La trappola
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La trappola

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TRAMA
"Il romanzo "La trappola" di Delfino Cinelli è la storia di Paolo Mortarelli, marchese di Ciciano che, seppur di carattere schivo, s'innamora della bella Armida, moglie di un cacciatore di frodo, e oste del borgo, chiamato Pulce. Questi, anni prima, aveva teso un'imboscata al guardiacaccia del marchese, Stefano, che da allora gli aveva giurato vendetta. I rapporti tra Pulce e Mortarelli si deteriorano, fino a quando l'oste decide di eliminare il rivale in amore. Stefano e Paolo preparano "la trappola" per far sì che Pulce scopra le sue reali intenzioni. Il finale è un crescendo drammatico: Pulce convinto di aver colpito a morte il marchese, se lo ritrova invece dinnanzi e, incredulo e spaventato, perde il senno".
Testo tratto da: https://letture.wordpress.com/2013/10/18/543-lettura-la-trappola-di-delfino-cinelli/
Delfino Cinelli (1889 – 1942) è stato uno scrittore e traduttore italiano.
Figlio di un industriale di Signa, si occupa dell'industria di famiglia fino alla soglia dei quarant'anni quando inizia a scrivere. In meno di vent'anni pubblica una quindicina di libri per le principali case editrici dell'epoca (Mondadori, Treves, Vallecchi).
Pubblica i suoi racconti sul Corriere della Sera, Nuova Antologia e altre testate.
Insieme a Elio Vittorini traduce per Mondadori molte opere di Edgar Allan Poe.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831635073
Argomento
Literature
Categoria
Classics

XI

«E allora, Pulce?»
Pulce appoggiato al banco scosse la testa. L’Armida a mezzo le scale a sentir quella voce si fermò pietrificata.
«È inutile, non vengo, non posso, signor marchese. In bocca al lupo.»
«Me ne rincresce. Buona notte, Pulce.»
«Buona notte, signor marchese.»
Paolo s’allontanò fischiettando. Quando, dopo le ultime case, entrò nel buio della campagna solitaria, smise anche di fischiare. Era buio pesto: la luna si sarebbe levata fra un’ora, forse. Quando arrivò al bivio, si fermò a vedere se c’era nessuno: ma il buio dintorno era solido come pareti nere. Però, davanti, all’orizzonte, il disegno ondulante dei poggi si distaccava dal cielo su un chiarore diffuso, un presentimento della luna che doveva sorgere di là.
Paolo seguì per qualche cento di passi il viottolo che scendeva alle Ferriere, poi, a un folto macchioso di ginepri, se ne staccò, risalì un pezzo di scosceso, e quasi a tastoni trovò il viottolo che contornava il botro e si prolungava sin dietro alle case del paese. E affrettò il passo, poichè il chiarore da dietro ai poggi si allargava in cielo come una gelata. Fra poco sarebbe stato un lume di luna da vederci come di giorno; bisognava far presto. Quando fu all’altezza delle prime case, scavalcò di poco l’orlo del botro, e camminando quasi sempre carponi, con mani e piedi per tenersi su, raggiunse un canalone più stretto, dominato da due pareti di creta che lo tenevan chiuso come in un covo. Allora si fermò e si mise a sedere su una costola del mattaione, voltandosi verso il chiarore, aspettando la luna. In breve e rapidamente, come rispondendo al suo desiderio, la luna s’alzò dal crinale dei poggi. Il cielo divenne sottile, impalpabile, ma la terra s’animò tutta di grandi ombre e di spesse grosse forme, che digradando vieppiù che si alzava la luna, prendevano consistenza. Sino all’orizzonte era tutta una marea di dorsi collinosi, alcuni diafani, altri scintillanti di luce nei crinali dentati, altri neri e poderosi. Più da vicino le grandi ombre delle valli si sprofondavano nel buio, sino a confluire nella vallata più larga delle Ferriere inondata di luce, al di là della zona d’ombra rigida e netta che disegnava il crinale di Ciciano. Tutto il botro ci si annegava, salvo una cresta più alta sottolineata di un rigo d’argento sul cielo, come se fosse l’orlo di una nuvola.
Disopra a lui, a pochi passi, le sagome dei tetti del paese si scandivano nere sul cielo seguendo come una scalinata il profilo della salita, e, più in alto, il castello si distaccava a picco come se fosse una escrescenza del monte, una roccia isolata.
Nel gran quarto d’ora che seguì – poteva essere un’ora, una nottata, tanto era lungo il tempo, – si pentì cento volte d’aver creduto alle ubbìe di Stefano. Certo, sarebbe stato facile tornare addietro e andare a letto; ma quando arrivava proprio al punto di negare ogni sospetto, un dubbio sottile s’insinuava in lui e lo teneva lì, fermo nel suo nascondiglio.
Finalmente la luna entrò nelle ultime pieghe della valle e egli vide allora l’ombra dei filari di viti, sotto di sè, quasi a perpendicolo, e il piccolo tabernacolo della Madonna della Peste. Seguendo l’orlo dell’ombra che si ritirava, dopo qualche minuto scoprì il roveto dove doveva essere nascosto Stefano, poi a filo della vegetazione vide la testa del fantoccio, col suo cappello a cencio, quello che portava tutti i giorni. Certo, agli occhi di chiunque lo conoscesse, e non sapesse della loro preparazione, era lui. E nel mentre sorrideva di vedersi riprodotto così bene, lo vide con raccapriccio, muoversi, agitar le braccia per aria, cadere riverso e scomparire nel roveto; e, dopo qualche secondo, cautamente, lentamente riapparire. E Paolo tirò un respiro di sollievo, e bisognò quasi che articolasse con un «bravo» la sua ammirazione: l’atto era stato intensamente, paurosamente vero.
Ma ogni velleità di questo genere gli fu tolta da un rumore: dietro, una porta si schiudeva molto piano – nella notte lucida il più piccolo suono prendeva una distinta chiarezza. Si sentì allora irrigidire in una immobilità di macigno, mentre a pochi metri da lui nell’ombra pericolosa del botro ancora sommerso di buio, un passo grave rotolava franando negli scivoloni del mattaione bagnato.
Quando dai vetri il lume di luna inondò il buio della bottega, Pulce non stette più alle mosse. Se aspettava che la luna alzandosi invadesse il botro, non avrebbe più potuto passare, lo avrebbero visto, l’avrebbe visto anche il marchese. O ora, o mai più: loro due soli, laggiù. Nessun testimone, nessuna prova. Avrebbe potuto simulare l’incidente di caccia: che Paolo si fosse ferito da sè, per disgrazia. Gli venne a mente la notte di Stefano: anche quella volta era andata liscia. Staccò il fucile dall’arpione, e col gesto abituale aprendolo lasciò calare lo sguardo lungo l’interno delle canne, lunghe, liscie, lucide. Poi lo posò come se scottasse; aveva sentito a un tratto, come se fossero lì, gli occhi di Paolo posarsi su di lui, quegli occhi aperti, chiari, come a dirgli: «ma perchè mi vuoi ammazzare?» Lì per lì non gli riusciva di ricordarsi perchè: si dovette scotere tutto, s’era come incantato. Aprì un cassetto del banco, scelse quattro cartucce: due a pallini, due a palla, da cinghiale, e se le scivolò in tasca. «Caccia grossa, caccia grossa» ripeteva macchinalmente tra sè e sè. Il ritornello gli batteva alle tempie, come il picchiettìo di un tic nervoso. In questo mentre, sentì un passo sulla scaletta, e svelto riattaccò il fucile al chiodo.
L’Armida dopo avere sparecchiato in silenzio, s’era sentita freddo. Aveva messo un po’ di brace e un tizzo di carbone in un veggio, e era salita su: aveva infilato il trabiccolo nel letto, e battendo i denti, aveva cominciato a spogliarsi, con le dita che non trovavano gli occhielli e si imbrogliavano a sciogliere i nodi. A entrare sotto le lenzuola, era tutta un brivido, e nonostante che si buttasse tutta contro il trabiccolo, quel tremito non voleva andar via, anzi diventava più fitto. Poi le passò; e le entrò addosso un’uggia, una stanchezza, una voglia di farla finita, di dimenticare, di essere un’altra, di non viver più. Aveva lasciato la porta di camera aperta, sentiva Pulce che si muoveva giù, e qualche passo. La sua agitazione crebbe sino al punto che non potè più stare, si buttò uno scialle sulle spalle, e scese.
Nello sguardo di Pulce ormai non c’era più che odio, e noia: noia di essere interrotto, di averla fra i piedi, di non potersene liberare. Allora, nonostante l’abbiezione alla quale la lunga doma l’aveva asservita, l’Armida ebbe il coraggio di mettersi tra Pulce e la porta. Poi gli mise le mani sul petto e si sfogò:
«Finiamola, Pulce. Mi vuoi far morire? Io sono una donna onesta. Da quando sono entrata in casa tua, m’hai tenuta sotto chiave, m’hai guardata a vista.»
«Si vede che non bastava;» si rivoltò Pulce «già, quando una donna l’ha nel sangue…»
«Ma che ho fatto, Sant’Iddio?»
«Ma se t’ha visto tutto il paese!»
«Sono andata fuori un momento per dirgli di lasciarmi in pace, di star lontano, che andasse pei fatti suoi! Ah in pace, poter state in pace! Essere lasciata in pace! Verrebbe la voglia di morir davvero!»
Pulce non la guardava:
«Lascia fare a me, si vedrà da ultimo!»
Allora l’Armida gli si buttò ai piedi, gli si strinse ai ginocchi. Pulce si chinò, si sciolse, la spinse via riversa sui mattoni. Ma aveva sentito il calore delle sue membra e si piegò ancora una volta su di lei, le sollevò il capo, la guardò negli occhi: una favilla di desiderio l’avrebbe forse trattenuto, ma gli occhi dell’Armida erano fissi, sbarrati nel vuoto. Allora la lasciò ricadere a terra e si mosse verso la porticina.
Come se lei avesse sospetto delle sue intenzioni, come se l’attrattiva non confondibile della verità la comandasse, l’Armida si alzò e si mise dritta, schiacciata contro la porta.
«Ah, no!»
Pulce la prese ai polsi:
«Levati di lì!»
«Bada a quello che fai!»
«Hai paura pel tuo ganzo?» le gettò allora Pulce in viso sghignazzando, e con una stratta la tolse di mezzo. Ma l’Armida gli s’avviticchiò addosso, lo strinse tutto in un abbraccio soffocante che era un possesso e una dedizione insieme. Le mani di Pulce si aprirono, le braccia caddero giù lungo il corpo di lei, la prese per il capo, e con le labbra le avvolse la bocca. Allora, più forte della volontà, lo schifo la corse tutta: si svincolò e a corsa si buttò per le scale: ormai non sentiva più altro che il bisogno di salvarsi dal ribrezzo di quella stretta. Pulce le era dietro a un passo. Ma ella, più svelta, gli sbatacchiò la porta di camera in faccia, la chiuse a paletto. Pulce si ostinò alla serratura, si piegò a arco contro la porta, e a spallate tentava di svellerla dai gangheri. La porta agli strattoni si piegava, ma resisteva. Allora, deciso, scese a corsa, prese il fucile, aprì la porta e scappò via nel buio.
L’Armida, tutta ancora lustra di ribrezzo, ascoltò i passi; quando si fece silenzio, terrorizzata, riaprì la porta e disse piano, tremante:
«Ora puoi venire, Pulce. Vieni, Pulce!»
Non si sentiva più nessun rumore. Chiamò più alto, urlò: «Pulce, Pulce!» Si buttò giù per la scaletta, aprì la porticina, sul botro, affannando, sperando. Ma tutto era silenzio e grandi luci e grandi ombre, nel chiaro di luna.
Stefano, accucciato nel roveto, con le forbici da potare, s’era fatto due feritoie dalle quali poteva spiare sul sentiero che veniva dai campi delle Ferriere, e, di dietro, risalendo il botro, sino al crinale, dove scintillavano i lumi delle case. Non aveva più paura per il padrone: dal nascondiglio del marchese si doveva scoprire tutto, da ogni parte, su quello scoscio di cretaccia nuda nella luna; ad ogni evenienza, Mazzingo era di guardia, dietro la casa di Pulce. Considerava l’opera sua con soddisfazione, come un capo che avendo dato tutte le disposizioni prima di una azione che ha ragione di ritenere debba avere buon successo, ripassi agli ultimi momenti tutti i suoi piani per veder se avesse dimenticato qualche circostanza e nello stesso tempo per ammirare, meglio che non possa farlo dopo quando si confonderà con l’avvenimento la volontà che lo preparò.
Sul fantoccio, non c’era da aver dubbi. L’aveva provato in troppi modi, perchè non fosse giunto alla perfezione. Ad ogni modo volle provare un’altra volta, l’ultima – l’ora si avvicinava – per veder l’effetto che faceva nella luna: tirò i fili. Si vide allora il fantoccio agitare le braccia e cadere riverso, poi scomparire fra i rovi: l’azione non poteva essere più verosimile, più vera. Piano, a passi felini, sortì dal roveto, rimise il fantoccio al suo posto, tornò nel suo nascondiglio.
Ma poteva darsi che Pulce non venisse. Che era che gli dava la sicurezza che sarebbe venuto? Pulce soffriva troppo, non...

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  1. LA TRAPPOLA
  2. Delfino Cinelli
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