L'altare del Passato
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L'altare del Passato

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I racconti di Gozzano, tenui e ironici come le sue raccolte poetiche migliori (La via del rifugio e I colloqui), ci danno modo di conoscere un Gozzano prosatore in nulla minore al Gozzano poeta.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831626972
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

GUIDO GOZZANO

L’ALTARE DEL PASSATO

L’ALTARE DEL PASSATO

Ho ripensato al conte Fiorenzo X… l’altro giorno, dinnanzi al suo palazzo distrutto, con una mia cara amica, settantacinquenne.
E la signora mi rivelò un mistero sentimentale, un poco buffo, che dormiva nel mio ricordo da quasi vent’anni.
***
Io frequentavo la casa dei conti X… diciott’anni or sono - ne avevo otto - ed ero coetaneo di Vittorino, il nipote del conte; facevo con lui la terza elementare in quella triste scuola dei Padri Barnabiti, nella vecchia Torino.
L’amicizia dei due scolaretti era nata per interesse reciproco; Vittorino era forte in matematiche, io in componimento; l’uno svolgeva i temi, l’altro i quesiti. E ci si scambiava l’ospitalità nei giorni di vacanza. Per giungere alla casa del mio amico, si passava attraverso la parte vecchia della città - ora quasi tutta scomparsa - un labirinto di viuzze buie ed umidicce odoranti di bettola e di conceria, di frutta marcia e di vinaccia, dove il cielo appariva dall’alto come un nastro sottile e tortuoso, fra le mura decrepite dei palazzi nobiliari.
Rivedo il palazzo del mio amico. Un edificio di puro ‘600 piemontese; una serie di finestroni immensi; sulle due colonne d’ingresso un gran balcone dalla ringhiera curva con in mezzo l’anagramma in corsivo e la corona comitale, e molte campanule, molte rose, molti garofani che s’attorcevano, straripavano tra i ferri consunti come fresche capigliature.
Era lo studio del conte Fiorenzo, e quelli erano i fiori coltivati con le sue mani.
L’atrio e la scala erano a colonne di granito, vasti, cupi, freddi, polverosi. Non c’era portiere. Da portiere fungeva quel povero Mini - il fedelissimo del conte, suo compagno di gioventù, di viaggi, d’avventure - il quale era anche cuoco, domestico, staffiere, maestro, e completava, con una fantesca decrepita come lui, ed un giovinetto avventizio, tutta la servitù della casa.
Triste casa, dove fin dalla soglia s’intuiva l’abbandono, la decadenza, l’orgoglio pertinace, la ristrettezza mal dissimulata.
Quanti giovedì, quante domeniche, trascorse in quelle sale oscure, fra quelle cose tarlate, logore, stinte!
All’ultima parola del còmpito - fatto subito al mattino, sotto l’egida del conte Fiorenzo - si balzava dalla sedia con un grido di sollievo, si prendeva di corsa il grande corridoio oscuro, si giungeva precipitosi in cucina, a somma desolazione del povero Mini, della povera Ghita affaccendati per la colazione.
E per tutto il giorno si cercava d’interpretare a rovescio i rettorici ammonimenti del Libro di Buona Lettura.
Somme nostre delizie - fra le confessabili - aizzare la servitù, spellare il pollame nelle capponaie, colpire con il Flobert gli antenati delle vecchie tele, tormentare la zia Ernesta, la maniaca del secondo piano, salire sui solai, e di là, protesi a certe finestrette ovali, lanciare cartocci pieni d’acqua o peggio sulla testa dei passanti.
A mezzodì preciso scoccava la campana per la colazione. Allora si lasciava ogni cosa , ci si lavava, ci si ricomponeva per tavola una maschera di dolce ipocrisia.
Se chiudo gli occhi rivedo la vasta sala da pranzo, rivedo in una mezz’ombra alla Rembrandt le varie figure. La marchesa Amalia, vedova e mamma del mio amico, la zia Ernesta, muta e spettrale, lo zio prete gesuitico e goffo, lo zio capitano goffo e arrogante.
E fra tutti la bella figura - l’unica simpatica - del conte Fiorenzo, il signor papà: un bell’uomo dalla persona ancora agile e svelta, dalla folta chioma d’argento, dal profilo perfetto di vecchio Lord Byron decaduto…
Egli - comprendo oggi - era uno spirito colto, infinitamente superiore ai suoi figli; a quei due campioni mediocri della chiesa e dell’esercito, a quella zitella idiota, a quella vedova arcigna e irascibile. Doveva essere stato il giovane sentimentale e romantico, l’intellettuale dei suoi tempi, nutrito di Byron e di Lamartine, d’Alfieri e d’Aleardi… Ricordo certe discussioni coi figli, ho impresse nella memoria intere sue frasi.
“…ancora una volta; l’Alfieri va esaltato non fosse che per una cosa sola: aver trovato metastasiana l’Italia e averla lasciata alfierana!…”
E rivedo la sua mano alzata, mano pallida e perfetta di patrizio, dall’indice adorno di un grosso cammeo, la bella testa candida sfavillante in un raggio di sole obliquo, la bocca volontaria, l’occhio azzurro, giovanile, sotto il vasto arco cigliare.
E non era il caso di pensare ad una vita austera, alla virtù premiata… Doveva avere avuto un’esistenza gaudiosa… viaggiato molto, amato molto, dissipato molto, secondo i dettami della poesia del suo tempo. E la sua giovinezza doveva essere stata avventurosa, magnifica, inverosimile come un romanzo di Chateaubriand.
- Al presente viveva quasi del tutto a carico della figlia e il tramonto del povero vecchio non era sereno. Si capiva quando mancavano lo zio prete, lo zio capitano, e a tavola sedevamo soli: l’idiota e noi bimbi da una parte, lui e la figlia dall’altra.
Costei aizzava il padre con la spietata freddezza del malvagio che deve elargire e sa d’essere necessario alla vittima, e difficilmente giungevano alle frutta senza un alterco; alterco signorile, fatto di silenzi eloquenti e di poche parole sanguinose. Argomenti soliti: un gioiello da rendere, un cavallo da acquistarsi, un conto da soddisfare; e a ritornello di lei la dissipatezza di lui, le prodigalità passate, l’orgoglio, le follie…
Noi bimbi si taceva, gli occhi sul piatto di maiolica antica, intenti all’approdo di Ulisse o alla desolazione di Penelope tra i legumi in salsa di pomodoro.
- Je ne payerai pas, voilà tout! - diceva lei; poi a voce pianissima: sibilando: - Vieux fou!
- Tu as dit?… Tu as dit?…
Il conte sobbalzava sulla sedia con tutti i muscoli del volto contratti dall’insulto figliale.
- Tu as dit?…
Quella non rispondeva, piegava il tovagliolo lentamente, s’alzava calma ed implacabile, spariva.
Il conte la seguiva con lo sguardo chiaro, fissava alcuni secondi la porta di dov’era scomparsa, poi si rivolgeva a noi di scatto, con volto ridente, con voce gaia, battendo le mani, quasi a scuotere il suo strazio e il nostro silenzio.
- Ah! Les gamins! Les gamins! Maintenant où allonsnous aujourd’hui? A Superga? Alle corse? Al Gianduia?
E mentre noi si discuteva a lungo sulla mèta, egli s’aggirava per la sala da pranzo, alternando un sorso di cognac alla sigaretta: toglieva dal piccolo scaffale un volume, leggeva ad alta voce, con gesto largo, la strofa di qualche poeta, canterellava, fissava il cielo e il soffitto, sognando…
***
Aveva una grande simpatia per me e mi prediligeva al nipote.
Forse la sua vecchiaia di sognatore intuiva nella mia infanzia strana, inquieta, curiosa, i germi della futura tabe letteraria…
Nelle lunghe passeggiate in città od in collina lo assalivamo di perchè, tormentandogli le mani se indugiava nella risposta, e ricordo ancor oggi - ammirando - la profondità di certe sue spiegazioni, la chiarezza poetica con la quale ci rendeva facile il congegno del parafulmine o del telefono, la metamorfosi del maggiolino, l’anatomia del fiore.
Ma il sancta sanctorum della nostra curiosità erano le sue stanze.
- Chez monsieur le Comte! - diceva premurosa la servitù.
- L’appartement du Grand-Papa! - diceva il mio amico, l’indice al labbro, misteriosamente.
Per giungervi bisognava percorrere tutta la casa; una grande doppia porta dava nello studio, la sala del balcone fiorito. L’ambiente severo ed elegante rivelava il sognatore ed il raffinato, lo studioso e l’uomo mondano. Da un lato una vasta biblioteca saliva fino al soffitto, tutelata da una serie di busti marmorei che formavano la mia grande meraviglia.
- Monsieur le corate, est-ce que c’est la tante Erneste, celle-là?
- Ah! Non, mon petit, - diceva egli ridendo -; c’est Dante Alighieri, le père des poètes.
- Alors, est-ce que c’est vous, monsieur le comte, ce monsieur-là?
- Mais non! C’est Lord Byron, mon très-cher poète anglais.
Allora toglieva dagli scaffali una grande Divina Commedia illustrata, o Don Giovanni, o Il Corsaro, e ci sfogliava le belle stampe protette da un foglio di carta velina. Erano quelle, per me, ore di sogno beato.
Ma il mio amico si stancava quasi subito, costringeva il nonno a cose più gaie.
Allora il vecchio animava un armonium sul quale certe fontane zampillavano un loro zampillo di vetro a spirale e dove pastori e pastorelle cominciavano a danzare su di un’aria flebile e roca… O si passava nella sala attigua, fra le rarità che il conte aveva portate dai suoi viaggi d’Oriente, o spingevamo la curiosità fino alla sua camera da letto, parata nello stile dell’Impero, a strie gialle e turchine.
E si giungeva alla porta chiusa, alla stanza misteriosa dove nessuno era penetrato mai.
***
La stanza chiusa!
Il mio amico me ne parlava sovente, leggendo la favola di Barbe-bleu
- Tu sais que grand-papa aussi a une cbambre où personne n’entre jamais… Mini pas même (ch’era dir tutto), ni les oncles, ni maman… C’est défendu…
- Mais qu’est-ce qu’il y a donc au dedans?
- Sais pas… sais pas… - faceva il mio amico stringendosi nelle spalle con misterioso terrore.
La mia fantasia s’accendeva.
In cucina si tormentava per ore ed ore la servitù.
- Mini, che cosa c’è là dentro?
- I prigionieri del ‘48! - e sorrideva.
- Non è vero!
- I selvaggi del Malabar! - e sorrideva.
- Non è vero! Mini, tu sai e non vuoi dire!
Sapeva e non voleva dire. Si lasciava assalire alle spalle, piegare le ginocchia, strappare le fedine rossiccie, percuotere, ma taceva e sorrideva.
La cuoca interveniva.
- Da bravi, signorini! Si quietino e glie lo dirò io, in segreto.
Noi si lasciava la vittima, illusi qualche secondo dalla promessa.
- Il signor conte ha là dentro una gran bestia, portata dall’India, tanti anni fa… E Mini solo la può vedere, e va a trovarla due volte per settimana.
Noi si ascoltava, poco persuasi.
E io pensavo, intanto, ben altre cose.
Io non sono mai stato innocente.
Io - che fui e sarò sempre insanabilmente ingenuo - non trovo, pur risalendo alla mia infanzia, la cosa che si chiama il candore, ma la mia anima precoce, la mia malizia impubere, alle vedette.
Ora un giorno, dopo che Mini e Ghita s’erano affaticati a descriverci la belva prigioniera, e il pelo e le corna e le zanne e la coda, io interruppi quelle meraviglie zoologiche concludendo:
- Vittorino! J’ai compris maintenant ce qu’il y a au dedans! Il y a la bien-aimée de ton grand-papa!
I due...

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