La Certosa di Parma
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La Certosa di Parma

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La Certosa di Parma

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Questo romanzo disincanto e ironico denuncia il vuoto di valori che seguì la disfatta napoleonica. Parma, principato da operetta, è lo scenario delle piccole manovre di una corte che sarebbe grottesca se non fosse anche doppiamente inquietante: perché i potenti, spaventati dalla loro stessa piccolezza, esercitano la violenza dei deboli, e perché l'ideale repubblicano, contaminato dalla malinconia (incarnata dal personaggio di Palla), si esaurisce nelle vane follie della Sanseverina.
FONTE: Microsoft Encarta® 2009.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831622011
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici
STENDHAL

LA CERTOSA
DI PARMA


TRADUZIONE DI
FERDINANDO MARTINI

AVVERTIMENTO

Questo racconto fu scritto nell’inverno del 1830, in luogo distante da Parigi trecento leghe. Molti anni prima, quando i nostri eserciti scorrazzavan l’Europa, il caso mi pose in mano un biglietto d’alloggio per la casa d’un canonico: s’era a Padova, fortunata città in cui, come a Venezia, godersi la vita è la prima e maggior occupazione e non lascia tempo a sdegnarsi di vicinanze fastidiose. Il mio soggiorno si prolungò e il canonico ed io diventammo buoni amici.
Verso la fine del 1830, ripassando per Padova, corsi alla casa del buon canonico: era morto, e lo sapevo; ma desideravo rivedere il salotto dove avevo passato tante gradevoli serate, così spesso rimpiante. Vi trovai un suo nipote e la moglie, i quali m’accolsero come un vecchio amico; altri vennero, e ci si separò molto tardi; il nipote del canonico fece portare dal Caffè Pedrocchi un ottimo zabaglione. Ma quel che soprattutto ci tenne desti fu la storia della duchessa Sanseverina, alla quale avendo un de’ presenti accennato, il padrone di casa si compiacque di raccontarla tutta intiera per me.
«Nel paese ove vado – dissi agli amici – non troverò certamente una casa come questa; e per passar le lunghe serate, scriverò una novella sulla vostra simpatica duchessa. E farò come il vostro vecchio Bandella, vescovo di Agen, al quale sarebbe parso una colpa il trascurare i particolari veri delle sue storie o l’aggiungervene di nuovi»
«Quand’è così, – soggiunse il nipote – io vi presterò gli annali di mio zio, che alla parola «Parma» raccontano parecchi intrighi di quella Corte, quando la Sanseverina vi spadroneggiava; ma badate! è storia tutt’altro che morale; e ora che in Francia v’è entrato l’uzzolo della purità evangelica, c’è il caso che, narrandola, vi acquistiate la peggiore delle nomée.»
Pubblico questo racconto senza mutar nulla al manoscritto del 1830; il che può produrre due inconvenienti.
Il primo, per il lettore: i personaggi, italiani, probabilmente lo interesseranno meno: i cuori italiani son molto diversi dai francesi. Gli Italiani sono schietti, bonaccioni, e, quando non sospettosi o impauriti, dicono ciò che pensano; la vanità non la provano che per accessi; e allora diventa passione e si chiama «puntiglio». Infine, la povertà non è fra loro ridicola.
Il secondo inconveniente è per l’autore.
Confesso che ho osato lasciare ai personaggi le asperità dei loro caratteri; ma per compenso, lo dichiaro altamente, rovescio il biasimo della morale più rigida su gran parte delle loro azioni.
A che scopo attribuir loro la moralità superiore e le grazie del carattere francese? I Francesi amano sopra ogni cosa il denaro e non si lasciano trascinare al peccato né dall’odio né dall’amore. Gli Italiani di questo racconto sono assai differenti. D’altra parte, mi sembra che come procedendo dal Mezzogiorno al Settentrione ogni ducento leghe il paesaggio muta di natura e di aspetti, così anche il romanzo ha da diversificare. La gentile nipote del canonico, che conobbe e molto amò la duchessa Sanseverina, mi prega di non cangiar sillaba alle sue avventure veramente biasimevoli.
23 gennaio 1839.

I

MILANO NEL 1796

Il 15 maggio 1796 il general Bonaparte entrò a Milano alla testa del giovine esercito che aveva varcato il ponte di Lodi e mostrato al mondo come dopo tanti secoli Cesare e Alessandro avessero un successore.
I miracoli d’ardimento e d’ingegno che l’Italia vide compiersi in pochi mesi risvegliarono un popolo addormentato: otto giorni avanti che i Francesi giungessero, i Milanesi li credevano un’accozzaglia di briganti usi a scappar di fronte alle truppe di Sua Maestà Imperiale e Reale, che questo diceva e ripeteva tre volte la settimana un giornalucolo grande come il palmo della mano e stampato su una sudicia carta.
Nel Medioevo i Milanesi furon prodi quanto i Francesi della rivoluzione e meritarono di veder la loro città rasa al suolo dagli imperatori tedeschi. Da quando divennero «sudditi fedeli», loro cura suprema era lo stampar sonetti su pezzoline di taffetas rosa per celebrar le nozze di qualche fanciulla nobile o ricca. La quale fanciulla, due o tre anni dopo quel gran giorno della sua vita, si prendeva un cavalier servente: qualche volta il nome del cicisbeo, scelto dalla famiglia del marito, era perfino onorevolmente registrato nel contratto di matrimonio. Che differenza tra questi costumi effeminati e le commozioni profonde suscitate dal giungere impreveduto dell’esercito francese! Costumi nuovi non tardarono a sorgere, passioni nuove a manifestarsi; e tutto un popolo, il 15 maggio 1796, si accorse che quanto aveva fino allora circondato del suo rispetto era sovranamente ridicolo, odioso talora. La partenza dell’ultimo reggimento austriaco segnò la rovina delle vecchie idee: l’esporre la vita venne di moda. E si fu persuasi che per esser felici, dopo secoli d’ipocrisia e di scipitaggini, era necessario amar qualche cosa con passione vera, e sapere al caso sfidare la morte. La continuazione del geloso dispotismo di Carlo quinto e di Filippo secondo aveva come sommersi i Lombardi in tenebre profonde; rovesciate le loro statue, si sentirono a un tratto inondati di luce. Da una cinquantina d’anni, e via via che il Voltaire e l’Enciclopedia sfolgoravano in Francia, al buon popolo di Milano i frati andavano strillando che imparare a leggere o imparare una cosa qualsiasi era fatica inutile; che, a pagar regolarmente le decime al curato, e a raccontargli coscienziosamente tutti i propri peccatucci, s’era press’a poco sicuri d’avere un buon posto in Paradiso. A finir poi di prostrare questo popolo, già cosí animoso, l’Austria gli aveva venduto a buon mercato il privilegio di non fornir reclute al suo esercito.
Nel 1796, ventiquattro cialtroni vestiti di rosso costituivan la forza armata della città di Milano, e con quattro magnifici reggimenti ungheresi presidiavano la città. La licenza era estrema; le passioni assai rare; oltre al liberarsi dall’obbligo fastidioso di raccontare i fatti propri ai curati, desiderii assillanti i Milanesi del 1796 non ne avevano. Rimanevano ancora certi impacci monarchici un tantino vessatorii: per esempio, l’arciduca residente in Milano, che governava in nome dell’imperatore suo cugino, aveva avuto la proficua idea di far commercio di granaglie: quindi, divieto ai contadini di vender le loro finché fossero pieni i magazzini di Sua Altezza Imperiale.
Nel maggio 1796, tre giorni dopo l’ingresso dei francesi, un giovine pittore di miniature, un po’ matto, e il cui nome, Gros, fu celebre più tardi, udita raccontare al Gran Caffè dei Servi – allora di moda – la gloriosa impresa dell’arciduca, che era un colosso, disegnò sul rovescio del listino dei gelati, stampato in brutta carta gialla, questo schizzo: un soldato francese con una baionetta forava la pancia del grosso principe: dalla quale invece di sangue usciva una enorme quantità di grano. Quel che noi diciamo schizzo o caricatura era ignoto in quel paese di dispotismo vigile e astuto. Il disegno lasciato dal Gros sur un tavolino del Caffè dei Servi parve un miracolo piovuto dal cielo: la stessa notte fu inciso e il giorno dopo se ne venderono ventimila esemplari. Il giorno stesso, con editto affisso ne’ luoghi pubblici, si imponeva una contribuzione di guerra di sei milioni, da sopperire ai bisogni dell’esercito francese il quale, dopo aver vinto sei battaglie e conquistato venti province, non difettava piú che di calzoni, di scarpe, di abiti e di cappelli. Tale contentezza irruppe nella Lombardia, tale letizia vi diffusero quegli spiantati Francesi che soli i preti e alcuni nobili s’accorsero della gravezza della contribuzione di sei milioni, presto seguita da parecchie altre. Quei soldati ridevano e cantavano tutto il giorno: avevano meno di venticinque anni, e il generale in capo, che ne aveva ventisette, passava per il più vecchio dell’esercito. E tanta gaiezza tanta giovinezza tanta spensieratezza parevan rispondere sollazzevolmente alle furibonde predicazioni dei frati che durante sei mesi avevano dai pulpiti dipinto i Francesi quali mostri, obbligati sotto pena di morte a incendiar tutto che si parasse loro dinanzi e a tagliar teste quante più potessero: per il quale esercizio ogni reggimento marciava con, in avanguardia, una ghigliottina. Per le campagne si vedevan sulle porte delle stamberghe soldati francesi occupati a cullare i bimbi delle contadine, e quasi ogni sera qualche tamburino, strimpellando un violino, improvvisava un balletto. E poiché le contraddanze parevan troppo complicate, affinché i soldati, che del resto non le sapevano, potessero insegnarle alle campagnole, provvedevano queste a insegnare ai Francesi la monferrina, il salterello e altri balli italiani.
Gli ufficiali che erano stati, fin dove s’era potuto, alloggiati nelle case de’ ricchi, avevan urgente bisogno di riaversi. Per citare un esempio, un tenente, di nome Roberto, ebbe un biglietto di alloggio per il palazzo della marchesa Del Dongo. Questo ufficiale, giovine «requisizionario» assai svelto, quando entrò nel palazzo possedeva per tutta ricchezza uno scudo da sei franchi, riscosso a Piacenza. Dopo il passaggio del ponte di Lodi, tolse a un bell’ufficiale austriaco, ucciso da una palla di cannone, un magnifico paio di calzoni, di nanchino novissimo, e non mai indumento venne in momento meglio opportuno. Le sue spalline eran di lana, e il panno della giubba cucito alle fodere perché gli sbrendoli stessero insieme; ma c’era di peggio: le suole delle sue scarpe eran fatte coi pezzi d’un cappello, preso anche questo sul campo di battaglia di là dal ponte di Lodi. E queste suole improvvisate aderivano alle tomaie con degli spaghi assai visibili; cosicché quando il maggiordomo si presentò nella camera del tenente per invitarlo a pranzare con la signora marchesa, questi si trovò in un impiccio addirittura terribile. Il suo attendente e lui passaron le due ore che li separavano dal pranzo fatale nel tentar di ricucire un po’ la giubba, e a tinger di nero – con l’inchiostro – i malaugurati spaghi delle scarpe. Infine giunse pure il momento tremendo. «Io non mi son mai trovato più a disagio – mi confessava più tardi il tenente Roberto; – le signore si immaginavano ch’io fossi uomo da incuter terrore col solo mostrarmi, e io tremavo più di loro. Guardavo le mie scarpe e non riuscivo a camminare con garbo. La marchesa Del Dongo – aggiunse – era allora in tutto lo splendore della sua bellezza: voi l’avete conosciuta, con quegli occhi così belli e d’una dolcezza angelica, con quei bel capelli d’un biondo scuro, che danno così bene rilievo all’ovale del volto incantevole. Io avevo nella mia camera un’Erodiade di Leonardo da Vinci, che era tutto il suo ritratto. Come Dio volle, fui così colpito da quella bellezza soprannaturale che non pensai più al mio abbigliamento. Da due anni non vedevo che cose brutte e miserabili per le montagne del Genovesato: osai dirle qualche parola sul mio incantamento.
«Ma avevo ancora abbastanza buon senso per non durare a lungo in complimenti. Pur cercando d’elaborar belle frasi, vedevo in una sala da pranzo, tutta incrostata di marmi, dodici lacchè e camerieri in una tenuta che mi parve allora il colmo della magnificenza. Figuratevi che quei marioli non soltanto avevan delle buone scarpe, ma anche delle fibbie d’argento. Con la coda dell’occhio sbirciavo quegli sguardi stupidi fissi sulla mia giubba e forse anche sulle mie scarpe: e questo non mi andava giù. Avrei potuto con una parola sola farli sudar freddo, ma come metterli a posto senza rischiar di sgomentare anche le signore? Perché la marchesa per farsi un po’ animo, come ella mi disse tante volte dipoi, aveva mandato a prendere in convento, dove allora era educanda, Gina Del Dongo, sorella di suo marito, che fu più tardi la graziosissima contessa Pietranera: nessuno ne superò, a’ suoi bel tempi, la gaiezza e l’arguzia amabile, come nessuno pareggiò il suo coraggio e la serenità nell’avversa fortuna.
«Gina, che poteva allora aver tredici anni, ma ne mostrava diciotto, vivace e franca, come voi la conoscete, aveva tale paura di scoppiare in una risata a guardarmi, e vedermi in quell’arnese, che non osava mangiare: la marchesa, all’opposto, mi opprimeva di cortesie un po’ forzate: scorgeva certo ne’ miei occhi qualche segno d’impazienza. Insomma, io facevo una stupida figura e mi rodevo lo scherno, cosa che dicono impossibile a un Francese. Finalmente un’idea scese dal cielo a illuminarmi: mi misi a raccontare alle signore le mie miserie, e quel che avevamo sofferto da due anni su per le montagne genovesi, dove ci trattenevano dei vecchi generali imbecilli. Ci distribuivano, dissi, degli assegnati che non avevan corso nel paese, e tre once di pane al giorno. Non avevo parlato due minuti, che la buona marchesa aveva le lagrime agli occhi e la Gina s’era fatta seria.
«Come, signor tenente, – mi domandò – tre once di pane soltanto?
«Sì, signorina; ma, per compenso, la distribuzione mancava tre volte la settimana; e siccome i contadini, presso i quali alloggiavamo, eran anche più disgraziati di noi, davamo loro un po’ della nostra razione.
«Alzati da tavola, offrii il braccio alla marchesa, fino alla porta della sala; poi, tornando addietro rapidamente, diedi al domestico che m’aveva servito a tavola quell’unico scudo che era stato fondamento ai miei molti castelli in aria
«Otto giorni più tardi, – continuò Roberto – quando fu bene accertato che i Francesi non ghigliottinavano nessuno, il marchese Del Dongo tornò alla sua villa di Grianta sul lago di Como, dove eroicamente s’era rifugiato all’appressar dell’esercito, abbandonando alle sorti della guerra la leggiadra e giovine moglie e la sorella. L’odio che q...

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  1. LA CERTOSA DI PARMA
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  3. La Certosa di Parma
  4. LA CERTOSA DI PARMA