Memorie del Presbiterio. Scene di Provincia (Romanzo)
eBook - ePub

Memorie del Presbiterio. Scene di Provincia (Romanzo)

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Memorie del Presbiterio. Scene di Provincia (Romanzo)

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Emilio Praga (Gorla, 18 dicembre 1839 – Milano, 26 dicembre 1875) è stato uno scrittore, poeta, pittore e librettista italiano, Esponente della Scapigliatura. Giovanissimo, oltre che come pittore, si era affermato come poeta con la raccolta Tavolozza (1862), che ebbe un notevole successo, e in cui vi sono descrizioni di paesaggi che rivelano un vivo senso del colore, di tipo impressionistico. È interessante anche il linguaggio, che impiega espressioni comuni, ignote alla lingua poetica tradizionale. Ma si ritrovano anche componimenti di impostazione sociale, di polemica contro la borghesia e il culto del denaro, contro il progresso scientifico e tecnico che minaccia la bellezza, nonché poesie "maledette", che esaltano la dissolutezza sessuale, l'orgia, l'incesto e l'abuso di alcool.
Negli ultimi giorni di vita, Praga lavorò anche a un romanzo, Memorie del presbiterio, che restò incompiuto ma fu successivamente completato dall'amico Roberto Sacchetti.
Secondo alcuni critici, il romanzo, caratterizzato da un certo gusto sperimentale comune alle sue opere, rappresenta uno dei suoi testi in prosa migliori. Il romanzo si compone di una serie di racconti interrelati, che ruotano attorno alla descrizione di un anziano prete e ai suoi stati d'animo e del paesaggio campestre in cui vive. Personaggio e paesaggio simboleggiano la ricerca di pace e serenità, evidenti nel continuo rimando alla purezza e all'innocenza tipiche dell'infanzia che aleggiano in tutto il testo.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Memorie del Presbiterio. Scene di Provincia (Romanzo) di Emilio Praga & Roberto Sacchetti in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Letteratura e Classici. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831631617
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

LE MEMORIE DEL PRESBITERIO

J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans.

I.

Fra parecchie centinaia di versi che, in mancanza di meriti più assoluti, ebbero incontestabilmente quello di sciogliere per bene lo scilinguagnolo alla sonnolenta critica letteraria del bel Paese, v’hanno due componimenti sovra cui piovve con rara abbondanza la lode; la lode che è per l’anima di un autore ciò che è pei fiori la pia rugiada dell’alba.
Uno di quei componimenti aveva nome il Professore di greco, l’altro portava il titolo che sta in cima di queste righe.
Senza ch’egli ripudii gli altri suoi figli, è naturale che questi due sieno i prediletti del poeta.
Guardate il sorriso trionfante della madre di cui vi prendete nelle braccia e accarezzate, ammirando, il bambino; per poco ella si ristà dal fare altrettanto con voi.
Per me, se me ne fosse data licenza, non indugerei un momento a rispondere con baci in fronte alle indulgenze accordate a quelle mie strofe. Tanto più che, oggidì, le creature che si commovono un po’ ancora alla poesia sono le donne, e le donne belle in ispecie.
Ma l’esercizio di siffatti rendimenti di grazie non è concesso in questa valle di frutti proibiti. Forse provvidenzialmente: lo scambio delle gentilezze e delle cortesie diventerebbe troppo generale, e la musica di baci finirebbe per assordar di soverchio la gente d’affari.
Però baciar col pensiero non è, che io mi sappia, proibito. Ed è un bacio morale che io intendo appunto inviare con queste semplici memorie, come un ringraziamento a quelle poche anime appassionate che forse, nelle ore men gaie, si ricordano ancora del mio vecchio professore e dei mio vecchio curato—due scheletri, adesso, amendue.
Semplici memorie; è la giusta parola.
Cominciano e finiscono in un paesello delle Alpi. Il povero sant’uomo e il suo presbiterio, un medico e una farmacia, un sindaco e la sua storia…—Ecco tutte le mie scene e tutti i miei personaggi.
Nulla è grande, nulla è piccino; il cuore ne è la misura; e un po’ del mio è restato lassù in quei boschi, fra quelle pareti bianche, in mezzo a quel beato silenzio; lassù dove furono prima pensate queste pagine.
Epperò, chi volesse trovarci altra cosa che un po’ di cuore non legga.—So di alcuni, i quali di quel po’ si accontenteranno.

II.

Molti anni, ciò che vuol dire molte sciagure, sono passati dal giorno in cui bussai a quella porta.
Compivo i venti, avevo la valigia del pittore sulle spalle, e un buon angelo mi guidava—un angelo che adesso chi sa dove è andato a nascondersi. Allora io vedevo e sentivo; splendore di cielo, verzure di convalli, scroscio di torrenti, belate di mandre, tutto brillava, profumava, cantava per la presenza di lui; e sul nostro passaggio gli atomi della natura si animavano al contatto delle sue ali per parlar meco di arte e di gloria.
Quel giorno la conversazione era cominciata al primo nascere del sole, e aveva continuato senza interruzioni per tutta la strada.
Epperò come fui vicino al villaggio di Sulzena, la stanchezza delle gambe prevalse. Si fece silenzio.
Tramontava il sole, e pensavo a mia madre; due tra le infinite cose da cui germina la umana tristezza.
Essa veniva lentamente impossessandosi di me, ma dolce, quasi voluttuosa, come quella che conduce alle lagrime, di cui parla Virgilio—quædam flere voluptas.
E forse le lagrime erano lì per sgorgare, quando la recrudescenza della fatica diede nuova autorità alle gambe.
Furono questi poveri stinchi a farmi accorto della presenza del villaggio.
Alla solita strada polverosa, soffice e piana come il pavimento di un gabinetto principesco, era successo un selciato di pietre druidiche, sul quale, a non inciampare, vi giuro che o bisognava avervi camminato appena fuor delle fasce, o aver compiti molte volte i sette anni.
Debbo alla luna, che in quel momento era venuta a far capolino, ed a un mio talento ginnastico se non mi ruppi il collo, io che sette anni non li avevo ancora compiti tre volte.
Non è necessario descrivervi il villaggio di Sulzena.
Voi lo conoscete già, per poco che abbiate fatta conoscenza con alcuna delle nostre montagne. Cotesti villaggi si somigliano tutti. Case, o meglio capanne_ _(baite) ad un solo piano, coperte di schisto nero, e alla parte del nord, di muschio, al cui verde opaco spesso viene a sposarsi quello trasparente del caprifoglio avviticchiato alle pareti. Porte basse e larghe, attraverso alle quali appare il cortiletto ingombro di gerle, e quasi sempre ombreggiato da un pometo che in maggio si copre di fiori bianchi e rosa; botteghe, che in un’ora di esame non arrivereste a indovinare che cosa vendano, se non esistessero al disopra e ai lati certi orrori di ortografia scritti a color crudo e per lo più turchino.
Poi il monumento comunale, la fontana perenne, formata di quattro lastre di pietra appena dirozzate, e dove tre volte al giorno vanno a dissetarsi in famiglia tutte le giovenche del vicinato.
E se il villaggio possiede un’osteria siete certi di riconoscerla a una insegna gigantesca colla parola Albergo sovrapposta a un uscio, cui si ascende per tre o quattro gradini, dietro il quale si cela umilmente un locale umido sì ma pulito, tappezzato di pentole e di stagni e dove mancano infallibilmente ai fornelli il cuoco ed il fuoco.
Ero già passato davanti a buon numero di case, e per quanto avessi guardato e guardassi in su ed in giù a destra ed a sinistra, l’insegna non appariva, che mi potesse far sperare in una cena ed in un letto.
Gli abitanti erano già rientrati, vedevo le finestre illuminate dal riverbero dei focolari; non avevo ancora incontrato di vivo che un ragazzetto ed un cane. Il primo, spalancati due grandi occhi azzurri mi aveva contemplato in silenzio per un minuto, poi s’era dato alla fuga dietro una siepe; il cane aveva abbaiato sommessamente come uno che non sappia di aver torto o ragione, poi anch’esso via nella macchia.
Proseguii tra quelle case dalla faccia inospitale, coll’animo alquanto turbato.
Nei pellegrinaggi artistici non è, del resto, cosa difficile di trovarsi nell’imbarazzo in cui avevo a quell’ora tutta la probabilità di essere caduto.
In uno dei libri sacri dell’India sta scritto:
«Se ti nasce una figlia dàlle un nome sonoro abbondante in vocali, e che sia dolce alle labbra dell’uomo».
L’egual consiglio si sarebbe potuto dare a quei filologhi dabbene che imposero il nome ai villaggi. Quando si viaggia senza una meta prestabilita, all’unico scopo di veder uomini e cose, quante volte non accade di prendere a destra piuttosto che a sinistra, di salire invece che di scendere, per l’unica ragione che avete preferito, leggendo sulla vostra Guida, fra i molti che vi stanno intorno il villaggio dal nome più seducente, dal nome più dolce alle labbra dell’uomo? Ma, ahimè, siccome è più che possibile che una Bice, o una Amina, o una Adele, siano fanciulle meno perfette di una Giovanna, di una Gregoria, o di una Anastasia, del pari accade che il più bel nome intitoli spesso la borgata meno simpatica, e, ciò che è più triste se vi arrivate a notte, una borgata senza osteria.
E tale mi aveva l’aria di essere il villaggio di Sulzena quando, giunto all’inevitabile fontana, mi scontrai finalmente in un uomo.

III.

Curvo sul bacino da cui esalava un acre odor di sapone, prova che quella sera le comari avevano fatto il bucato, egli teneva le braccia, nude fino alle spalle, nell’acqua biancastra, e pareva assorto in qualche occupazione di grave momento, giacchè non si accorgeva o non curavasi del largo zampillo che, cadendo dall’alto, gli spruzzava copiosamente la testa.
Stavo per rivolgergli la parola, quando si sollevò, e, traendo dalla fogna un cencio infilzato a un bastoncino, esclamò, con quel timbro di voce proprio dei lavoratori della montagna:
—Una calza! e poi si lagnano della povertà, e poi pretendono trovar l’acqua pulita alla mattina! Come si fa, se lasciano otturarsi il pertugio… persino dalle calze! O che gente!
—Brav’uomo, gli dissi io, sapreste indicarmi l’osteria?
Si volse e la prima cosa che osservò fu—indovinate che cosa?—il mio bastone.
—Oh! che magnifico corno! ma questo era il papà di tutti i camosci!
E senza complimenti, me lo prese dalle mani, a si diè a contemplare l’alpestre ornamento del mio muto compagno di viaggio colla compiacenza con cui una forosetta avrebbe vagheggiato un monile.
—Non ve ne sono mica sulle nostre cime di camosci così grossi; è forastiero, vossignoria, non è vero?
—Sì, siamo d’altri paesi tant’io che il corno. Veniamo da lontano, epperò abbiamo bisogno di mangiare e di dormire; se dunque voleste aver la bontà di indicarci….
—D’osteria propriamente non ce n’è: ma c’è di meglio.
—Che?
—C’è il curato!
—Ma che c’entra il curato coll’osteria?
—Se c’entra! La mi dica, sarebbe cosa decente che, per mancanza della locanda, non si potesse alloggiare un cane in paese?
—È giusto. Ed è il vostro curato che ha messo insegna?
—Oh! insegna, no; un prete, le pare? E poi che importa l’insegna; quelli che girano il mondo non le mangiano mica le insegne delle osterie, nè vi dormono sopra.—L’importante è che trovino un desco ed un letto; ciò che si trova dal signor curato per l’appunto. E, soggiunse, ammiccando furbamente gli occhi, non si paga niente.
Quest’ultima informazione mi decise. Già mi aveva ripugnato l’idea di dormire sotto il tetto di un prete; quella di dovergli restare debitore di un servigio mi fece cavar dalle tasche la carta geografica e andarvi in traccia di un’altra possibile meta.
Il lettore non si scandalizzi di questa mia istantanea ripugnanza, apparentemente, solo apparentemente, volterriana.
A quell’età non era, come non fui mai, un cattolico fervente; bensì mi trovavo ancora un cristianello per il quale l’accettar l’ospitalità da un uomo di chiesa, non sarebbe sembrato certamente un derogare ai propri principii religiosi e alla umana dignità. Tanto più con quell’appetito e con quella stanchezza in corpo!
Ahimè! la ricusavo appunto, stavolta, perchè già in due altre occasioni, dacchè mi aggiravo su per quei monti, l’avevo accettata, e con mio inenarrabile danno.
Non vi conterò quanto mi era capitato la prima volta; fu una tragedia che si svolse nelle tenebre di un granaio, fra due lenzuola di colore oscuro e… ciò resterà un eterno mistero.
La seconda volta il mio ospite era stato un prete giovane, dalla faccia color scarlatto, gran bevitore, gran cacciatore e, per conseguenza, gran parlatore. La sua vita domestica e i suoi sproloquii, non rammento se più degni di Casti o di Aretino, erano riusciti a togliermi dall’animo tutto il bene che le aveva fatto, in quindici giorni, la semplice natura.
La possibilità di ricadere nell’afa ammorbata di un sacerdote di simil genere, mi spaventava quasi peggio delle memorie più materiali che serbavo dell’altro.
Chiesi dunque al mio interlocutore, in quanto tempo avrei potuto raggiungere un vicino villaggio, di cui dovetti ripetere più volte il nome ch’ei non conosceva che in dialetto; dialetto spicciativo che faceva un monosillabo di una parola composta di almeno una dozzina di lettere.
—Eh! non meno di tre ore, a camminare spedito; e c’è a due terzi di strada un torrentello che non le consiglio di guadare di notte.
—Non importa; questo buon bastone cornuto m’ha, come lo vedete, aiutato a guadarne altri, e di molti. La str...

Indice dei contenuti

  1. MEMORIE DEL PRESBITERIO
  2. Emilio Praga
  3. Roberto Sacchetti
  4. LE MEMORIE DEL PRESBITERIO