Storia degli Esseni
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Gli Esseni furono un gruppo ebraico di incerta origine, nato forse attorno alla metà del II secolo a.C. e organizzato in comunità monastiche isolate di tipo eremitico e cenobitico.
I resoconti di Giuseppe Flavio e Filone Alessandrino mostrano che gli Esseni (Filone: Essaioi) conducevano una vita strettamente celibe, ma comunitaria ? spesso paragonata dagli studiosi alla vita monastica buddista e in seguito cristiana ? anche se Giuseppe parla di un altro "rango di Esseni" che si sposavano (Guerra 2.160-161). Secondo Giuseppe, avevano usanze e osservanze come la proprietà collettiva (Guerra 2.122; Ant. 18.20), eleggevano un capo che attendesse agli interessi di tutti e i cui ordini venivano obbediti (Guerra 2.123, 134), era loro vietato prestare giuramento (Guerra 2.135) e sacrificare animali (Filone, §75), controllavano la loro collera e fungevano da canali di pace (Guerra 2.135), portavano armi solo per protezione contro i rapinatori (Guerra 2.125), e non avevano schiavi, ma si servivano a vicenda (Ant. 18.21) e, come conseguenza della proprietà comune, non erano dediti ai commerci (Guerra 2.127).
Molti studiosi credono che la comunità di Qumran, che presumibilmente produsse i Rotoli del Mar Morto, fu un ramo degli Esseni, e che la Cristianità evolse da questa setta dell'Ebraismo, con la quale condivide molte idee e simboli. Il rabbino Elia Benamozegh (Livorno, 24 aprile 1823 – Livorno, 6 febbraio 1900) è tra questi e secondo cui "La Storia degli Esseni è fonte ricchissima di documenti atti a spiegare l'origine del Cristianesimo".

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831631631

STORIA
DEGLI ESSENI

LEZIONI
DI
ELIA BENAMOZEGH

RABBINO-PREDICATORE
E PROFESSORE DI TEOLOGIA NEL COLLEGIO RABBINICO DI LIVORNO.

PREFAZIONE.

Le Lezioni che ora si pubblicano, risalgono all’epoca per me tuttavia di dolce rimembranza, in cui mi era dato esporre alcune parti della Storia della Teologia ebraica ad una eletta schiera di giovani livornesi, i quali, con perseveranza non comune in questa nostra città dedita ai traffici, seguirono le mie conferenze per circa tre anni.
Queste cose stimava opportuno premettere, a spiegare la forma non troppo consueta di questa Storia, ed a giustificarla eziandio. Perciocchè non mancherà taluno, e forse non senza fondamento, il quale osservi che più acconcia sarebbe stata la forma semplicemente espositiva. Ma oltrechè per satisfare a questo bisogno sariami stato d’uopo rifare quasi interamente il mio lavoro, parevami ancora che ciò non sariasi potuto operare senza compromettere in qualche modo le sue sorti. Chè il subietto presente sia per sè grave, e forse arido per i lettori comuni, non vi ha, credo, chi nieghi. L’erudizione storica, e teologica in ispecie, è cibo di pochi; e per farlo accetto ai più, sarà forse senza niuna utilità uno stile men disadorno, più drammatico e vivace quale s’addice a Lezioni? I fatti e le idee che altronde riescirebbero ai schifiltosi indigesti, non divengono pascolo più gradito, ove ai condimenti si mescano della imaginazione e del sentimento? Non solo, e il dico a costo di parer puerile, gli Esseni studiando con amore e con fede, perciocchè in essi intravvedeva i predecessori della buona nostra Teologia, io sentiva nella nobile indagine impegnate la Ragione e la Critica, ma la imaginazione altresì e il sentimento, e spontanea dal labbro sgorgavami la parola viva e affettuosa. Mai parvemi così vera ed acconcia la sentenza platonica, non essere il bello che lo splendore e la veste del vero.
A che però, diranno altri, venir fuori con questi vecchiumi? Appena trovano venia presso i comuni lettori le politiche o letterarie lucubrazioni:—qual sorte mai dovrà toccare agli opliti della scienza, alle scritture gravemente armate, alle dotte e severe indagini della Storia e della Teologia?—La Dio mercè però, questo linguaggio diventa di giorno in giorno più raro. A dispetto di chi vorrebbe confinare la mente umana nello studio e nell’amore delle quisquiglie letterarie e degli arcadici vezzi, come i tiranni invitano il popolo a seppellire le più generose potenze nelle tazze soporifere di Bacco, di Momo e di Venere, l’uomo anela a cose più alte. Gli argomenti che, or si può dire pochi lustri, erano il patrimonio di pochi, diventano ogni giorno più, quasi comune proprietà. Le menti s’iniziano alle più alte e scabrose indagini. Libri che altra fiata sariano giaciuti in eterno polverosi negli scaffali delle Biblioteche, girano adesso per le mani di tutti: avidamente si leggono, in ogni lingua si traducono: ed ove per mole e scienza soverchie disdicano ai comuni intelletti, epitomi se ne fanno e compendi. La scienza si fa piccina per trasfondere la vita nel popolo, come Elia si contrae sul corpo morto del figlio della vedova, a comunicargli la vita.
La storia presente non solo prende a considerare serio argomento, ma è parte nobilissima e tema di gran momento nella questione religiosa che ora preoccupa e divide gli animi nel mondo intero. La Storia degli Esseni è fonte ricchissima di documenti atti a spiegare l’origine del Cristianesimo; e qualunque concetto di questo si formi, niuno vi ha che si attenti di negare per la Storia di questa religione, la importanza dello studio dello essenico Istituto. Perciò tu vedi tutti i libri che prendono a trattare di quelle origini, assegnare posto segnalatissimo all’esame dell’Essenato. Parevami dunque non fare, anche per questo verso, inutile opera, mandando fuori questi miei pensieri intorno una Scuola tanto studiata e tanto degna di studio; e sopratutto non venire meno alle leggi di opportunità. Un altro resultato, o ch’io m’inganno, mi sarà lecito sperare da questo mio lavoro.—Nelle ebraiche scritture da me finora pubblicate, vuoi in forma polemica come le repliche contro l’antico Leone da Modena e l’illustre amico professor Luzzatto, vuoi nelle mie Note al Pentateuco, vuoi infine nel mio Essai sur l’origine des Dogmes et de la Morale du Christianisme premiato dall’Alliance israélite di Parigi, pienamente soscrissi e, quanto seppi e potei, crebbi forza alla sentenza intorno a cui convengono non che gli scrittori ortodossi, ma i critici eziandio più indipendenti, come Munk, Frank e Jost ed altri moltissimi, che, cioè la Teosofia cabbalistica, che coltivò il nostro gran Pico Mirandolano, ebbe per antichi rappresentanti gli Esseni e lo Essenato. Questa Storia è destinata a porgere nuovo tributo a questo gran vero, mercè un perpetuo confronto che si va facendo fra le une e gli altri.
E non meno parevami adempiere all’officio di buon italiano. Che se ogni individuo ed ogni ceto debbono contribuire, per ciò che lor spetta, a maggiore onoranza e gloria della Patria comune, perchè questo dovere non incomberà egualmente agli Israeliti e alla scienza israelitica? L’Italia ha il diritto di avere una Scienza ebraica filologica, storica, teologica, erudita, quale da gran tempo posseggono altre Nazioni sorelle; e in special modo la Germania. Ma a chi spetta principalmente arricchire di questa gemma la sua corona, se non agli Israeliti per cui l’Italia tanto fece e fa tuttavia? E chi tra gli Israeliti più debitore di questo giusto tributo se non il Rabbinato? Il quale in tanto lume di pubblicità, in tanto nobile pugnare di dottrine e sistemi, in tanto strenuo combattere a trionfo del vero, deve a sè, all’Italia, al mondo, alle sorti avvenire del genere umano, di alzare la voce a proclamazione e difesa del suo Credo.
Nell’adempire però, nei limiti delle mie scarse forze, a questo dovere, un pericolo sopratutto mi toccava cansare, quello cioè di venir meno al rispetto delle altrui opinioni e di religioni dalla mia diverse. L’ho io sempre felicemente evitato? Certo che costante mio intendimento fu di fuggirlo, e certo del pari che per le continue e delicate occasioni che ad ogni tratto mi si paravano dinanzi, ardua impresa era il superarlo continuamente. Se mai talvolta la parola o il pensiero suonano, più che non s’addice, liberi e severi, spero non mi si vorrà apporre a colpa quando si rifletta che tra la tolleranza fraterna da una parte, e la libertà dello speculare e la veridica parola dall’altra, angusto e difficile è il calle, e rado è che tu non pieghi talvolta o a un linguaggio alquanto severo, o a qualche dissimulazione del vero. Fra i due mali, qual’è il lettore illuminato che non preferisca il primo? La vera reciproca tolleranza è quella che sa amare e stimare gli altri, pur serbando intatto il culto delle proprie dottrine. Anzi, vero amor fraterno non si dà quando alto non proclamisi ciò che vero si crede. Il primo diritto dei nostri simili, è quello di udire da noi la verità.
Dopo le cose esposte, non mi rimane che a dire intorno i motivi di questa pubblicazione. Non è sete di onoranza, che scarsa mi riprometto, sì pel picciol merito dell’opera, come pel poco conto in cui questi studii si tengono generalmente; non è amor di guadagno, che non si trova per queste vie; non è vanità letteraria, che più agevolmente e più sicuramente si può satisfare con più amene produzioni; non è nemmeno quello che tanti autori protestano, la pressa dei loro amici che non gli dan tregua se non ne veggono le opere su per le stampe. È lo stesso motivo che m’indusse a sobbarcarmi spontaneo al ministero religioso, che mi fe’ e fa lavorare intorno a subbietti difficili, ingrati, spinosi; senza altro rimerito che il buon testimonio della coscienza: l’amore del sapere e della verità.
Livorno, Maggio 1865.
Elia Benamozegh.

LEZIONE PRIMA.

Io debbo, diletti giovani, nell’esordire, revocare alla vostra mente quei giorni al mio cuore carissimi, in cui per la prima volta erami conceduto, la parola mia indirizzarvi. Voi il rammentate. Non appena i primi passi muovevamo pel lungo e difficil sentiero, che il bisogno faceasi sentire imperiosissimo, di una logica e razionale divisione del nostro assunto. Simile alle colonne miliarie, che all’animoso viandante additano il cammino percorso, e nuova lena gl’infondono e nuova speme; noi pure, o signori, il cammino nostro in tre grandi stadj, in tre grandi epoche, in tre grandi divisioni partimmo.
Nulla per ora delle ultime due calendoci, diremo solo della prima epoca, del suo principio, del suo termine.
Quale era, o signori, la prima epoca della storia della ebraica teologia?—Era quella che dalla Mosaica rivelazione partendo, si stende per tutto quello immenso intervallo, che da quel fatto memorando trascorre, sino alla cessazione della nostra vita politica, sino, che dico, o signori? sino al suggello dei Profeti e delle tradizioni, sino alla compilazione del Talmud. In questa epoca, o signori, noi risalimmo sin dove alcuna traccia per noi si scorgesse di movimento religioso, di dogmatica vicissitudine; sin dove un sistema ci apparisse che un compiuto avesse e particolare sembiante, di Dottrina e di pratica. In quei remotissimi tempi, una setta ci fermava, ed era quella dei Samaritani.
Noi togliemmo ad esame tutto ciò che ad essa appartiene, e comecchè parecchie cose fossero da noi e per brevità, e per incompleta notizia pretermesse, non è sì, o signori, che una cognizione voi non ne abbiate acquisita generale e sommaria. Mestieri è ora muovere il piede in cerca di nuovi liti e nuove genti, mestieri è, discendendo per la serie dei secoli, quella setta, quella scuola tôrre a subbietto di studio che prima si presenti, dopo i discorsi Samaritani. Voi ricordate, o signori, di questa setta il nascimento. Ella sortì i natali in quella epoca al popol nostro esiziale, quando la sua nazionalità venne per la prima volta vulnerata, quando la via si apriva dell’esilio, quando le dieci tribù schiudevano quel cammino di dolori e di spine, che le rimanenti due tribù non avriano tardato a calcare.
Le ricerche nostre, o signori, debbono dunque oggimai da quell’epoca in poi esercitarsi. Dobbiamo i tempi a quelli posteriori interrogare, e le voci studiosamente raccogliere che ci porge la istoria. Quali furono le vicende della ebraica religione nei secoli a quello successivi? La risposta, o signori, troppo più tarderà ad udirsi, che alla vostra impazienza non si convenga. Invano il chiederete all’esistenza incerta e languente del primo tempio; invano alla cattività babilonese, invano ai primi periodi del tempio secondo. Egli è, o signori, nei tempi di mezzo della nuova Restaurazione, egli è durante le lotte fraterne degli Asmonei, che la nuova scuola, la nuova setta apparisce con Giuseppe, sul teatro della istoria. Egli è allora soltanto che la presenza ci è dato costatare d’una forma nuova in seno alla ebraica religione.
Non vorrei però, o signori, che le parole mie fossero da taluno fraintese. Quando io parlo di questo protratto silenzio, quando noto una sì grande lacuna nella storia religiosa del popol nostro, quando dico che solo collo storico Giuseppe la esistenza ci si appalesa di nuova scuola; dire non intendo, o signori, che per tutto questo lungo intervallo, le sètte da Giuseppe rammentate esistito non abbiano; che quella specialmente che offrirà tra non molto al mio dire subbietto, non spinga alte e profonde le sue radici in una ben altrimenti remota antichità; che più vetusta esistenza non conti di quella che la istorica menzione parrebbe assegnarle. No, o signori, questo nè dico io nè penso. Che anzi le successive nostre conferenze vi chiariranno abbastanza, come, a senso mio, certe scuole, certi istituti a cui i documenti non porgono che una età posteriore, spingano oltre le loro barbe negli strati, per così dire, più profondi del suolo ebraico; che altro la cronologia dei documenti, altro quella sia veramente della storica esistenza; che, benchè per nomi, per forme, per sembianze diversi, i moderni agli antichi istituti si riappicchino mercè l’unico genio, l’unica mente e, come oggi si dice, l’unico spirito. Ma questo, o signori, sarà piuttosto corollario ultimo e postulato supremo dei nostri studj, anzichè premessa da noi gratuitamente anteposta al nostro discorso; sarà frutto anzichè radice; sarà comignolo anzichè base e fondamento al nostro edifizio. Per ora, o signori, l’ordine delle nostre trattazioni sarà quello ch’emerge dall’esame eziandio più superficiale dei monumenti esistenti, sarà quello che scaturisce dall’ordine, dalla successiva menzione delle sètte. Per ora, o signori, quella stimeremo più antica che anzi le altre figura nelle istorie dei tempi. Per ora quel nascimento soltanto le supporremo che la età ci concede, della istorica menzione. Criterio falso, arbitrario, siccome vedete, e che tanto vale a parer mio quanto il fissare che uom volesse d’un’individuo i natali in quell’ora, in quella epoca, che le forze sue attuava sul teatro del mondo.—Ma noi, o signori, mentre ogni altro sussidio ci vien meno, di questa data ci staremo contenti. Quale è la setta che, nell’ordine di storica menzione, dopo quella immediatamente figura che non ha guari insieme studiammo? Per ritrovarla, mestieri è non solo valicare, siccome dissi, molti secoli e regni, ed imperi diversi vederci prima scomparire dinanzi; ma penetrare eziandio è mestieri nella santa città di Solima, e penetrarvi come vi dissi mentre la guerra è bandita tra i due contendenti e rivali Asmonei. Che spettacolo, o signori, non ci offre allora la santa città! Direste una grande, una immensa officina in cui le arti tutte si adopran solerti di guerra e di pace. Vedreste le divisioni politiche armare l’animo, il braccio dei cittadini. Vedreste il fratello contro il fratello, e talvolta, oh sciagura! il fratello ligio a strana signoria, contro il fratello della patria libertà difensore. Vedreste alle politiche, le religiose dissenzioni innestarsi, e quelle a dismisura esacerbare; per quella legge che fa più vive ed accanite le lotte di religione, quanto più il subbietto intimamente ci appartiene, e nulla più intimo di ciò che ha seggio nel più segreto dell’animo; d’onde, o signori, la ferocia unica anzichè rara delle guerre di religione. Vedreste tutte le forze morali, religiose, intellettive, nazionali, civili, del popol nostro in uno stato di aperta tenzone, di febbrile e prodigiosa esaltazione. Vedreste un disordine, un antagonismo, un’anarchia; vedreste un caos da cui il Fiat divino dovrà forse a suo tempo suscitare un nuovo mondo, e tutti gli elementi più generosi fervere in uno stato di soluzione, nell’aspettativa di quel disegno, di quella forma, che tutte dovrà forse comporle e armonizzare in bell’ordine.—In mezzo, o signori, a Gerusalemme in travaglio, in mezzo al romore delle armi, al disputar dei Dottori, al piatire dei rivali, al ruggito delle fazioni, inoltratevi, se vi dà l’animo, per le vie mal sicure di Gerusalemme, impegnatevi per le sue vie, e se il pugnale non paventate dei sicarj,[1] i più cospicui luoghi visitate della città e dei suburbj. Qui è la setta dei Sadducei, e queste le sue aule. Nuovi giardini d’Ep...

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