INCONTRO
Non mi è chiaro cosa mi fosse successo. Ricordo il corso principale di Vercelli vuoto quella sera, privo di tutte quelle anime che fino a qualche ora prima avevano riempito col loro vociferare le vetrine dei bar, gli uffici dei piani rialzati o i camerini dei negozi, ormai, prosciugati da cotanto affanno, durante il periodo dei saldi. “Questa giacca non ce l'ho” “Ma ti pare che sia scontato? Mi ricordo benissimo quanto costasse prima”. Era l'eco proveniente dalle mura che rimbombava persino sull'esterno mentre le saracinesche serrate e sull'attenti, rimanevano a prestar servizio e protezione contro ogni refurtiva rimasta. E oltre a questo nessun’ altra voce intorno, né un telefono a vibrare col suo tocco inconfondibile.
Queste città di pianura, d'inverno, si risvegliano solo a Natale. Le luci e gli addobbi io me li immaginavo, già, riposti dentro qualche scatolone “scocciato” e recuperato chissà dove; addobbi custoditi negli scantinati segnati dallo stesso buio pesto di quella sera di febbraio. E' così che passano gli anni i decori natalizi: dimenticati nei sotterranei dieci mesi per, poi, riapparire a vorace intermittenza nel tempo che rimane. Pensai che fosse meglio essere un cesso, se avessi dovuto scegliere: utile, indispensabile e sempre presente a ricordarci che in fin dei conti, a volte, siamo della stessa sostanza che ci riversiamo dentro.
Non era tardi ma sembrava che tutti avessero, già, fatto ritorno a casa. I soli fari di qualche auto che, a passo d'uomo, sfioravano la pesantezza di un consumato e invecchiato asfalto mi rassicuravano sul fatto che non fossi, poi, da sola. Io lo aspettavo proprio all'incrocio vicino la gelateria e non capivo se il mio tremare fosse dovuto al freddo, alla suggestione che poteva esercitarmi la pubblicità, fuori tempo, di una coppa gelato panna e cioccolato fondente. Ben presto mi accorsi invece, intravedendo la sua figura lineare e composta che si faceva più grande ad ogni passo verso di me, che era lui a togliermi il fiato. Tremavo nella sua attesa. Un'emozione che si fece esplosione e poi vulcano, infine stella primordiale quando arrivò e mi disse: “Ciao”. Che “ciao” meraviglioso perbacco, un “ciao” senza tempo, infinito, incantevole ed investita da una forza irruenta ed ancestrale caddi al suolo colpita dalla breccia di quel beffardo di Cupido che di me si prese gioco. Dio, che ci faceva Cupido a Vercelli quando tutto mi sembrava deserto?
Ora metto in uso una forma verbale poco comune ma, improvvisamente, “Io splendetti”, di riflesso, perché nello stargli a fianco, durante quella breve camminata che ci portava alla ricerca di un furtivo caffè, io venni avvolta da un abbaglio di luce che lo sosteneva tutt’intorno, nel suo passo leggero e il suo fare impenetrabile ma allegro; un fascio luminoso che permeava gli incavi più nascosti del mio essere, ormai, scoperto.
Non ci volle, poi, molto a raggiungere il bar su piazza Cavour, l’antica piazza Maggiore, che di già mi ritrovai seduta di fronte a quell’uomo tanto inatteso quanto voluto; lo osservavo con scrupolo e attenzione come non mi capitava da tempo. C’eravamo solo noi due in quel locale ma nulla mi poteva interessare più di quel viaggio che a breve mi prestavo ad affrontare. Separata da un’ordinazione lo feci seduta al tavolo di un bar senza dover comprare alcun biglietto. Fu un viaggio di solo andata perché da certi luoghi non si ritorna o almeno si ritorna ma diversi. I migliori viaggi si fanno attraverso le persone e lui era la sospirata America, quella della Nannini, e io non c’ero ancora stata.
Era terra inesplorata in ogni suo gesto tanto che mi ci perdevo nel seguire ogni suo movimento. Cercavo il suo sguardo vivo e nocciola dietro il riflesso delle lenti di un occhiale nero perché si potessero incidere i miei occhi grigio topo nei suoi e nei ricordi che da qui a poco sarebbero approdati. Fo...