Cosima
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"Cosima" è un romanzo autobiografico di Grazia Deledda, pubblicato nel 1936, dopo la morte dell'autrice. Il romanzo narra la vita di una ragazzina della provincia sarda, che cerca di coronare il suo sogno di diventare scrittrice. I sogni di Cosima sono i sogni della scrittrice medesima, e lo stesso si può dire delle umiliazioni patite, dei fallimenti letterari e i primi successi. Ma il libro non è solo narrazione della realizzazione di un sogno. Vengono rievocati gli anni dell'infanzia, della prima giovinezza, dei primi amori e quel mondo antico e selvaggio in cui domina il fascino di una terra passionale e sanguinosa.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831628075
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

COSIMA


Grazia Deledda

COSIMA

La casa era semplice, ma comoda: due camere per piano, grandi, un po’ basse, coi pianciti e i soffitti di legno; imbiancate con la calce; l’ingresso diviso in mezzo da una parete: a destra la scala, la prima rampata di scalini di granito, il resto di ardesia; a sinistra alcuni gradini che scendevano nella cantina. Il portoncino solido, fermato con un grosso gancio di ferro, aveva un battente che picchiava come un martello, e un catenaccio e una serratura con la chiave grande come quella di un castello. La stanza a sinistra dell’ingresso era adibita a molti usi, con un letto alto e duro, uno scrittoio, un armadio ampio, di noce, sedie quasi rustiche, impagliate, verniciate allegramente di azzurro: quella a destra era la sala da pranzo, con un tavolo di castagno, sedie come le altre, un camino col pavimento battuto. Null’altro. Un uscio solido pur esso e fermato da ganci e catenacci, metteva nella cucina. E la cucina era, come in tutte le case ancora patriarcali, l’ambiente più abitato, più tiepido di vita e d’intimità.
C’era il camino, ma anche un focolare centrale, segnato da quattro liste di pietra: e sopra, ad altezza d’uomo, attaccato con quattro corde di pelo, alle grosse travi del soffitto di canne annerite dal fumo, un graticcio di un metro quadrato circa, sul quale stavano quasi sempre, esposte al fumo che le induriva, piccole forme di cacio pecorino, delle quali l’odore si spandeva tutto intorno. E attaccata a sua volta a uno spigolo del graticcio, pendeva una lucerna primitiva, di ferro nero, a quattro becchi; una specie di padellina quadrata, nel cui olio allo scoperto nuotava il lucignolo che si affacciava a uno dei becchi. Del resto tutto era semplice e antico nella cucina abbastanza grande, alta, bene illuminata da una finestra che dava sull’orto e da uno sportello mobile dell’uscio sul cortile. Nell’angolo vicino alla finestra sorgeva il forno monumentale, col tubo in muratura e tre fornelli sull’orlo: in un braciere accanto a questi si conservava, giorno e notte accesa e coperta di cenere, un po’ di brace, e sotto l’acquaio di pietra, presso la finestra, non mancava mai, in una piccola conca di sughero, un po’ di carbone; ma per lo più le vivande si cucinavano con la fiamma del camino o del focolare, su grossi treppiedi di ferro che potevano servire da sedili. Tutto era grande e solido, nelle masserizie della cucina; la padella di rame accuratamente stagnate, le sedie basse intorno al camino, le panche, la scansia per le stoviglie, il mortaio di marmo per pestare il sale, la tavola e la mensola sulla quale, oltre alle pentole, stava un recipiente di legno sempre pieno di formaggio grattato, e un canestro di asfodelo col pane d’orzo e il companatico per i servi.
Gli oggetti più caratteristici erano sulla scansia; ecco una fila di lumi di ottone, e accanto l’oliera per riempirli, col lungo becco e simile a un arnese di alchimista: e il piccolo orcio di terra con l’olio buono, e un armamento di caffettiere, e le antiche tazze rosse e gialle, e i piatti di stagno che parevano anch’essi venuti da qualche scavo delle età preistoriche: e infine il tagliere pastorale, cioè un vassoio di legno, con l’incavo, in un angolo, per il sale.
Altri oggetti paesani davano all’ambiente un colore inconfondibile: ecco una sella attaccata alla parete accanto alla porta, e accanto un lungo sacco di tessuto grezzo di lana, che serviva da mantello e da coperta al servo: e la bisaccia anch’essa di lana, sulla quale alla notte dormiva, quando era in paese, lo stesso servo, pastore o contadino che fosse.
Sull’acquaio non mancava mai un paiolino di rame pieno d’acqua attinta al pozzo del cortile, e su una panca l’anfora di creta con l’acqua potabile, faticosamente portata dalla fontana distante dall’abitato. L’acqua era allora un problema, e se ne misurava, d’estate, ogni stilla; a meno che non sopraggiungesse un buon acquazzone a riempire la tinozza collocata sotto il tubo di scolo dei tetti: eppure la pulizia più diligente, praticata a secco, rendeva piacevole tutta la casa.
Dalla finestra, munita d’inferriata, come tutte le altre del piano terreno, si vedeva il verde dell’orto; e fra questo verde il grigio e l’azzurro dei monti. La porta invece, come si è detto, dava sul cortile triangolare, piuttosto lungo e occupata quasi a metà da una rustica tettoia dalla quale, per un usciolino, si andava nell’orto. In fondo c’era il pozzo, e, sotto il muro alto di cinta, una catasta di legna da ardere, rifugio di numerosi gatti e delle galline che vi nascondevano il nido delle uova. Un’asse appoggiata su due ceppi, accanto al muro laterale della casa, ancora grezzo e sul quale, al primo piano, si apriva una sola finestra (le finestre erano tutte senza persiane), serviva da sedile. E un grande portone fermato anch’esso da ganci e stanghe, tinto di un color marrone scuro, dava sulla strada. Di giorno era quasi socchiuso, e, più che il portoncino della facciata, serviva per il passaggio degli abitanti e degli amici della casa.
A questo portone, una mattina di maggio, si affaccia una bambina bruna, seria, con gli occhi castanei, limpidi e grandi, le mani e i piedi minuscoli, vestita di un grembiale grigiastro con le tasche, con le calze di grosso cotone grezzo e le scarpe rustiche a lacci, più paesana che borghese, e aspetta, dondolandosi, che passi qualcuno o qualcuno si affacci a una finestra di fronte, per comunicare una notizia importante. Ma la strada, stretta e sterrata, in quell’ora fresca del mattino è ancora deserta come un sentiero di campagna, e nella vecchia casa di contro, anch’essa con l’alto muro di un cortile a fianco e un portone rossastro, non si vede nessuno. Questa casa è abitata da un canonico, un lungo e nero asceta taciturno, e da una sua giovane nipote intelligente, che avrebbe voluto farsi suora, ma dopo qualche mese di noviziato è stata rimandata a casa per la sua cagionevole salute. Gente per bene, semplice e austera. Il canonico si lamenta che nessuno, per la strada, lo saluti: è lui, invece, che cammina sempre ad occhi bassi e assorto nelle sue speculazioni religiose: la nipote, visto che Dio non l’ha voluta in sposa, si compiace della corte discreta di un bel giovane ebanista, decisa però a non sposarlo perché non è un proprietario o un funzionario come converrebbe a lei. La bambina sul portone, sa queste cose, e considera i suoi vicini di casa come personaggi straordinari. Tutto, del resto, è straordinario per lei: pare venuta da un mondo diverso da quello dove vive, e la sua fantasia è piena di ricordi confusi di quel mondo di sogno, mentre la realtà di questo non le dispiace, se la guarda a modo suo, cioè anch’esso copi colori della sua fantasia.
Odori di campagna vengono dal fondo della strada; il silenzio è profondo, e solo il rintocco delle ore e dei quarti suonati dall’orologio della cattedrale, lo interrompono. Passano le rondini a volo, sul cielo azzurro denso, un po’ basso come nei paesaggi dei pittori spagnoli, ma anche le rondini sono silenziose. Finalmente una finestra si apre nella casa di fronte, e un viso bruno, coi grandi occhi velati dei miopi, si sporge a guardare qua e là negli sfondi della strada. È la signorina Peppina, la nipote del canonico. La bambina si solleva tutta, afferrandosi allo spigolo del portone per allungarsi meglio, e grida la notizia per lei importantissima:
Signora Peppina, abbiamo un bambino nuovo: un Sebastianino.
Risultò poi che era una femmina: ma la bambina desiderava un fratellino; e se lo era inventato, col nome e tutto.
Soddisfatta, rientrò nella cucina e aspettò che la serva finisse di cuocere il latte per la colazione. Bisogna dire due parole di questa serva, che, a ricordarla, sembra anch’essa una invenzione fuori della realtà. Si chiamava NannaNota 1; e adesso siede certamente alla destra di Dio, fedele ancora ai suoi padroni, nella schiera dei Patriarchi. Da venti anni era al servizio della casa, altri venti ne doveva trascorrere. Aveva allora trent’anni; era venuta bambina, da un tugurio di santi poveri, per badare al primo bambino dei padroni, che era morto dopo pochi mesi dalla nascita, ma lasciando il posto nella culla ad un altro. Primitiva era anche questa culla, come scavata nel tronco d’un noce, senza veli né ornamenti, e non rimaneva mai vuota.
Nanna era ancora una bella donna, con gli occhi castanei di cane buono, un mazzetto di peli all’angolo destro della bocca, i seni lunghi e bassi delle razze schiave. Schiava non era certo, in quella casa, e tutto le veniva affidato, compresi i bambini, che dormivano con lei, e che lei si trascinava appresso quando andava per le commissioni. Se lavorava giorno e notte lo faceva volontariamente: andava a prendere l’acqua alla fontana, a lavare i panni lontano, dove si trovasse qualche rigagnolo, puliva la farina e faceva, con la padrona, il pane di frumento e quello di orzo: andava a battere gli olivi nel podere, a cogliere ghiande per il maiale, nel bosco della montagna; spaccava la legna, dava da mangiare al cavallo; le toccava anche di spazzare il tratto di strada davanti alla casa, poiché il Comune non se ne incaricava; e al tempo della vendemmia pigiava l’uva coi suoi forti piedi nudi rivestiti d’una pelle che sembrava conciata. E lo stipendio glielo serbava il padrone, che lo metteva a frutto: quando ella aveva avuto venti anni ed era bella e quasi bionda i maligni dicevano che il padrone aveva un debole per lei; ma erano chiacchiere e il tempo le dissipò.
Ecco adesso ella cuoce attenta il latte sul fornello sopra il forno grande: per l’occasione del parto della padrona si è messa le scarpe, senza calze s’intende, pronta a tutti gli ordini: una ruga le solca la fronte e le sue orecchie sono tese come quelle delle lepri. La responsabilità della casa è adesso tutta sua, ed ella profitta della sua padronanza solo per sorbirsi qualche tazzina di caffè in più, sola sua passione.
I ragazzi vengono uno ad uno a prendere il caffè e latte, che ella versa nelle rotonde tazze di creta gialla e rossa: anche i più grandi, che sono maschi e frequentano già il ginnasio della piccola città. Il maggiore, Santus, è un bel ragazzo col profilo e gli occhi grandi, d’un grigio celeste, dalla sclerotica azzurra: ha un’aria pensosa e leale, veste già con qualche ricercatezza, e mentre beve il suo caffè e latte finisce di ripassare la lezione di latino. L’avvenimento della casa non lo sorprende né lo turba: ne conosce il mistero e lo accetta come una cosa naturale. I suoi sensi sono calmi, quasi freddi: la fantasia misurata. Non ama le donne, non pensa che a studiare, approfondire le cose della vita, ma attraverso i libri. No, non ho fantasia, ma forse anche lui è un po’ visionario, come la sorella piccola, e viene da un mondo lontano dalla cruda realtà. Ha fretta di andare a scuola, coi libri ben legati con una cinghia, e non si preoccupa se l’altro fratello invece ritarda e forse dorme ancora nella loro camera all’ultimo piano che ha due finestre, una sulla facciata, l’altra sui tetti sottostanti della dispensa e della rimessa e di altri ripostigli.
E infatti prima di lui scendono le due sorelle maggiori, Enza e Giovanna, che vanno anch’esse a scuola, piccole di statura, quasi eguali come due gemelle, con gli occhi celesti e i capelli neri stretti stretti in una treccia che finisce con un ricciolo. I loro vestiti sono davvero buffi, con la sottana larga e lunga allacciata alla vita intorno alla camicetta a sprone con le maniche abbondanti: il tutto di un tessuto a striscie colorate: della stessa stoffa è la borsa per i libri: hanno anch’esse le calze bianche e gli scarponcini coi chiodi; e in testa fazzoletti di seta che già però esse annodano con civetteria sulla guancia sinistra, lasciando scoperti i capelli fino a metà testa.
La piccola, Cosima, che ancora non ha l’età di andare a scuola, le guarda con ammirazione e invidia, ma anche con un certo timore, poiché esse, specialmente Enza, non solo non giocano volentieri con lei, ma le prodigano pugni, spintoni e bòtte e parolacce: tutta roba imparata dalle compagne di scuola.
Più buono, con lei, è il fratello Andrea. Ecco che, quando le due sorelle sono già anch’esse avviate a scuola, il ragazzo scende, ma disdegna di prendere il caffè e latte; roba di donnicciuole, dice. Lui mangerebbe già una fetta di carne rossa mezzo cruda, e non essendoci questa si contenta di tirar giù il canestro dei servi e rosicchia coi suoi forti denti il pane duro e una crosta di formaggio. Nanna gli va appresso supplichevole, con la tazza colma in mano: poiché questo Andrea è il suo idolo maggiore, il suo affanno e la sua preoccupazione.
Mi sembri un pastore, — dice, mettendogli davanti la tazza. — Prendi questo; prendi, agnello; il maestro ti sentirà l’odore di formaggio.
E lui, chi è? Io sono un pastore ricco, ma lui è un povero accattone, un ubriacone pidocchioso.
Così parla Andrea del suo professore di latino; e lo dice con convinzione poiché tutta la gente che vive di lavoro intellettuale è per lui più povera dei mandriani e dei manovali.
La sua mentalità è davvero da ricco pastore, che fa una vita rude ma ha bestiame, terre e denaro; e sopra tutto libertà di azione, tanto per il bene come per il male. Anche la sua persona è tozza, squadrata, le vesti trasandate; ma la testa è caratteristica, possente, tutta capelli nerissimi; il profilo è camuso, con le labbra sensuali; gli occhi d’un grigio dorato, corruscanti come quelli del falco. Non ama lo studio, ed è felice solo quando può scappare di casa, a cavallo, come un centauro adolescente. Nessuno gli ha insegnato a cavalcare: eppure egli monta anche senza sella sui puledri indomiti, e i suoi urli per aizzarli gareggiano coi loro nitriti.
Nell’accorgersi di Cosima, che se ne stava quieta seduta su una seggiolina bassa, con la scodella in grembo, le sorrise e prima di uscire le si avvicinò dicendole sottovoce, con un accento sommesso di complicità:
Domenica ti porterò, a cavallo, al Monte: ma zitta, eh!
I grandi occhi di lei si aprirono, lucenti di gioia e di speranza: e questa promessa del fratello, piena di lusinghe e di visioni straordinarie, si mischiò alle sue fantasticherie, intorno al mistero della creatura nata quella notte in casa, venuta non si sa di dove, come, né perché.
Questa nascita, inoltre, portava un certo cambiamento di vita. Le due sorelle maggiori dovevano sistemarsi nella camera alta, per lasciare posto, nel letto di Nanna, a lei Cosima, e alla piccola Beppa che ancora dormiva nella culla in camera dei genitori. Beppa aveva circa tre anni, ma ne dimostrava di meno e ancora non parlava bene perché aveva la cartilagine sotto la lingua più corta del solito: e si parlava di fare un piccolo taglio per sciogliere la lingua dal suo impaccio.
Ecco che anche lei fa comparsa in cucina, portata a mano dalla nonna. La nonna non viveva con loro ma aveva passato la notte in casa per assistere, lei, col solo aiuto di Nanna, la figlia partoriente. E tutto era andato bene, senza strepiti, senza disordine. Adesso la puerpera e la bambina riposavano, e anche il padre, che aveva vegliato tutta la notte leggendo o passeggiando silenzioso nella camera attigua a quella della moglie, s’era addormentato su un vecchio sofà.
La nonna invece non sentiva il bisogno di dormire, sebbene fosse una piccolissima donna fragile, quasi nana, con mani e piedi da bambina; e anche gli occhi color nocciola, con lunghe ciglia nere, erano pieni d’innocenza, come mai avessero veduto l’ombra del male. Una cuffietta di panno nero le raccoglieva i capelli già bianchi, ma qualche ricciolo scappava sulla nuca e sulle orecchie, e le dava un’aria sbarazzina. Le nipotine la consideravano come una loro eguale, mentre avevano suggezione della madre, e Cosima provava uno strano senso di sogno quando la vedeva comparire d’improvviso. Ma più che di sogno era un senso fisico di ricordo inafferrabile, una lieve vertigine, come un baleno sanguigno, che più tardi ella si spiegò col crederlo un affiorare e subito di nuovo sommergersi di vita anteriore rimasta o rinata nel subcosciente. La nonna, poi, le ricordava, – ma questo un po’ volontariamente, – certe donnine favolose, o piccole fate, buone o cattive secondo l’occasione, che la leggenda popolare affermava abitassero un tempo in piccole case di pietra, scavate nella roccia, specialmente negli altipiani granitici del luogo. E queste minuscole abitazioni preistoriche esistevano ed esistono ancora, monumenti megalitici che risalgono a epoche remote, chiamati appunto le Case delle piccole Fate.
La nonnina prese il caffè, fece mangiare e poi lavò la piccola, e infine mandò la serva a fare la spesa: spesa presto fatta, poiché in casa c’erano tutte le provviste, compreso il pane, e non si trattava che di comprare la carne per il brodo, o un po’ di pesce, se per caso raro venuto dalla spiaggia orientale dell’isola.
Cosima, con la sua scodella vuota, era incerta se seguire la serva nella breve uscita mattutina, o eseguire un suo progetto. Voleva penetrare nella camera della mamma e vedere la bambina; profittò quindi del momento in cui la nonna attingeva l’acqua dal pozzo, per infilarsi nelle scale silenziose. Dopo la prima rampata, tutta di scalini di granito, su un piccolo pianerottolo si apriva l’uscio di una specie di dispensa, col pavimento di legno e il soffitto, come quello della cucina, di canne che formavano un graticcio solido e fresco. Di solito l’uscio era chiuso a chiave: questa volta, nella confusione della notte, era stato lasciato aperto. E prima di proseguire verso la sua mèta, Cosima non esitò ad esplorare la grande stanza, che anch’essa rappresentava per lei un ripostiglio di misteri. E ce n’era ragione: poiché le cose e gli oggetti più disparati stavano raccolti là dentro, in una vaga luce che penetrava dallo sportello di una finestra tutta d’un pezzo, aperto su un lontano sfondo di orizzonte montuoso.
Mucchi di frumento, di orzo, di mandorle, di patate, occupavano gli angoli, mentre una tavola lunga era sovraccarica di lardo e di salumi, e intorno i cestini di asfodelo pieni di fave, fagiuoli, lenticchie e ceci, facevano corte agli orci di strutto, di conserve, di pomidori secchi e salati. Ma quello che più attirava la bramosia di Cosima erano alcuni grappoli d’uva e di pere raggrinzite che ancora pendevano da una delle travi di sostegno del soffitto: un’ape, o una vespa che fosse, vi ronzava intorno beata, mentre a lei non era permesso di toccare un acino: sapeva però che c’era una canna, spaccata in cima, per staccare il giunco che legava i grappolo e tirarli giù in salvamento: la trovò, dietro l’uscio, la sollevò come lo scaccino quando accende in alto le candele: l’ape volò via, un grappolo fu afferrato, ma a metà discesa scappò dei denti d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. COSIMA
  3. Grazia Deledda
  4. COSIMA
  5. Note