Il Dio dei viventi
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"Il Dio dei viventi" è un romanzo di Grazia Deledda del 1922, ingiustamente trascurato dai critici. Il romanzo prende le mosse dalla morte di Basilio Barcai, un piccolo possidente terriero. Basilio muore lasciando solo un figlio illegittimo. Per questo sarà suo fratello Zebedeo a occuparsi dei suoi beni e del testamento che il fratello ha lasciato in sospeso. Zebedeo nasconde il testamento di Basilio per mantenere all'interno della propria famiglia l'eredità che spetterebbe invece al figlio illegittimo del fratello defunto. Zebedeo, però, non riuscirà a liberarsi del senso di colpa per il misfatto compiuto. Infine si offrirà di sostenere economicamente l'amante del fratello e il figlio che è nato dalla loro relazione, ma non confesserà mai il suo crimine.
Nell'espediente narrativo dell'eredità contestata trova voce una delle tematiche principali della Deledda, le colpe scontate sulla terra, finché si è ancora vivi. Perché, come dirà uno dei personaggi della famiglia di Zebedeo: "il giudizio universale è sulla terra a tutte le ore e Dio non è il Dio dei morti ma il Dio dei viventi".

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831628068
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

IL DIO DEI VIVENTI

Iddio non è Dio dei morti, ma Dio dei viventi.
Marco, XII.
Le cose erano andate come la famiglia Barcai sperava. Il fratello maggiore, Basilio, scapolo ma padre di un figlio illegittimo, era morto senza lasciare testamento. Così i suoi beni tornavano al fratello minore Zebedeo; il patrimonio Barcai si ricomponeva come ai tempi del vecchio nonno il quale aveva costretto due suoi figliuoli a farsi preti e una figlia a non prendere marito perchè i suoi beni non andassero divisi.
E la tradizione prometteva di continuare perché Zebedeo non aveva che un figlio e la gente diceva che quel figlio era rimasto unico per volontà dei genitori nella speranza appunto che lo zio morisse scapolo.
Le cose erano dunque andate come si prevedeva e la gente, data la tradizione dei Barcai, non si meravigliava della poca coscienza di Basilio, il quale non aveva lasciato nulla al figlio, e che d’altronde era morto d’improvviso d’un male al cuore da lui sempre trascurato.
Nonostante l’eredità la sua morte aveva impressionato profondamente il fratello, col quale si amavano sempre come da bambini e si aiutavano negli affari e nelle vicende della vita. Abitavano la stessa casa divisa in due parti eguali col cortile in comune: una parente povera faceva i servizi a Basilio e poichè era molto vecchia la moglie di Zebedeo l’aiutava.
La sera dopo il funerale Zebedeo uscì di casa tutto incappucciato e andò dall’amica del fratello.
Il suo pensiero fisso era di aiutare in qualche modo lei e il ragazzo: la sua coscienza glielo imponeva nettamente.
La donna abitava non troppo distante, in una casetta di proprietà del morto: anzi Zebedeo ricordava che la relazione peccaminosa era nata appunto dal fatto che lei e il marito, fabbro ferraio, tenevano da molti anni la casa in affitto; un giorno l’uomo decise di andare in America in cerca di fortuna e durante la sua assenza la moglie si consolò col padrone di casa.
Avvertito da lettere anonime il fabbro era tornato col proposito di spaccare la testa col suo martello ai due amanti; ma in viaggio lo aveva colto una paralisi alle gambe; la gente diceva per opera d’una malia della moglie.
Il fatto sta ch’egli s’era fermato nel paese di sbarco dove con l’aiuto dei quattrini portati dall’America aveva aperto un negozio di ferramenta che gli rendeva molto.
Di tanto in tanto scriveva lettere violente alla moglie minacciando di ucciderla, poi non si faceva più vivo.
*
Zebedeo pensava a tutte queste cose camminando rasente i muri per non farsi riconoscere dai pochi passanti. La notte era chiara, illuminata da una vivissima luna: quando attraversava qualche spazio libero egli vedeva la sua ombra disegnarsi sul terreno con contorni nettissimi come una figura dipinta in nero, una figura diabolica, con quel profilo del cappuccio del cappotto corto stretto alla vita, le gambe lunghe chiuse dalle ghette di lana.
Le sue scarpe erano pesanti; tuttavia egli camminava lieve, agilissimo com’era, tutto muscoli e nervi; se nemici l’avessero assalito si sentiva capace di difendersi con le sue sole mani afferrandoli e atterrandoli in gruppo. Ma egli non aveva nemici e nessuno pensava ad assalirlo in quella mite notte di aprile.
Eppure aggrottava le sopracciglia e stringeva i pugni istintivamente come se un pericolo occulto lo minacciasse. Pensava alla morte del fratello: ecco, uno se ne va tranquillo per la sua strada sicuro di sè e degli altri e allo svolto un fantasma lo aspetta, gli dà un colpo, lo fa stramazzare.
Il suo viso era così corrucciato e scuro fra il nero della barba e dei capelli che la donna venutagli ad aprire provò un senso di paura: o almeno lo finse.
Tuttavia lo fece entrare subito con premura silenziosa, e con voce turbata lo invitò a sedere.
Egli sedette, rigido con le grandi mani nere sulle ginocchia.
Il fuoco era ancora acceso nel camino e un certo senso di benessere si avvertiva intorno, in quella cucina pulita ove ogni oggetto era a posto e la tavola lavata sembrava nuova. Una sedia, bassa accanto al focolare aspettava un visitatore che non doveva arrivare mai più; e poichè Zebedeo s’era seduto lontano dal camino quasi avesse paura, o sdegno della luce e del calore del fuoco, i grandi occhi neri della donna corsero a quella sedia vuota subito illuminandosi di lagrime: il suo viso però non si scompose, sottile acuto, con qualche cosa che ricordava a Zebedeo la faccia della faina.
Egli la guardava in silenzio. Tu non mi imbrogli con le tue lagrime, pensava, osservando ch’ella era vestita completamente di nero come una vedova, con un giubbettino che dava risalto alle forme procaci del seno.
— E il ragazzo? — domandò poi bruscamente.
— È già a letto: non sta molto bene.
— Cos’ha? — egli insistè con premura esagerata. — Se sta male devi curarlo. Chiama il dottore. Il dottore è obbligato a venire, quel mangia tutto, che lo possano ammazzare entro otto giorni.
La sua voce era squillante sebbene egli parlasse a denti stretti scandendo le parole, con pause profonde fra un periodo e l’altro, come suonasse una campana e per il primo desse ascolto ai rintocchi.
Anche il suo sdegno contro il dottore era ostentato: la donna ebbe un fugace sorriso cattivo.
— Non occorrerà, il dottore, che il fuoco lo bruci, — disse anche lei con accento di malevolenza; — a me non garbano le sue visite, e ne faccio sempre a meno. Il ragazzo lo curo da me, quando occorre; chi è che non sa curare un ragazzo? E anche un grande, se occorre. Se….
“Se Basilio si fosse confidato con me, se fosse stato qui al momento del male forse lo avrei salvato” voleva dire, ma non lo disse: aveva un certo pudore a pronunciare quel nome davanti a Zebedeo e anche lui d’altronde pareva volesse evitare di ricordarlo.
— Il ragazzo studia? L’ho veduto un giorno che tornava di scuola e continuava a leggere per strada. Ha due occhi neri che parlano e ridono da soli.
— Il ragazzo studia, — ella confermò con voce bassa, e sorda; e sospirò profondamente. — Povero Salvatore! Mamma, mi dice sempre, quando ero nella culla tu mi cantavi una canzone che diceva: cresci e diventa studente, gioiello mio, che la tua fama si spanda dalla Corte di Roma alla Corte di Spagna. Ecco perchè mi sono messo in mente di studiare e diventare dottore.
Ella si piegava e si dondolava un poco quasi stesse ancora a cullare il suo bambino; ma si raddrizzò ostile nel sentire le parole di Zebedeo.
— Il mio Bellia invece non ha voluto sentirne, di studiare; fatta la terza disse: basta oh adesso, anche se mi mandate a scuola io me ne vado nel podere e mi metto a zappare.
— Il tuo Bellia ha ragione: che se ne fa dello studio lui che ha tanta roba a cui badare?
Richiamato allo scopo per cui era venuto, l’uomo aggrottò le ciglia e chiuse un po’ gli occhi come per guardare dentro sè stesso e ascoltare meglio la sua coscienza: e si fece forza per pronunziare finalmente il nome del fratello.
— Lia, — disse con tristezza — tu sai che Basilio non ha lasciato nessuno scritto. Abbiamo cercato da per tutto inutilmente: indosso non aveva nulla o nulla si è trovato a casa. A te, Lia, non ha mai consegnato qualche carta?
— A me nulla, Zebedeo, ma mi diceva sempre, fino alla vigilia della sua morte, che avrebbe provveduto a me e al ragazzo come fossimo legati a lui dalla legge.
— Lia, — egli riprese dopo un momento di silenzio, — mi hanno riferito che tu oggi saputo che non si è trovato nessuno scritto, ti sei buttata per terra strappandoti i capelli, e che gridavi chiedendo giustizia a Dio; gridavi in modo che una vera folla si è accumulata intorno a casa tua e molti volevano fare una colletta per il tuo Salvatore. Idioti e mendicanti lebbrosi che essi sono, — egli ringhiò ancora sdegnato, — che credono essi? Che i Barcai non abbiano un’anima e un onore?
La donna ascoltava intensamente; i suoi occhi si facevano più vivi, il suo viso più acuto; e pareva guatasse nell’ombra fissando l’uomo come una preda.
— Chi ti ha raccontato tutto questo esagerava, Zebedeo. C’è sempre gente che prende gusto e seminare zizzania. Io piangevo, è vero, ed è da tre giorni che piango; ma piango lui, non la sua roba. Egli non tornerà più qui, questo solo mi fa urlare, per il resto c’è Dio. Per allevare mio figlio e farne un uomo basto io sola con le mie braccia. Andrò a spaccare pietre se occorre ma nulla mancherà alla mia creatura. Per il resto c’è Dio, — ripetè; e le sue parole avevano qualche cosa di nascosto, di misterioso.
— Che cosa vuoi dire con questo?
— Che Dio vede tutto. Se Basilio ha creduto di far così, vuol dire che Dio voleva castigarmi per mezzo suo. Tu hai peccato, mi dice, e tu alleverai il figlio della colpa fra il dolore e la povertà. Dio è giusto; è la giustizia stessa.
— Tu non mancherai di nulla. La casa ce l’hai, le provviste non ti mancheranno. Se tuo figlio non potrà diventare maestro o dottore diventerà contadino o pastore; ma nulla ti mancherà.
— Se Basilio fosse vissuto mio figlio non diventava nè contadino nè pastore, — ella disse con fierezza; e subito Zebedeo intese ch’ella pretendeva si facesse continuare a studiare il ragazzo; ma egli aveva ben altre idee e in fondo era geloso dell’intelligenza e delle buone disposizioni del piccolo Salvatore: perchè Salvatore doveva diventare un dottore mentre Bellia rimaneva un contadino?
Lì per lì non seppe dunque rispondere sebbene sentisse lo sguardo di Lia penetrargli fino all’anima: e aveva l’impressione che ella gli leggesse nel pensiero e indovinasse tutto di lui: ma lui non era un uomo debole e quello che voleva voleva. Riprese:
— Io non so che intenzioni avesse Basilio riguardo al ragazzo; non me ne parlò mai. Eravamo molto legati, molto fratelli, ma riguardo ai suoi fatti intimi era molto chiuso. So però una cosa: che egli non amava la gente che va fuori del paese. Diceva: se Dio ci ha fatto nascere in questo posto vuol dire che dobbiamo viverci; più si sta raccolti in una casa o in un ovile più si sta bene e tranquilli. Era un uomo di senno, Basilio.
— Era un uomo di senno — confermò la donna: — ma a me diceva che non bisogna...

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  1. Grazia Deledda
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