ANIME ONESTE.
L’ARRIVO.
Dopo la morte della vecchia donn’Anna, sistemati gli affari, Paolo Velèna prese con sè la piccola nipote e, com’era stabilito, la condusse ad Orolà, presso la sua famiglia.
Orolà è una piccola sotto-prefettura sarda, nella provincia di Sassari. Città fiorentissima sotto i Romani, decaduta poi per le scorrerie dei Saraceni, risorse sotto il dominio dei Barisone, giudici o re di Torres, e si mantenne forte sino all’abolizione dei feudi in Sardegna, avvenuta nella prima metà di questo secolo.
Nel censimento delle popolazioni sarde, fatto da Arrius, illustre ploaghese che visitò le 42 città dell’isola ai tempi del console Marco Tullio Cicerone (116-43 a. C), Orolà figurava per centomila abitanti, tra l’urbe, i castelli e i villaggi sottoposti, e Antonino di Tharros, nella relazione dei saccheggi saraceni, parla di grandi vestigi lasciati dai Romani in Orolà, fra cui magnifiche terme, costrutte sotto il pretore M. Azio Balbo. Al presente Orolà non conserva alcun ricordo della dominazione romana, tranne che nel dialetto latino, e i suoi abitanti sono appena sei o sette mila. Il suo solo monumento è Santa Croce, vecchia chiesa pisana del 1100, con affreschi del Mugano, pittore sardo del secolo XVII.
Bellissimi paesaggi circondano Orolà, e montagne granitiche chiudono il suo orizzonte. Tra le famiglie più cospicue di questa simpatica e originale cittadina erano, e sono, i Velèna, gente benestante, discendente da un ramo di principali sardi.
I principali sardi sono i membri delle famiglie potenti e ricche del popolo, per lo più vestiti in costume e attaccati alle vecchie tradizioni.
Ma i Velèna, che a poco a poco si erano trasformati in borghesi, vestivano da signori, inappuntabilmente, e la civiltà era molto inoltrata in casa loro. Non era veramente una famiglia signorile, ma si scostava molto dalla vita, dai costumi e dai pregiudizi del popolo: non si permetteva il lusso inutile di un salotto, ma tutte le stanze della casa erano arredate con eleganza, e le signorine, pur essendo ragazze massaie e fatte alla buona, seguivano la moda e frequentavano la società signorile della città.
Dei fratelli uno studiava e l’altro faceva l’agricoltore. Paolo Velèna il capo della famiglia, era anche lui agricoltore, come lo è ogni buon possidente sardo, ma più che altro era commerciante e industriale.
Suo fratello Giacinto invece aveva studiato. Presa la laurea in medicina e sbalzato in un villaggio del basso Logudoro, come medico condotto, sposò una fanciulla nobile, ma poco ricca. Da questo matrimonio ne nacque un altro, fra don Andrea Malvas, fratello della moglie di Giacinto, e una sorella dei Velèna, una ragazza fragile e nervosa, che alla notizia della morte del suo sposo, assassinato per vendetta di partito, morì di spavento, dando precocemente alla luce una bambina.
Annicca, la povera piccina nata innanzi tempo, sotto tanti tristi auspici, rimase così presso la vecchia donn’Anna, sua nonna, donna severa e triste, chiusa in un lutto eterno, quasi tragico, come è il lutto dei villaggi sardi. Dopo la morte del figlio e della nuora, la vecchia casa dei Malvas restò chiusa al sole ed alla gioia. Mai più le pareti furono imbiancate, e il fumo stese un velo opaco, color di cera, sui muri, sui mobili e sui vetri.
In quella casa silenziosa e strana, quasi funebre, Annicca passò l’infanzia e crebbe come un fiorellino smorto, di quei fiori gialli, pallidi, che spuntano nei luoghi aridi e incolti. Ma un giorno donn’Anna cadde malata e, non ostante le cure affettuose di Giacinto, morì. Allora Paolo Velèna, chiamato dal fratello, accorse nel villaggio e decise di prender seco la fanciullina. Giacinto aveva molti figli e non era in grado di addossarsi anche Annicca. Donn’Anna lasciava un tenuissimo patrimonio, gravato anche d’ipoteche e di malanni.
Dopo una settimana di accordi e di seccature Paolo accomodò alla meglio ogni affare e partì con Annicca.
La piccola dama aveva allora tredici anni. Non era ancora in grado di capire la gravità della disgrazia toccatale, e del suo stato oramai anormale nel mondo. Passato anzi il primo gran dolore per la sparizione di donn’Anna, che per lei aveva tenuto luogo di un’intera famiglia, provò un vero piacere all’idea di andare in una città, in una bella casa piena di gente.
*
Durante il viaggio, in carrozza, la veduta delle campagne che rinascevano al tiepido sole di febbraio, le dava una specie d’incantesimo.
Non aveva mai veduto tanto spazio, tanto azzurro, tanto sole, e guardava quasi spaurita lo zio, con cui chiacchierava volontieri, domandandogli ogni tratto:
— È ancora lontano? Dio mio come è lontano! — E sospirava con uno di quei rumorosi sospiri infantili che dicono tante cose.
Paolo le rispondeva affettuosamente.
Era un uomo buono e generoso, amantissimo della famiglia. In pochi giorni aveva posto un grande affetto alla bambina e credendola addolorata, come realmente essa non era, le usava ogni riguardo. Gli pareva di scorgere sul suo volto, piuttosto bruttino, una rassomiglianza marcata con quello di sua figlia Caterina, la sua prediletta.
In viaggio cominciò a dirle qualche cosa di Orolà e della sua famiglia. Annicca non chiedeva neppure a sè stessa se sarebbe stata bene accolta, se non avrebbe recato impaccio in quella casa già abbastanza popolata e affaccendata. Tutto era chiaro e preciso per lei; dovevano accoglierla festevolmente e benevolmente.
E guardava i mandorli fioriti, desiosa di andare a cogliere un gran mazzo di quei fiori, poi fissava la testa di Paolo, e veniva colta dalla voglia di chiedergli perchè i suoi capelli neri si inargentavano, mentre zio Giacinto li conservava come ala di corvo.
— Quanti anni avete? — gli chiese a un tratto.
Un sorriso sfiorò il buon volto calmo e roseo dello zio Paolo.
— Molti, molti, più di quaranta….
— Nonna ne aveva più di settanta….
Temendo che il ricordo della morta la rattristasse, Paolo cambiò subito discorso, e la interrogò sui suoi studi.
Annicca sapeva ben leggere e scrivere: aveva frequentato per quattro anni le scuole del villaggio, e Paolo restò colpito dall’intelligenza che Annicca dimostrava ricordando le cose studiate. No, non era così bambina, come dimostrava di esserlo nei suoi discorsi, o per lo meno era una bambina spiritosa, che la vita chiusa e triste non aveva punto intimidita.
— Ti piacerebbe andar alle scuole di Orolà? — le domandò.
— No. E non so leggere e scrivere ora? È meglio che mi mettano a cucire o a soffiare il fuoco.
— A soffiare il fuoco? E perchè?
Annicca non seppe spiegarlo. Vide una beccaccia svolazzare su una macchia e cominciò a battere le manine pregando lo zio di tirare sull’uccello.
Paolo scese di carrozza e la contentò.
— Peccato che non abbia meco il cane! — disse anzi. — Ci devono essere molte beccacce qui.
Era un terreno paludoso, coperto di macchie d’oleandro e di sambuchi.
Annicca volle scendere e si inzaccherò tutta.
— Sgridatemi, — disse tornando verso Paolo, — ho fatto da cattiva…. Ah, se ci fosse stata la mia nonna!
— È nulla, lascia stare. Il sole asciugherà ogni cosa, — rispose Paolo.
Ripresero il viaggio. A poco a poco Annicca si addormentò nell’angolo morbido della carrozza, e nel sonno Paolo la sentì mormorare:
— Almeno portiamo la cena…. Peccato che non ci sia stato il cane….
Alludeva alle due beccacce cacciate nelle paludi, poco prima.
Paolo la guardò affettuosamente pensando: «ne faremo quel che vorremo; è una buona piccina»
E si volse a chiacchierare col vecchio carrozziere.
*
Quando Annicca si svegliò vide che era notte fatta. La carrozza si era fermata sull’ingresso di una corte e attraverso il portone spalancato Annicca scorse, all...