Spasimo (Romanzo)
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"Spasimo" è un romanzo di Federico de Roberto,
una delle prime opere poliziesche della letteratura italiana del XIX secolo. Il romanzo inizia con il presunto suicidio della contessa d'Arda, amante del principe Zakunine. Il principe in questione è un rivoluzionario russo su cui, nel suo paese, pende una condanna a morte. Espulso da quasi tutti gli Stati europei si rifugia nella Confederazione Svizzera. Un giudice del Tribunale cantonale di Losanna, però, ravvisa nel principe Zakunine un individuo equivoco e moralmente reprensibile, dedito alle donne e a piaceri di ogni tipo. La contessa d'Arda è stata uccisa, oppure si è suicidata? E se è stata uccisa, da chi? Dal principe rivoluzionario? Da un'amante del principe? Da un disilluso spasimante della contessa? Il giudice Ferpierre si addentrerà in questo mondo d'intrighi cercando di venirne a capo.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831631570
Argomento
Literature
Categoria
Classics
F. DE ROBERTO

Spasimo



1897

I.

IL FATTO.
Chi passò l’autunno del 1894 sul lago di Ginevra rammenta ancora senza dubbio il tragico caso di Ouchy, che produsse tanta impressione e diede così lungo alimento alla curiosità non solo tra la colonia dei villeggianti sparsi per tutte le stazioni del lago, ma anche nel gran pubblico cosmopolita cui i giornali lo riferirono.
Il 5 ottobre, pochi minuti prima di mezzogiorno, un colpo d’arma da fuoco e grida confuse partiti dai Cyclamens, villa posta a mezza strada fra Losanna ed Ouchy, ruppero violentemente l’abituale tranquillità del luogo e attrassero vicini e passanti. Questa villa era stata presa in affitto da una dama milanese, la contessa d’Arda, che l’abitava ogni anno dal giugno al novembre. L’amicizia di lei per il principe Alessio Zakunine, rivoluzionario russo condannato nel capo al suo paese, espulso indi da quasi tutti gli Stati d’Europa e ultimamente rifugiatosi nel territorio della Confederazione, era nota da tempo.
Il giorno della tragedia i due amanti si trovavano insieme; anzi le stesse grida del principe Zakunine, con la detonazione dell’arma, fecero accorrere i servi esterrefatti, agli occhi dei quali si presentò una vista tremenda: la contessa, ai piedi del suo letto, giaceva esanime, con la tempia destra rotta da un proiettile e il revolver presso alla mano. E quantunque lo spettacolo della morte, della morte repentina e violenta, sia tale che nessun altro lo avanza nell’orrore, pure la commozione più forte non era prodotta negli astanti dalla trapassata, ma dal superstite. Come un pallido fior d’azalea venato di rosso, il volto rigato di sangue della infelice era freddo e cereo, ma nulla rivelava delle contrazioni dell’agonia; anzi una serenità confidente e una specie d’ancor vivo sorriso lo animavano: con le labbra violacee un poco dischiuse, tra le quali scorgevasi appena la perlata riga dei denti; con le palpebre rovesciate e le pupille rivolte al cielo, la morta pareva beata, quasi non morta ancora per poter attestare che fuor dell’umana vita, nel silenzio e nell’ombra, ella trovava alfine il bene e la gioia. Livido e disformato, con i capelli irti sulla fronte madida di sudore gelato, gli occhi folli, le labbra, le mani, tutta la persona tremante come per febbre, il principe Alessio incuteva paura. Chiamato aiuto con rauche grida, egli stava ora in ginocchio presso alla salma, s’insanguinava nel brancicarla, e due sole parole brevi e monotone gli uscivano dalla bocca convulsa: «È finito! È finito!…» In quelle parole, nell’accento lacerato col quale le ripeteva, c’era uno smarrimento, uno strazio, una disperazione senza riparo; e non più la morta pareva tanto da compiangere quanto quel vivo implacabile, perduto dal dolore e quasi anch’egli insofferente di respirare. Infatti, quando le sue mani erano stanche di carezzare le mani, i capelli, la veste della esanime, egli se le portava alla gola con un gesto violento, come se volesse soffocarsi; e i servi, le persone accorse tentavano di confortarlo, di toglierlo dalla vista crudele; ma con impeto quasi selvaggio egli respingeva allora tutti da sè, stendendo le braccia, levandosi in piedi: aggiratosi malfermo, come ebro, per la camera mortuaria, tornava poi ad accasciarsi dinanzi al cadavere.
La villa restava aperta agli accorrenti, nessuno pensava di vietarne l’accesso. Dalla vicina Casa di salute era subito venuto il dottor Bérard; ma questi non aveva potuto far altro che accertare la morte fulminea. Come la notizia rapidamente si propagava fra la colonia degli stranieri, i curiosi, e specialmente quanti conoscevano la contessa ed il principe, sopravvenivano. Nessuno poteva avere qualche notizia dell’accaduto se non dai servi; come sordo, come cieco, il superstite non s’accorgeva delle persone che lo accostavano, che tentavano di stringergli la mano; non udiva le parole di compianto, le domande d’addolorata simpatia che la gente gli rivolgeva. Nè le risposte dei servi facevano molta luce sull’avvenimento. Esse si riferivano alle circostanze esteriori della catastrofe, dicevano che il principe era tornato alla villa, dopo un’assenza di qualche settimana, due giorni innanzi; che quella mattina la signora s’era levata più presto del solito ed era rimasta forse un’ora alla terrazza mentre il suo compagno lavorava nello scrittoio con una donna venuta a trovarlo verso le nove; che prima di colazione la contessa aveva mandato in città la Giulia, la sua antica cameriera italiana, per alcune commissioni; che quando la colazione stava per essere servita lo sparo aveva fatto trasalir tutti; che dal secondo piano, dalle camere dei padroni, il principe era sceso come pazzo al pian terreno chiedendo l’aiuto d’un medico; che tutti erano saliti precipitosamente nella camera della contessa, dove la straniera, tentato invano di portarle soccorso, aveva ancora invano tentato di confortare il disperato.
Nella confusione pochi avevano notato la presenza di questa estranea. Era una giovane d’appena vent’anni, dai capelli d’un biondo croceo corti ed acconciati come le chiome maschili, dagli occhi chiari e freddi, piuttosto piccola di statura, vestita da capo a piedi di nero. Se ne stava ritta ed immobile nell’angolo d’una finestra, con le braccia conserte, il capo chino, quasi neppur notando la curiosità della quale cominciava ad esser fatta segno. Nel cerchio dei più curiosi la baronessa di Börne, dama austriaca corta e grassa, sola del suo sesso accorsa alla villa, non la lasciava con gli occhi, pure incalzando di domande i servi che non sapevano che cosa rispondere e rivoltandosi con gli astanti per commentar l’accaduto.
—Povera donna! Povera amica!…—esclamava.—Ma perchè? Come mai?… E non ha scritto nulla? Non si è trovato un suo rigo?… Forse, cercando… È morta sul colpo? Soffriva, è vero; ma non tanto che non potesse resistere!… Era forte, era una donna molto forte, nonostante quella sua figura tenue e delicata… I dolori morali…
Con voce più bassa, dirigendo le parole a un giovane inglese dai baffi rossicci, gli occhi azzurri, la fronte nuda, soggiunse:
—Credete che fosse felice?
L’interrogato rispose con un gesto ambiguo, che poteva significare tanto consenso quanto dubbio o ignoranza.
—Quel povero principe!…—riprese allora la baronessa sogguardando continuamente la straniera.—È uno strazio vederlo soffrire così… Bisognerebbe che qualcuno lo persuadesse ad allontanarsi…—e queste parole furono direttamente rivolte alla giovane sconosciuta; ma come costei non rispose, la dama soggiunse:—Perchè non adagiano almeno la salma sul letto?
Ella parlava di là dalla folla assiepata intorno al cadavere, e poichè fra gli astanti le sue osservazioni erano approvate, chiesto ed ottenuto che la lasciassero passare, s’accostò al principe, il quale stava in quel momento appoggiato contro la spalliera del letto, con le braccia pendenti, le mani contratte e gli occhi folli ancora rivolti alla morta.
—Non possiamo lasciarla così… Vogliamo portarla sul letto?…
Volete?…
Egli non rispose, non parve nemmeno che avesse udito. Come la baronessa gli mise una mano sulla spalla, fremè quasi investito da una corrente magnetica; e il suo sguardo stravolto, smarrito, perduto, esprimeva un’angoscia tanto paurosa, che alla loquace signora mancarono un momento le parole.
—Che sciagura!… Che dolore!…—disse, turbata.—Ma bisogna pure aver la forza di rassegnarsi al destino!… Dottore,—soggiunse rivolta al Bérard che si riaccostava in quel punto al principe,—vogliamo togliere la salma di lì?… Mi par quasi che la poveretta debba soffrire, per terra!… E tutta questa gente, non si potrebbe pregarla d’allontanarsi?
—Sì… certo…—rispose il dottore imbarazzato ed esitante.—Ma prima di far nulla bisogna aspettare l’arrivo dei magistrati…
—Sono stati avvertiti?
—Eccoli.
Il mormorìo delle voci curiose già spegnevasi infatti nella sala contigua: il giudice di pace del circolo di Losanna, il commissario di polizia, un dottore e due gendarmi entravano in quello stesso punto.
Col primo suo ordine il giudice fece allontanare gl’indiscreti dalla camera mortuaria e dalla sala: i gendarmi, dinanzi all’uscio per il quale questa sala e l’attiguo salotto comunicavano, impedirono che la gente s’inoltrasse. Solo la straniera col dottor Bérard che spiegava al suo collega della polizia l’inutilità d’ogni cura e la rapidità della morte, e la baronessa di Börne che, non richiesta, verbosamente informava il giudice dell’accaduto, restarono con il principe e il commissario presso al cadavere.
—A che cosa attribuiscono la risoluzione funesta? Nulla la faceva prevedere?—-domandò il giudice. Ma la baronessa, che pur non sapeva tacere, si strinse nelle spalle alla domanda e guardò il principe per significare che egli solo poteva rispondere.
Passatosi una mano sulla fronte, come trasognato, il principe disse:
—Sì, bisognava prevederlo… Io dovevo prevederlo…
—Soffriva molto?
—Soffriva tanto… tanto…,—rispose l’altro, con intonazione di così cupa tristezza che lo stesso magistrato tacque un poco.
—Era inferma?—domandò quest’ultimo, dopo un breve silenzio, al dottore.
—Sì, d’una malattia di petto.
—Lo sapeva?
—Senza dubbio. Non le si poteva nulla nascondere. Aveva tanta intelligenza e tanto coraggio che le pietose menzogne riuscivano inutili.
—Non si poteva sperare di salvarla?
—La sua infermità era di quelle sull’esito delle quali non c’è pur troppo da ingannarsi; ma che tuttavia lasciano vivere, con un appropriato regime, lunghi anni.
—Allora non la sola malattia l’ha spinta ad uccidersi?
—Non la sola malattia,—ripetè come un’eco il principe Alessio.
Era, durante quel triste interrogatorio, molto curiosa e quasi comica la vista della baronessa di Börne, la quale, non potendo parlare, atteggiava le labbra, moveva gli occhi, scoteva il capo e tutta la persona come per ripetere successivamente le domande del giudice, per confermare le risposte del dottore e del principe, per far noto che aveva previsto le une e le altre, per avvertire segnatamente che anch’ella aveva qualcosa da osservare.
—Ecco!… È così!… Proprio così!… E con i suoi sentimenti religiosi…
—Quali erano?—domandò il giudice.
—Ho conosciuto poche donne d’una fede tanto salda ed ardente,—rispose il dottore.
—È vero?…—interruppe a sua volta la baronessa.—Non si può credere quanto grande fosse il suo fervore! Io ne so qualche cosa. Non faceva mai una passeggiata che non avesse una chiesa per meta. Le sue escursioni preferite erano nel distretto di Echallens, a Brétigny, ad Assens, a Villars-le-Terroir, per le chiese cattoliche che vi s’incontrano. La domenica, le feste, passava lunghe ore, qui, a San Luigi, in ginocchio, finchè non si reggeva più… Volevo appunto osservare: è perfino incredibile come, con tanta fede, abbia potuto fare quello che ha fatto.
Il principe non diceva più nulla. Il tremor nervoso che lo aveva scosso dal principio si veniva sedando; la sconvolta, violenta, paurosa espressione del livido viso e dei rossi occhi si trasformava: pallido, sfinito, disfatto, pareva sul punto di mancare anch’egli.
—Era sola quando si è uccisa?—continuò a interrogare il magistrato.
—Sola.
—Parlaste con lei, stamani?
—Sì, parlai.
—Era triste?
—Mortalmente.
—Si potrebbe vedere se ha lasciato qualche scritto.
La baronessa, battendo allora una mano contro l’altra, esclamò:
—È ciò che ho detto fin da principio!…
E il commissario, a un cenno del giudice, si diede alla ricerca.
La camera della morta non aveva molti mobili. Il letto, un armadio con lo specchio, un cassettone, una piccola scrivania disposta contro la finestra, alla luce, e un tavolinetto da lavoro, in un angolo, ne formavano l’addobbo. Sulla scrivania due pile di libri inglesi dalle copertine bianche, una scatola di carta da lettere, una cartella di stoffa antica e un calamaio da viaggio. Altri libri stavano sul tavolino da lavoro e sul comodino accanto al letto. Il commissario di polizia li rimoveva ad uno ad uno, apriva le cassette dei mobili, nessuna delle quali era chiusa, e data un’occhiata agli oggetti d’eleganza muliebre dei quali erano piene, le richiudeva. Nella scrivania vecchie scatolette di cartone contenevano la corrispondenza epistolare della defunta; c’era anche un portafogli pieno di valori italiani e francesi e qualche migliaio di lire in monete d’oro e d’argento. In fondo alla cassetta di destra una scatola a foggia di libro, ricoperta di velluto nero, era chiusa da una minuscola chiave; sul punto che il commissario stava per aprirla il principe fece un passo incontro a lui, dicendo:
—È il suo libro di memorie… il giornale della sua vita…
Pareva, dal tono col quale diede quell’indicazione, dall’atteggiamento di tutta la sua persona, che volesse difendere contro gli sguardi indiscreti l’intimo pensiero della sua povera amica. Ma la baronessa di Börne:
—Qui appunto si potrà trovare qualche cosa!…—esclamò avvicinandosi al giudice, il quale prendeva dalle mani del commissario il libro che questi aveva tratto dalla nera custodia.
Era anch’esso rilegato di nero e fregiato d’argento, come un libro mortuario; e già quella vista diceva la tristezza e il dolore dei quali la vita dell’infelice doveva essersi abbeverata. Il giudice scorse rapidamente i fogli: la scrittura era piuttosto grande e magra, poco inchiostrata, elegante e d’una nitidezza mirabile. Il libro era forse pieno per tre quarti; e l’indagatore soffermavasi con maggior attenzione sulle ultime pagine; ma dopo aver letto scrollò il capo:
—Non s’intende,—disse;—non è una confessione…
Il commissario proseguiva frattanto le ricerche in uno stanzino attiguo, lo spogliatoio, dove un altro armadio, il lavabo ed i bauli tenevano tutto il luogo disponibile. Non vi trovò nessuna carta. Rientrato nella camera, la traversò dirigendosi alla sala: qui le ricerche furono ancora più brevi ed inutili; perchè, oltre i divani e le poltrone, solo una tavola piena di minuti ninnoli e il pianoforte sul quale stava spiegato un fascicolo del Pessard la mobigliavano. Già il commissario tornava sui proprii passi, quando una voce di pianto ed esclamazioni d’ambascia lo fecero rivoltare: i gendarmi, obbedienti agli ordini ricevuti, vietavano l’entrata ad una donna vestita di scuro che portava sul capo il velo nero delle popolane lombarde.
—Ah! Signore! Ah! Signore!…—esclamava costei, a mani giunte, col magro viso solcato da lacrime ardenti.—Vederla!… Ancora una volta vederla!… La padrona mia… la mia buona padrona!… Ah, Signore, vederla!…
Era la Giulia che tornava in quel punto: piccola e magra, di dubbia età, ella appariva disfatta dall’ambascia.
—Lasciate che passi,—ordinò il magistrato cui la baronessa spiegò che, servendo la morta da lunghissimi anni, questa donna aveva goduto di tutta la sua confidenza.
E come, entrata barcollante e lacrimosa, a mani giunte, ella si avanzò verso la salma, il brivido nervoso r...

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