cacio fresco; o se, uscendo nel cortile zia Vanna seguiva Marietta con uno scialle pronto fra le mani. Aveva preso un po’ di tosse, che non se ne voleva andare.
Una sera, nel salire per la prima volta dopo i due anni di lutto su alla «Crocetta», furono seguite da un giovanotto che pareva un forestiero, forse un palermitano.
Zia Vanna esclamò compiaciuta:
— Quel maleducato guarda Mariettina…
Zia Fifì affermò sorridendo:
— No. È per Caterina.
Le ragazze, a casa, si fecero tenui confidenze:
— Sai… ho visto che ti osservava.
— A me è parso invece, che guardasse te…
— Si è fermato sotto l’arco…
— Per te…
Furono liete. E aiutando la serva a rifare i letti, cucendo dietro la finestra ancora socchiusa, sorrisero, smemorate, ciascuna per sé, al viso dello sconosciuto che le aveva guardate. Uscendo lo incontrarono ancora: certamente gli doveva piacere Marietta, poiché guardava lei sola con occhi illuminati dalla simpatia. Non c’era dubbio…
Caterina restò un po’ delusa; ma le parve naturale anche questa preferenza, così come ogni attenzione particolare delle zie e del padre era rivolta alla sorella più gracile.
Marietta, un giorno, tossicchiava più spesso, e zia Vanna non le permise di uscire.
La fanciulla ne pianse:
— Credi che sia malata? Da tanto tempo ho questa stupida tosse che mi dà noia!
Zia Vanna fu inesorabile. Allora Marietta propose alla sorella:
— Esci almeno tu…
C’era nella voce, un leggero tono di stizza. Caterina rispose gaiamente:
— Perché? Preferisco tenerti compagnia.
Né l’una né l’altra temette che la clausura dovesse ricominciare. Marietta si mise a letto in camera di zia Vanna, dove c’era più aria; fu chiamato il dottore Saitta, che aveva curato la mamma; e la nuova stanza della piccola fu tenuta in penombra, tutta odorante di trementina, come era stata tenuta – per tanti mesi – la camera della mamma.
Caterina – che fu lasciata entrare di rado, – si fermava tutta sbigottita nel corridoio, spiando ogni rumore, cogliendo ogni parola, supplicando che la lasciassero accanto al lettino della malata.
Fu un ripetersi di tristi giorni lontani, un eterno incubo sospeso nell’aria, che finì piano piano.
Una sera l’aroma di trementina fu velato da un acre odore di fiori freschi e di ceri accesi, e dalle finestre spalancate giunse un lento angoscioso dondolìo di campane a morto… Così, piano piano, se ne andò Marietta.
Per Caterina fu uno schianto di cuore più grosso di quando morì la mamma. Non pianse. Come si fece il consòlo, e lei vi assisté, chiusa e infreddolita nel grande scialle nero, fra le zie che singhiozzavano, non pianse e non tacque. Parlò febbrilmente, dilatando i grandi occhi sbigottiti; parlò, come se la sorella fosse ancora di là, nell’altra stanza.
Le visitatrici si stupirono, credendo che il suo dolore fosse troppo piccolo. Ma il padre, dal suo cantuccio, la fissava inquieto; e le zie, a pena potevano, le bisbigliavano stringendole una mano:
— Coraggio… Sfoga… Piangi… Sarà meglio.
Dopo i tre giorni del consòlo la casa tornò in lutto: le finestre tutte serrate, socchiuse solo quelle che davano nel cortile. Sebbene fosse di settembre, la serva preparò i caldani, tanto le stanze restarono fredde.
Caterina pianse finalmente, la prima volta che rimise piede nella stanza da lavoro. Pianse finalmente, vedendosi seduta davanti a un posto che sarebbe rimasto sempre vuoto. Singhiozzò ritrovando nel cestino il cucito di Marietta.
Poi si calmò. Andò per casa raccogliendo tutto ciò che era appartenuto a Marietta: ogni lavoro abbandonato che nessuno avrebbe mai più ripreso; ogni oggetto: perfino la borsa, il libro da messa, il ditale. Per tutto si affacciava qualche cosa: qua c’era appeso un grembiule; lì c’era il pettine di tartaruga. Nel letto aveva portato i capelli tirati sulla fronte ed era sembrata di nuovo bambina…
Ogni oggetto un ricordo; ogni ricordo uno spasimo. La «loro» camera diventò un reliquiario: i ritratti della sorella, che sorrideva dolcemente, da diverse cornici, furono infiorati di crisantemi e di semprevivi.
Non volle che si mutasse la disposizione dei mobili.
Il lettino? Doveva restare al suo posto. Le zie dovevano continuare a dormire di là, nella stanza vicina, come «prima».
Zia Fifì arrischiò timidamente, con zia Vanna:
— Potrebbe aver paura, svegliandosi. Quel lettino vuoto…
Lei sentì. Sentiva tutto, col suo udito fine fine.
— Paura? Paura di Marietta! Cara adorata! Magari potessi rivederla! Una volta sola!
E coricandosi sospirò:
— Mariettina… anima dell’anima mia…
Il cuore doleva a chiamare chi non avrebbe risposto; e si addormentava singhiozzando sotto le coperte per non farsi sentire da zia Fifì.
Pensava che si va e si va… e pare sempre che si debba aspettare qualche avvenimento bello, e che la vita debba durare infinita; e ognuno si sente necessario agli altri e poi all’improvviso tutto finisce: si spezzano gli affetti, i sogni, le speranze che parevano grandi e la vita di chi resta ripiglia il suo corso immutabile…
Anche nella loro casa tornavano, come servi umili e silenziosi, le vecchie abitudini a pena a pena modificate. Veniva, di rado, qualche vicina o qualche parente che si univa a parlare della morta, ravvivando piccoli ricordi con cantilena.
Col tempo ricominciò a venire zio Raimondo, di sera, per fare, come prima, la solita scopa col fratello, avviando interminabili partite, durante le quali non si udiva se non il monotono «te e te»
, «te e te»
bisbigliato da chi faceva carte.
Zio Raimondo era l’oracolo di casa: non prendevano risoluzione né scioglievano quistione di famiglia senza aver sentito il suo parere; lo stesso don Tano si era sempre rimesso alla volontà del fratello. Però egli, che aveva la coscienza della sua superiorità, non apriva mai bocca per dire cose inutili. Non somigliava a don Tano che tante volte, per divagare le donne, raccontava qualche insignificante avvenimento occorso in paese:
— Il cavaliere Dara ha fatto venire un pianoforte, da fuori…
Nessuno rispondeva alla sua voce un po’ timida.
Caterina, assorta nel lavoro, presa dal vago fluttuare di vari pensieri, non desiderava rompere il letargico silenzio che le circondava l’anima. Ricamava, anche di sera, quadri da offrire alla sorella. Sul fondo di raso color lavagna tracciava un’agile ghirlanda che doveva contenere uno dei ritrattini di Marietta.
All’alba si metteva al lavoro, e a pena desinato andava a vedere l’effetto di un boccio o di una foglia abbozzata nel mattino. Perfezionandosi a ricamare strani fiori con tutte le sfumature del grigio e del cenere, viveva per i tristi pazienti lavori, amati come cose vive.
Zia Fifì osservava la nipote curva sul telaio:
— Se ne va come l’altra! — diceva a zia Vanna. — E a noi resteranno gli occhi per piangere… Quel povero Tano, poi…
— Potessimo divagarla un poco… Potessimo farle respirare un boccone d’aria…
— Io la condurrei in campagna addirittura.
— In villeggiatura?! E ci pensi ai pettegolezzi della gente? Neanche sei mesi che la buon’anima…
— Neanche sei mesi… — ripeteva zia Fifì. — Ma Caterina così non la dura.
— Raimondo dovrebbe condurre sua figlia!
E zio Raimondo una sera condusse Nenè, che era tornata da poco dall’Istituto Maria Adelaide. Ma Nenè si annoiava: chiacchierò, fece della maldicenza, prima allegramente, poi con tono pungente, mentre Caterina restava assorta con le mani unite sull...