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Giuseppe Garibaldi (Nizza, 4 luglio 1807 – Caprera, 2 giugno 1882) è stato un generale, patriota, condottiero e scrittore italiano.
Noto anche con l'appellativo di "Eroe dei due mondi" per le sue imprese militari compiute sia in Europa sia in America Meridionale, è la figura più rilevante del Risorgimento e uno dei personaggi storici italiani più celebri al mondo.
È considerato dalla storiografia maggioritaria, anche internazionale e nella cultura popolare del XX secolo da essa influenzata, il principale eroe nazionale italiano. Iniziò i suoi spostamenti per il mondo quale ufficiale di navi mercantili e poi quale capitano di lungo corso al comando. La sua impresa militare più nota fu la spedizione dei Mille, che annesse il Regno delle Due Sicilie al nascente Regno d'Italia durante l'Unità d'Italia.
Garibaldi era inoltre massone di 33º grado del Grande Oriente d'Italia (ricoprì anche brevemente la carica di Gran Maestro) e anticlericale e fu autore di numerosi scritti e pubblicazioni, prevalentemente di memorialistica e politica, ma anche romanzi e poesie.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831634717
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici
GIUSEPPE GARIBALDI
_____

MEMORIE

EDIZIONE DIPLOMATICA DALL’AUTOGRAFO DEFINITIVO
A CURA DI
ERNESTO NATHAN
TORINO
Società Tipografico-Editrice Nazionale
(già ROUX e VIARENGO)
1907
Caprera 7 Decembre 1871

REVISIONE ALLE MIE MEMORIE

CAPITOLO I.

I miei genitori.

Io non devo dar principio a narrare della mia vita - senza far cenno de’ miei buoni Genitori - il di cui carattere ed amorevolezza - tanto influirono sull’educazione mia - e sulle disposizioni del mio fisico.
Mio padre figlio di marino, e marino lui stesso dall’età più tenera - non avea certamente quelle cognizioni di cui sono fregiati gli uomini del suo ceto - nella generazione nostra.
Giovine aveva servito sui bastimenti di mio avo - più avanti, aveva comandato bastimenti propri.
Vari erano stati i periodi della di lui fortuna - e non di rado - lo udï racontare - che più agiati avrebbe potuto lasciarci - Io però li sono riconoscentissimo, del come mi ha lasciato - ben persuaso, ch’ei nulla trascurò per educarmi, anche in tempi, ove scaduto di fortuna - l’educazione dei figli, disagiava certo l’onestissima sua esistenza.
Se mio padre poi, non mi fece dare più colta educazione, esercitare nella ginnastica, scherma, ed altri esercizi corporei - fu piutosto colpa dei tempi - in cui grazie agli Istitutori chercuti - propendevano piutosto a far della gioventù, tanti frati e legali, anzichè buoni cittadini, capaci di professioni virili ed utili - ed atti a servire il loro devastato paese.
Daltronde era sviscerato l’amor suo pei figli - e quindi temente: non si spingessero a bellici divisamenti.
Tale trepidazione dell’amato mio padre - prodotta da soverchio affetto - è forse l’unico rimprovero da farli - giacchè per timore di espormi troppo giovane ai disagi, ed ai pericoli del mare - egli mi trattenne contrariamente all’indole mia - sino verso i quindici anni - senza permettermi di navigare.
E non fu savia determinazione - essendo io, oggi, persuaso: che un marino deve cominciare la carriera giovanissimo - se possibile prima degli otto anni - Essendo in tale pratica: maestri i Genovesi - e gl’inglesi massime.
Far studiare i giovani destinati al mare, a Torino, o a Parigi - ed inviarli a bordo oltre i vent’anni - è sistema pessimo - Io credo meglio: far fare i loro studi a bordo, e la pratica di navigazione nello stesso tempo.
E mia madre! Io asserisco con orgoglio, poter essa servir di modello alle madri - E credo, con questo aver detto tutto.
Uno dei rammarichi della mia vita - sarà quello, di non poter far felici gli ultimi giorni della mia buona genitrice - la di cui vita ho seminato di tante amarezze colla mia avventurosa carriera.
Soverchia è forse stata la di lei tenerezza per me ¿Ma non devo io all’amor suo - all’angelico di lei carattere, il poco di buono che si rinviene nel mio?
Alla pietà di madre - verso il prossimo - all’indole sua benefica e caritatevole - alla compassione sua, gentile, per il tapino, per il sofferente - non devo io forse la poca carità patria, che mi valse la simpatia e l’affetto de’ miei infelici ma buoni concittadini?
Oh! abbenchè non superstizioso certamente - non di rado - nel più arduo della strepitosa mia esistenza - sorto illeso dai frangenti dell’Oceano - dalle grandini del campo di battaglia…. mi si presentava: genuflessa, curva, al cospetto dell’infinito - l’amorevole mia genitrice - implorandolo per la vita del nato dalle sue viscere!… Ed io benchè poco credente all’eficacia della preghiera - n’ero commosso! felice! o meno sventurato!

CAPITOLO II.

I miei primi anni.

Nacqui il 4 Luglio 1807 in Nizza-marittima - verso il fondo del porto Olimpio - in una casa sulla sponda del mare.
Io ho passato il periodo dell’infanzia - come tanti fanciulli, tra i trastulli, le allegrezze ed il pianto - più amico del divertimento che dello studio.
Non aprofitai il dovuto delle cure, e delle spese in cui s’impegnarono i miei genitori per educarmi - Nulla di strano nella mia giovinezza - Io ebbi buon cuore - ed i fatti seguenti, benchè di poca entità lo provano.
Raccolto un giorno al di fuori un grillo, e portatolo in casa - ruppi al poveretto una gamba nel maneggiarlo - me ne addolorai talmente - che rinchiusomi nella mia stanza - io piansi amaramente per più ore.
Un’altra volta, accompagnando un mio cugino a caccia nel Varo - io m’era fermato sull’orlo d’un fosso profondo - ove costumasi d’immergervi la canapa - ed ove trovavasi una povera donna lavando panni.
Non so perchè - quella donna cadette nell’acqua a testa prima, e pericolava la vita. Io, benchè piccolino ed imbarazzato con un carniere - mi precipitai, e valsi a trarla in salvo.
Ogni qual volta poi trattossi della vita d’un mio simile - io non fui restìo giammai - anche a rischio della mia.
I primi miei maestri furon due preti - e credo l’inferiorità fisica e morale della razza Italica, provenga massime da tale nociva costumanza. Del Sig.r Arena terzo mio maestro, d’Italiano, calligrafia, e matematica - conservo cara rimembranza.
Se avessi avuto più discernimento - ed avessi potuto indovinare le future mie relazioni cogli Inglesi - io avrei potuto studiare più acuratamente la loro lingua, ciocchè potevo fare col mio secondo maestro il padre Giaume - prete spregiudicato, e versatissimo nella bella lingua di Byron.
Io ebbi sempre un rimorso: di non aver studiato dovutamente l’Inglese - quando lo potevo - rimorso rinnato in ogni circostanza della mia vita in cui mi son trovato cogli Inglesi.
Al terzo laïco istutore il signor Arena, io devo il poco che so, e sempre conserverò di lui, cara rimembranza - sopratutto per avermi iniziato nella lingua patria, e nella storia Romana.
Il difetto di non esser istruiti seriamente nelle cose, e nella storia patria è generale in Italia ma in particolare a Nizza, città limitrofa, e sventuratamente tante volte sotto la dominazione Francese.
In cotesta mia città natìa, sino al tempo in cui scrivo (1849) non molti sapevano d’esser Italiani; la grande affluenza di Francesi, il dialetto che tanto si somiglia al provenzale; e la noncuranza de’ governanti nostri - del popolo occupandosi solo di due cose: depredarlo e toglierli i figli per farne dei soldati - tutti motivi da spingere i Nizzardi all’indifferentismo patriotico assoluto - e finalmente a facilitare ai preti ed a Buonaparte lo svellere quel bel ramo dalla madre pianta nel 1860.
Io devo dunque, in parte, a quella prima lettura delle nostra storia - ed all’incitamento di mio fratello maggiore Angelo - che dall’America mi raccomandava lo studio della mia - e più bella tra le lingue - quel poco che sono pervenuto ad acquistarne.
Io terminerò questo primo periodo della mia vita, colla laconica narrazione d’un fatto - primo saggio dell’avventure avvenire.
Stanco della scuola, ed insofferente d’un’esistenza stanziaria, io propongo un giorno a certi coetanei compagni miei, di fuggire a Genova - senza progetto determinato - ma in sostanza per tentare fortuna - Detto fatto: prendiamo un batello, imbarchiamo alcuni viveri, attrezzi da pesca - e voga verso levante. Già erimo all’altura di Monaco - quando un corsaro mandato dal mio buon padre - ci raggiunse, e ci ricondusse a casa, mortificatissimi.
Un abbate, avea svelato la nostra fuga - Vedete che combinazione: un abbate l’embrione d’un prete - contribuiva forse a salvarmi - ed io tanto ingrato da perseguire quei poveri preti - Comunque un prete è un impostore - ed io mi devo al santo culto del vero.
I miei compagni d’impresa di cui mi sovvengo, erano: Cesare Parodi, Raffaele Deandreis - e non ricordo gli altri.
Qui mi giova ricordare la gioventù Nizzese: svelta, forte, coraggiosa - elemento magnifico per disposizioni di genio, sociale e militare. Ma condotta disgraziatamente su perverso sentiero - prima dai preti - secondo dalla deprevazione importata dallo straniero, che ha fatto della bellissima Cimele dei Romani la sede cosmopolita d’ogni corruzione.

CAPITOLO III.

I miei primi viaggi.

Oh! come tutto è abbellito dalla giovinezza ardente di lanciarsi nelle avventure dell’incognito! Com’eri bella, o Costanza!1 , su cui dovevo solcare il Mediterraneo, quindi il Mar Nero, per la prima volta!
Gli ampi tuoi fianchi, la snella tua alberatura, la spaziosa tua tolda - e sino il tuo pettoruto busto di donna - rimarranno impressi sempre nella mia immaginazione.
Come dondolavansi graziosamente quei tuoi marini Sanremesi - vero tipo de’ nostri intrepidi Liguri!
Con che diletto, io mi avventava al balcone per udire i loro popolari canti - gli armonici loro cori - Essi cantavano d’amore e m’intenerivano m’innebbriavano, per un affetto allora insignificante - Oh! se mi avessero cantato di patria, d’Italia! d’insofferenza di servaggio - ¿E chi aveva insegnato loro: ad esser patriota, Italiani, militi della dignità umana? Chi ci diceva a noi giovani, che v’era un’Italia, una patria, da vendicare, da redimere? Chi! I preti, unici nostri istitutori!
Noi, fummo cresciuti come gli Ebrei! E non ci additarono per premio, per mèta della vita, che l’oro! Intanto l’addolorata madre mia, preparavami il necessario per il viaggio a Odessa, col brigantino Costanza, Capitano Angelo Pesante di Sanremo - il miglior Capitano di mare, ch’io m’abbia conosciuto.
Se la nostra marina da guerra, prendesse l’incremento dovuto, il Cap.no Angelo Pesante, dovrebbe comandarne uno dei primi legni da guerra - e certamente non ve ne sarebbe meglio comandato - Pesante2 non ha comandato bastimenti da guerra - ma egli creerebbe, inventerebbe ciocchè abbisogna in un barco qualunque, dal palischermo al vascello per portarli allo stato d’onorare l’Italia.
E qui devo ricordare: in caso d’una guerra marittima dover il nostro paese far capitale della sua brava marina mercantile - Semenzaio di valorosi marinai non solo - ma di prodi ufficiali, capaci del loro dovere, anche nelle battaglie.
Feci il mio primo viaggio a Odessa - Cotesti viaggi son diventati così comuni - che inopportuno sarebbe lo scriverne.
Il mio secondo viaggio lo feci a Roma, con mio padre, a bordo della propria Tartana, S.ta Reparata - Roma! E Roma….. non dovea sembrarmi se no la capitale d’un mondo! Oggi la capitale della più odiosa delle Sètte!
La capitale d’un mondo - dalle sue ruine, sublimi, immense - ove si ritrovano affastellate le reliquie di ciò ch’ebbe di più grande il passato!
Capitale d’una sètta - un dì, di seguaci del Giusto - liberatore di servi! Istitutore dell’uguaglianza umana, da lui nobilitata - benedetto da infinite generazioni - con sac...

Indice dei contenuti

  1. MEMORIE
  2. INTRODUZIONE DI ERNESTO NATHAN
  3. MEMORIE
  4. Note