IL VECCHIO E I FANCIULLI
DI
GRAZIA DELEDDA
IL VECCHIO E I FANCIULLI
Da cinque mesi il vecchio proprietario Ulpiano Melis cercava inutilmente un servo per il suo ovile: tutti erano alla guerra, ed i padroni che ancora ne avevano uno, si guardavano bene dal lasciarselo pigliare.
Durante l’inverno, il vecchio Ulpiano aveva fatto tutto da sé, nell’ovile, ma con l’avvicinarsi della buona stagione e lo sgravarsi delle pecore, la cosa diventava sempre più difficile: ed ecco, ai primi di quaresima, come inviato da Dio, si presentò un giovine in cerca di lavoro.
Era alto, con le spalle quadrate, i piedi e le mani da gigante; ma dal viso liscio, sebbene guarnito di foruncoli, quasi a metà occupato dai grandi occhi neri e dalle foltissime sopracciglia che andavano a perdersi sotto i capelli ondulati, si sarebbe giudicato un bambino. Vestiva bene, di fustagno marrone; aveva le scarpe nuove, ed uno zaino invece di bisaccia.
Il vecchio Ulpiano cominciò ad interrogarlo:
— Di dove sei?
— Di Arbius, – rispose il giovine, guardando verso i monti dove biancheggiava come un rimasuglio di neve questo piccolo paese di pastori.
— Ho un compare, ad Arbius, Francesco Stefano Farina: lo conosci?
— Lo conosco. Era compare anche del mio povero padre.
— Tuo padre è morto?
— È morto da tre settimane: il giorno dopo è morta anche mia madre. Anche un mio fratello è morto in guerra.
— Gesù Signore nostro! Sei ben male avventurato, – disse il vecchio; ma non credeva ciecamente a quanto il giovine raccontava. – Oh, dimmi dunque, tuo padre che faceva?
— Possedeva trenta vacche: in pochi giorni sono morte tutte, di afta epizootica, e neppure il cuoio è stato buono da vendersi. Per questo disastro, mio padre, già tanto disturbato per la perdita di mio fratello, è morto di crepacuore: e mia madre anche.
— Gesù Signore nostro! Ma è vero quanto mi racconti? E lo racconti così, tranquillo come un gatto?
— Che volete che faccia? La cosa è tale e non si può cambiare. Domandatelo al vostro compare. Anche a lui sono morte quasi tutte le vacche.
Zio1 Ulpiano sapeva che infatti, nei paesi di montagna c’era una grande morìa di bestiame; morìa di bestiame e di cristiani, e fame e disastri. La causa, secondo lui, consisteva in questo:
— Dio è stanco dei nostri peccati: guerra, quindi, peste e carestia. E, dimmi un po’, perché tu hai lasciato il tuo paese?
— Avevo paura di morire anch’io. Qualcuno diceva che tutta la mia famiglia era stregata.
—E chi ti ha indicato di venire qui?
— A dire il vero non lo ricordo: forse sarà stato il vostro compare.
— Infatti, sì, mandai a dire anche a lui che mi trovasse un servo. Ma sei bravo, tu, per le pecore?
— Vacche o pecore, per me è lo stesso. Provatemi.
— E, dimmi un po’, quanto pretendi?
— Quello che usate con gli altri.
— Ho avuto sempre servi anziani e uomini fatti. Tu mi sembri un ragazzino. Quanti anni hai?
E lo guardò fisso, perché qui non c’era posto per una bugia: tutti i giovani sani, come questo appariva, tutti, dai diciotto anni in su, erano sotto le armi.
— Ebbene, vi dirò la verità: ho sedici anni compiuti a Natale.
— Dio ti guardi, sei ben sviluppato. Ad ogni modo, se hai la forza, non hai la pratica: e ti darò sei scudi al mese.
— È poco: adesso il lavoro vale.
Il vecchio aumentò la somma: il giovine ascoltava calmo, serio, docile, ma rispondeva invariabilmente:
— È poco: adesso il lavoro vale.
Tanto che zio Ulpiano arrivò a cento venti scudi all’anno, somma che un tempo si dava ai servi più famosi. In ultimo domandò:
— Come ti chiami?
— Luca Doneddu.
— Allora, metti giù quel carico. Vuoi mangiare? Guarda, il pane è qui, il formaggio, l’olio, il lardo, qui. Il latte sai dove trovarlo.
Tutto era a portata di mano, nella capanna ancora all’antica, fatta di un muro a secco circolare ricoperto di assi e di frasche: pelli di montone, stuoie di giunco e sacchi di lana che parevano vecchi tappeti macerati dal sonno di parecchie tribù di beduini, servivano per la notte: nel focolare centrale tre sassi anneriti dal fumo sostenevano a mo’ di treppiede il paiuolo di rame per bollire il latte; e qualche cestino pendente dai rami sporgenti del tetto funzionava da guardaroba e da credenza.
Luca si sfilò lentamente lo zaino prima da un braccio, poi dall’altro, e lo attaccò accanto ai cestini; poi sedette per terra, e senza far complimenti cominciò a mangiare dal canestro che il nuovo padrone gli deponeva davanti. E finalmente il nuovo padrone, oltre la soddisfazione di avere un servo, ebbe quella di poter chiacchierare.
— Anche mio nipote si chiama Luca, ed ha circa la tua età; ma non intende di fare il pastore; e neppure il proprietario. Studia; vuol fare il dottore. Mia figlia, Anna Maria Carta, avrebbe preferito il contrario, perché è vedova, e Luca è il solo maschio della casa. Le altre sono tutte ragazze; belle, ma ragazze, e non possono badare alla campagna, né venir qui a guardare le pecore. Una, a dire il vero, è un po’ maschia; Francesca, si chiama, e va a cavallo come un diavolo: ma il pastore, certo, non può farlo. Le altre due sono fidanzate, con due ricconi del paese, forse li avrai sentiti nominare, i proprietari cugini Pirastru; avranno, ciascuno, sei mila scudi di entrata. La maggiore, poi, Gonaria, ha marito, ma è come che non lo abbia, perché il disgraziato è paralitico.
Sospirò, ricordando questa sventura, sola ombra che oscurava la fortuna della famiglia: la sua tristezza però non gli impediva di osservare il veramente notevole appetito del nuovo servo. Pensò:
— Gesù Signore nostro! Non che io ti misuri i bocconi, piccolo vitello marino2 , ma pare che tu non abbi mai veduto ben di Dio.
Poi parlò dei parenti, tutta gente benestante, che doveva pensare a badare alla propria roba, e con alcuni dei quali era anzi in lite per ragioni d’interesse.
Luca ascoltava rispettoso, se non con troppa attenzione, e pur mangiando con gusto, di tanto in tanto sospirava anche lui, ricordando certo i suoi guai.
— Così non avete nessuno che vi aiuti: sono tutti troppo ricchi, i vostri parenti, – disse con un accento vago, che poteva essere d’ingenuità, ma anche di beffa.
— Il guaio è che nessuno vuole più lavorare; né ricchi né poveri: eppure tutti pensano al denaro; tutti vogliono molto denaro.
— La vita è cara.
— No, si vuole il denaro per il divertimento, per il vizio; ed i ricchi ne sono più avidi dei poveri. Adesso ti racconto una cosa; guarda, – riprese zio Ulpiano, indicando il paesaggio che l’apertura della capanna incorniciava come un quadro: un avvallamento tutto verde, con lo sfondo celeste senza montagne, dove fra l’erba ed i cespugli dorati dalle nuove foglie, si vedevano gli avanzi di muri antichissimi, – quella era la ricca città di Oppia. E sai perché fu distrutta? perché i suoi abitanti, corrotti da una vita di benessere e di lusso, si erano dati, più per desiderio di novità che per animo perverso, al culto del diavolo. Alcuni giovani di buona famiglia si riunivano tutte le notti in una cantina, bevevano e scavavano un passaggio sotterraneo, in pendìo, con la speranza di arrivare all’inferno. Dicevano ridendo: poiché non possiamo fare una scala che porti al cielo, ebbene, facciamone una che scenda all’inferno.
— Loro intenzione, del resto, era di beffarsi del diavolo, se riuscivano a scovarlo: poiché il diavolo vero, il diavolo grande, Lucifero, non può mai uscire dall’inferno, e deve contentarsi di mandare nel mondo, a sconvolgerlo, i diavoli minori.
— Or dunque, quei valenti ragazzi di Oppia, non avendo altro da fare, tentavano di giungere fino a Lucifero, per beffa invitarlo ad uscire, a unirsi con loro e prender parte alle loro ribotte: e deriderlo, quindi, per la sua impotenza a muoversi.
— E scava e scava, essi perdevano le notti nel loro misterioso lavoro: di giorno dormivano, e apparivano vecchi prima del tempo. Finalmente, dopo anni di fatica. arrivarono alle viscere più profonde della terra, e videro Lucifero; ma tali erano le fiamme ed il rumore che lo circondavano, e lui stesso così sfolgorante, che non lo si poteva fissare. Tanto che essi lo scambiarono con Dio, e si buttarono in ginocchio per adorarlo.
— E adesso sentirai cosa succede. Lucifero, oltre all’impossibilità di uscire dall’inferno, è condannato a non poter più ridere né sorridere per l’eternità; non rise, quindi, per la scempiaggine dei suoi adoratori di Oppia; ma su per il passaggio da loro stessi scavato, scatenò tutti i suoi diavoli peggiori, che irruppero nella città, si godettero le donne, bevettero tutto il vino delle cantine, incendiarono e distrussero in una sola notte i palazzi e le chiese, riducendo il luogo ad un mucchio di rovine.
Impressionato dalle sue stesse parole, il vecchio spalancò gli occhi e tese le mani come per guardare ed ascoltare l’orrore ed il fragore del disastro. Luca adesso ascoltava più attento, anche perché si era saziato, e quando il narratore accennò alla luce insostenibile di Lucifero, chiuse gli occhi abbagliato; tuttavia in ultimo osservò, fra lo scettico e l’ingenuo:
— Forse ci sarà stata la guerra anche allora.
Il vecchio si riscosse; gridò severo:
— No, ti dico. È perché i giovani di Oppia avevano cercato l’inferno per divertirsi; ed anche il male bisogna farlo con serietà, altrimenti si offende non solo Dio ma pure il diavolo.
— Il male non bisogna farlo per niente, – disse Luca con tristezza: – anche la preghiera dice: liberaci dalle tentazioni.
— Bravo! Non ho mai veduto un ragazzo così assennato. Ma il dolore e le disgrazie hanno già fatto di te un uomo; e se i giovani di Oppia fossero stati come te, la città esisterebbe ancora.
Gli occhi del vecchio, ancora vivacissimi e limpidi sotto le sopracciglia d’argento, tornarono a fissare le rovine, intorno alle quali le pecore e le cavalle brucavano l’erba indugiandosi a lungo col muso a terra come per cercare qualche cosa di cui sentivano l’odore ma che non riuscivano a scovare: Luca seguiva quello sguardo col suo, ed anche nei suoi occhi umidi passavano ombre e luci, come destate dalla ricerca di un mistero da chiarire.
Ogni due giorni, verso sera, zio...