Lettere meridionali
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INDICE:
- LA CAMORRA
- LA MAFIA
- IL BRIGANTAGGIO
- I RIMEDII Pasquale Villari (1827 – 1917) fu tra i primi a sollevare il problema della questione meridionale. Portò in risalto la crisi che attanagliava il Meridione e indagò, in particolare, sulla debolezza delle istituzioni del neonato stato italiano nei territori del sud. Criticò l'operato dello stato appena unificato poiché, per raggiungere il pareggio di bilancio, impose tassazioni inique al ceto popolare, che fu una delle cause principali dell'insurrezione proletaria agraria. Villari ritenne che la questione meridionale poteva essere sanata riavvicinando il governo alla plebe del sud. Pasquale Villari (Napoli, 3 ottobre 1827 – Firenze, 7 dicembre 1917) è stato uno storico e politico italiano. Divenne professore di storia all'Università di Pisa e, successivamente, di storia moderna all'Istituto di Studi Superiori di Firenze, di cui fu il fondatore.
È ricordato soprattutto per i suoi studi sulla "questione meridionale" (la situazione di difficoltà del mezzogiorno d'Italia rispetto alle altre regioni del Paese) realizzati nell'opera "Lettere meridionali" (1878). L'interesse per la questione meridionale lo portò a collaborare alla Rassegna settimanale di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831639897
Categoria
Sociology

IL BRIGANTAGGIO



Mio caro Dina

lo suppongo il lettore persuaso già che la mafia abbia le sue radici principali nella campagna, e che a distruggerla sia necessario veramente migliorare le condizioni delle migliaia d’agricoltori, che lavorano nell’interno dell’Isola i 77% del suolo siciliano. E allora vedo subito nascere uno spavento e una diffidenza grandissima. Da un lato sento dire: Sono mali a cui non può rimediare che il tempo, la forza generale delle cose. Da un altro lato sento con maggiore insistenza affermare: Volete dunque sollevare in Italia una quistione sociale? Fra i tanti nostri guai questo ci mancava ancora. Avevamo la pace interna, e voi vorreste ora scatenare su di noi così terribili calamità. Sarebbe davvero un gran delitto contro la patria, l’alimentare nei contadini speranze che non possono mai essere soddisfatte. Essi sono la classe di gran lunga più numerosa e meno civile; se si sollevassero, chi potrebbe loro resistere? Prima di tutto bisogna bene intendersi su di ciò, perché queste opinioni molto diffuse hanno davvero impedito che la quistione venisse finora seriamente e chiaramente discussa. Se per questioni sociali s’intendono quelle che vediamo travagliare così crudelmente le altre nazioni, allora di certo ne siamo per fortuna liberi. Perché esse sorgano, occorre che siasi già fatto un grande progresso nell’industria, nell’agricoltura e nel commercio; progresso che fra noi non esiste, e meno che mai in quelle provincie di cui ora più particolarmente ci occupiamo. Quando noi domandiamo che si porti qualche aiuto all’infima plebe di Napoli, che vive senza mestiere, vogliamo solo spingerla fino al lavoro ed all’industria; quando domandiamo che il contadino esca dalla sua condizione di schiavo, in cui trovasi in alcuni luoghi, vogliamo solo condurlo fino alla sua indipendenza. Là dove si cominciano a discutere pericolose teorie, siamo già fuori del nostro argomento. Che se, per la possibilità che queste teorie sorgano, si dovesse rinunziare a promuovere il progresso morale e materiale delle popolazioni abbandonate e povere, allora solamente il tacerne sarebbe dovere. Chi vorrà sostenerlo? Se però non abbiamo, ne dobbiamo per ora temere il socialismo, il comunismo e l’internazionalismo, è poi certo che non abbiamo alcuna questione sociale, ma solo la pace interna per tutto? Non c’è questione politica che progredisca davvero senza questioni sociali, perché la mutazione del Governo, senza una trasformazione progressiva della società, sarebbe opera affatto vana. E poi quale è la pace che abbiamo nelle provincie di cui si ragiona? Sono segni di ordine e di pace la camorra, la mafia ed il brigantaggio? A Zurigo, a Ginevra, in molte città della Svizzera, è ben vero, si sono più volte agitate le moltitudini con teorie sovversive, e sarebbe certo la più grande calamità se queste teorie si diffondessero tra noi. Ma nella Svizzera voi potete traversare di giorno e di notte monti, valli e boschi, senza quasi mai trovare un gendarme, e senza mai temere ne per la vostra vita, ne per la vostra proprietà, se anche siete carico d’oro. Potremo proprio dire che ivi la pace sociale sia turbata, e che fra noi sia invece perfetta, quando pensiamo che in alcune delle nostre province non si può camminare senza essere circondati di guardie armate, e vi sono uomini che, in mezzo alla libertà, sono poco meno che schiavi? E da un altro lato abbiamo noi esaminato tutti i danni di un tale stato di cose? La insurrezione è un pericolo; ma l’ozio, l’inerzia, il vagabondaggio e l’abbrutimento sono un pericolo non meno grave, specialmente per un popolo che vuol esser libero. Il dispotismo si fonda sopra una società che lavora poco e spende poco; può quindi più facilmente tollerare l’ozio e l’abbrutimento; spesso ne ha anche bisogno per la sua sicurezza. Ma un popolo libero è invece un popolo che lavora e spende molto. Se noi avessimo prima trasformata la nostra società, per far poi la rivoluzione politica, non ci troveremmo nelle condizioni in cui siamo, appunto per aver fatto solo una rivoluzione politica, colla quale si sono mutati il Governo e l’amministrazione. Le spese sono a un tratto immensamente cresciute, senza che la produzione cresca del pari. E questo stato di cose porta un deficit finanziario, il quale non sarà colmato neppur quando colle imposte avremo pareggiato le spese alle entrate. La più piccola scossa farà riapparire il disavanzo, e le economie necessarie ma forzate, che faremo per alcuni anni, saranno a lungo impossibili, se vorremo accrescere il benessere materiale e morale. Ma da un altro Iato neppure le spese saranno possibili, se un aumento di lavoro e di produzione non comincerà nel paese. È un circolo vizioso, di certo; ma è pur chiaro che, per andare innanzi, bisogna uscirne. E senza redimere quelle classi numerose, che nell’abbrutimento in cui sono, non lavorano punto so o fanno un lavoro improduttivo, il problema non sarà mai risoluto. Questo è per noi non solamente un debito d’onore, ma è pure un nostro interesse: noi non faremo mai davvero e permanentemente il pareggio finanziario, senza prima fare il pareggio morale. Il problema è più grave che non si crede. Se dentro o vicino alle città troviamo i mali più sopra esaminati, questi diventano maggiori nella campagna. Si pensi un poco che l’Italia è un paese agrario, e che i contadini sono più di un terzo della sua popolazione. Si pensi che la leva degli anni scorsi, trovava che più del 60% dei coscritti erano agricoltori, e il censimento del 1861 dimostra che gli agricoltori sono assai più della metà della gente che in Italia esercita un mestiere, una professione, un ufficio qualunque, o sia più della metà della gente che lavora e produce. E allora si vedrà quanto sia impor- tante esaminare il problema anche da questo Iato. Il brigantaggio è il male più grave che possiamo osservare nelle nostre campagne. Esso certamente, com’è ben noto, può dirsi la conseguenza d’una questione agraria e sociale, che travaglia quasi tutte le province meridionali. La Relazione scritta dall’on. Massari (Sessione del 1863, N. 58, Atti del Parlamento) dice: «Le prime cause adunque del brigantaggio sono le cause predisponenti. E prima fra tutte, la condizione sociale, lo stato economico del campagnuolo, che in quelle province appunto dove il brigantaggio ha raggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice… Il contadino non ha nessun vincolo che lo stringa alla terra.» Mangiano un pane «che non mangerebbero i cani» diceva il direttore del demanio e tasse. Nelle carceri di Capitanata, e così altrove, quasi tutti i briganti sono contadini proletarii. Le bande del Caruso e del Crocco, molte volte distrutte, si ricostituirono senza difficoltà con nuovi venuti; e in una medesima provincia si osservava, che là dove il contadino stava peggio, ivi grande era il contingente dato al brigantaggio; dove la sua condizione migliorava, ivi il brigantaggio scemava o spariva. Anzi nell’Abruzzo, per la sola ragione che il contadino ridotto alla miseria ed alla disperazione, può andare a lavorare la terra della campagna romana, dove piglia le febbri e spesso vi lascia le ossa lo stato delle cose muta sostanzialmente. Questa emigrazione impedisce l’esistenza del brigantaggio, e prova come esso nasca non da una brutale tendenza al delitto, ma da una vera e propria disperazione. «Il brigantaggio, conchiudeva l’on. Massari, diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie». E nella Camera dei deputati, il 31 luglio 1863, l’on. Castagnola, che era stato pur esso membro della Commissione d’inchiesta in un discorso assai note vole e pratico, confermava ampiamente le stesse conclusioni. Il generale Govone, interrogato sul perché le popolazioni dimostravano tanta simpatia al brigante, aveva risposto semplicemente: «I cafoni veggono nel brigante il vindice dei torti che la società loro infligge». L’onorevole Castagnola era stato giustamente maravigliato di trovare in quelle popolose città due classi solamente, proprietarii e proletarii, o come dicono, galantuomini e cafoni. Si scende dal gran signore al nullatenente, e l’odio fra queste classi gli pareva profondo, sebbene represso. «È il Medio Evo sotto i nostri occhi», esclamava egli nella Camera. Veniva poi ad esaminare le molteplici cause del brigantaggio, e concludeva: «Vi è la questione sociale, per sciogliere la quale converrebbe promuovere il benessere delle popolazioni, fare strade, far cessare l’usura, istituire dei Monti frumentarii, far nascere il credito agricolo… Questi sarebbero i rimedii radicali». Per distruggere il brigantaggio noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi, ma ai rimedii radicali abbiamo poco pensato. In questa, come in molte altre cose, l’urgenza dei mezzi repressivi ci ha fatto mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire la riproduzione di un male, che certo non è spento e durerà un pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurgi e pessimi medici. Molte amputazioni abbiamo fatte col ferro, molti tumori cancerosi estirpati col fuoco, di rado abbiamo pensato a purificare il sangue. Chi può mettere in dubbio che il nuovo Governo abbia aperto gran numero di scuole, costruito molte strade e fatto opere pubbliche? Ma le condizioni sociali del contadino non furono soggetto di alcuno studio, ne di alcun provvedimento che valesse direttamente a migliorarne le condizioni. Uno solo dei provvedimenti iniziati tendeva direttamente a questo scopo, ed era la vendita dei beni ecclesiastici in piccoli lotti, e la divisione di alcuni beni demaniali. Ciò poteva ed era inteso a creare una classe di contadini proprietarii, il che sarebbe stato grande benefìzio per quelle provincie. Ma senza entrare in minuti particolari, noteremo per ora che il risultato fu assai diverso dallo sperato; perché è un fatto che quelle terre, in uno o in un altro modo, andarono e vanno rapidamente ad accrescere i vasti latifondi dei grandi proprietarii, e la nuova classe di contadini non si forma. Il problema per noi è ora il seguente: dal 1860 ad oggi, questi contadini che ci vengono descritti come schiavi della gleba, ingiustamente, crudelmente oppressi, hanno o non hanno cominciato visibilmente a migliorare la propria condizione? A risolvere una tale questione, senza accuse irritanti o ingiuste per alcuno, dobbiamo un momento fare astrazione dalla natura individuale degli uomini, ed indagare se le condizioni nuove li spingono al bene con una forza assai maggiore che nel passato; se obbligano i tristi, gli avidi a fermarsi nei soprusi, cui s’erano per lungo abuso educati. Non bisogna dimenticare che, quando una società ha preso il suo indirizzo, non è più in potere di alcuni uomini buoni e generosi il fermarla o deviarla dal pericoloso cammino. Si forma un’atmosfera che tutti respirano, si creano interessi collegati che resistono potentemente e violentemente. Ne è raro il caso di vedere quegli stessi, in favore dei quali si vorrebbe operare, per diffidenza o per ignoranza reagire, ed anche far causa comune coi loro tiranni, combattere quelli che vorrebbero essere i loro benefattori. È un fatto che segue ogni giorno, ed è bene ricordarlo. Con maraviglia lo straniero osserva nelle province meridionali molte città popolose, in cui si trovano poche famiglie di ricchi proprietarii, il più delle volte imparentati fra loro, in mezzo ad una moltitudine di proletarii, che sono i contadini. Salvo qualche impiegato, altri ordini di cittadini non vi sono. La campagna è deserta, i suoi lavoratori formano il popolo delle città. Non v’è industria, non v’è borghesia, non v’è pubblica opinione che freni i proprietarii, c...

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