Il cappello del prete
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Il cappello del prete

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"Il cappello del prete", romanzo di Emilio De Marchi, pubblicato nel 1888, è considerato tra i primi veri romanzi polizieschi in lingua italiana, il capostipite di un intero genere letterario: il noir. L'opera, tuttavia, non nasce con l'obiettivo di fondare un genere nuovo, bensì con quello di dimostrare che anche in Italia poteva prosperare il feuilleton, il romanzo d'appendice a tinte fosche, così in voga nella Francia di quegli anni. Gli elementi di un eccellente noir ci sono tutti: un aristocratico decaduto, che pur di rimettere in sesto le sue finanze non esita ad uccidere un prete, strozzino e avaro; il nobile è tormentato ed inseguito dall'unica prova rimasta dell'omicidio: quel cappello da prete, che trascina il barone in una serie rocambolesca di peripezie, fin sull'orlo della pazzia.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831642644
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici
Table of Contents
AVVERTENZA PREMESSA DALL’AUTORE ALLA PRIMA EDIZIONE (1888)
Parte 1 - Capitolo 1: Il barone e il prete
Capitolo 2: La trappola
Capitolo 3: Alla vigilia del delitto
Capitolo 4: Il delitto
Capitolo 5: Dopo il delitto – Sensazioni
Capitolo 6: Filippino il cappellaio
Capitolo 7: Troppa fortuna
Capitolo 8: Il cappello
Capitolo 9: Il prete risuscita
Capitolo 10: Primi spaventi
Capitolo 11: Il rimorso di coscienza
Capitolo 12: Il fantasma del cappello
Capitolo 13: Paure...
Capitolo 14: Una visita al morto
Capitolo 15: In casa di Filippino
Capitolo 16: Il cacciatore
Parte 2 - Capitolo 1: La mano della giustizia
Capitolo 2: L’orgia
Capitolo 3: L’hanno arrestato
Capitolo 4: L’assassino del prete
Capitolo 5: Alle corse
Capitolo 6: Un altro grande colpevole
Capitolo 7: Non si fa luogo a procedere
Capitolo 8; Il castigo
Capitolo 9: Un morto e un risorto
IL CAPPELLO DEL PRETE
Emilio De Marchi

Prima edizione digitale 2019 a cura di Maria Ruggieri

AVVERTENZA PREMESSA DALL’AUTORE ALLA PRIMA EDIZIONE (1888)

Questo non è un romanzo sperimentale, tutt’altro, ma un romanzo d’esperimento, e come tale vuol essere preso.
Due ragioni mossero l’autore a scriverlo.
La prima, per provare se sia proprio necessario andare in Francia a prendere il romanzo detto d’appendice, con quel beneficio del senso morale e del senso comune che ognuno sa; o se invece, con un poco di buona volontà, non si possa provvedere da noi largamente e con più giudizio ai semplici desideri del gran pubblico.
La seconda ragione, fu per esperimentare quanto di vitale e di onesto e di logico esiste in questo gran pubblico così spesso calunniato e proclamato come una bestia vorace che si pasce solo di incongruenze, di sozzure, di carni ignude, e alla quale i giornali a centomila copie credono necessario di servire di truogolo.
L’esperimento ha dimostrato già a quest’ora le due cose, cioè che anche da noi si saprebbe fare come gli altri, e col tempo forse molto meglio per noi; e poi che il signor pubblico è meno volgo di quel che l’interesse e l’ignoranza nostra s’ingegnano di fare.
Pubblicato in due giornali d’indole diversa, in due città poste quasi agli estremi d’Italia nell’Italia di Milano e nel Corriere di Napoli questo Cappello del prete, senza nessuna delle solite basse transazioni, ma col semplice aiuto dei comuni artifici d’invenzione e di richiamo, ha ottenuto più di quanto l’autore pensasse di ottenere. I signori centomila hanno letto di buona voglia e, da quel che si dice, si sono anche commossi e divertiti.
Dal canto suo l’autore, entrato in comunicazione di spirito col gran pubblico, si è sentito più di una volta attratto dalla forza potente che emana dalla moltitudine; e più d’una volta si è chiesto in cuor suo se non hanno torto gli scrittori italiani di non servirsi più che non facciano di questa forza naturale per rinvigorire la tisica costituzione dell’e nostra.
Si è chiesto ancora se non sia cosa utile e patriottica giovarsi di questa forza viva che trascina i centomila al leggere, per suscitare in mezzo ai’ palpiti della curiosità qualche vivace idea di bellezza che aiuti a sollevare gli animi.
L’arte è cosa divina; ma non è male di tanto in tanto scrivere anche per i lettori.

Parte 1 - Capitolo 1: Il barone e il prete

Il Barone Carlo Coriolano di Santafusca non credeva in Dio e meno ancora credeva nel diavolo; e, per quanto buon napoletano, nemmeno nelle streghe e nella iettatura.
A vent’anni voleva farsi frate, ma imbattutosi in un dotto scienziato francese, un certo dottor Panterre, perseguitato dal governo di Napoleone III per la sua propaganda materialistica ed anarchica, colla fantasia rapida e violenta propria dei meridionali, si innamorò delle dottrine del bizzarro cospiratore, che aveva anche una testa curiosa, tutta osso, con due occhiacci di falco, insomma un terribile fascinatore.
Per qualche anno il barone, detto “u barone”, lesse dei libri e prese la scienza sul serio: ma non sarebbe stato lui, se avesse per amore della scienza rinunciato alle belle donne, al giuoco, al buon vino del Vesuvio, e ai cari amici. Il libertino prese la mano sul frate e sul nichilista, e dalla fusione di questi tre uomini uscì “u barone” unico nel suo genere, gran giuocatore, gran fumatore, gran bestemmiatore in faccia all’eterno. Nulla, e nello stesso tempo amabile camerata, idolo delle donne, coraggioso come un negro, e a certe lune fantastico come un bramino.
Noi qui parliamo del barone della sua prima maniera quando non aveva più di trent’anni. Napoli allora era tutta una festa garibaldina, bianca, rossa e verde. Le donne abbracciavano i bei soldati nella via e alzavano i bambini sulle braccia, perché Garibaldi li battezzasse nel nome santo d’Italia. Innanzi al ritratto dell’eroe si accendevano i lumi e si appendevano corone di fiori, come davanti a San Gennaro e alla Madonna Santissima.
Santafusca prese una parte breve e brillante nelle ultime scaramucce di quel tempo e fu anche ferito alla fronte. Gliene rimase una cicatrice sopra il ciglio…, ma i bei tempi erano passati.
Oggi l’uomo aveva quarantacinque anni, una gran barba nera, un volto abbruciato dal sole e dai liquori, una gran voglia di godere la vita e una miseria profonda.
Non godeva più credito né presso gli amici, né presso i parenti, ch’egli aveva disgustati colla sua vita dissipata e colla sua bestiale empietà.
Al frate, al nichilista, al libertino si aggiungeva ora un pitocco disperato, costretto a quarantacinque anni a mendicare dieci lire alla sua guardarobiera, se voleva pranzare e bere un cognac.
Al club avevano pubblicato il suo nome nell’albo degli insolvibili, e poiché non pagava più i debiti del giuoco, tutti lo fuggivano ora come la lebbra.
Sì, il barone Carlo Coriolano di Santafusca si sentì veramente la lebbra addosso quel dì che il canonico amministratore del Sacro Monte delle Orfanelle gli mandò a dire per l’ultima volta che, se entro la settimana non restituiva una cartella di quindicimila lire, il Consiglio d’Amministrazione avrebbe denunciata la cosa al Procuratore del Re.
I Santafusca per antico diritto avevano parte nell’Amministrazione del Sacro Monte, e nella sua qualità di patrono e di consigliere “u barone” aveva più volte pescato nelle strette del bisogno in fondo alla cassa dell’istituto, dando false o poco solide garanzie. Ora i groppi erano venuti al pettine.
Il canonico diceva chiaro:
- Se vostra eccellenza non rende a questa pia Casa la cartella di lire quindicimila, il Consiglio sarà nella dolorosa necessità di portare il fatto davanti ai Tribunali.
Davanti ai Tribunali “u barone” non sarebbe mai andato, questo era certo. Eravamo al lunedì santo e c’eran davanti quasi quindici giorni alla fatale scadenza. In quindici giorni un uomo d’ingegno, che non ha voglia ancora di farsi saltare le cervella, deve trovare la maniera di non andare in prigione.
Quale prigione avrebbe potuto tenerlo dentro? O che non ha più boschi la Calabria ed è proprio finita la razza dei briganti?
Non era la prima volta che un Santafusca aveva battuta la campagna e un suo avolo, don Nicolò, era stato con Fra Diavolo sei mesi su per le rupi della Maiella ai tempi dei tempi: ma con tutto ciò il barone sentiva che un uomo in quindici giorni non ha tempo neppure di diventare un brigante.
Bisognava adunque trovare qualche altro espediente più spiccio e meno melodrammatico. Fuggire? Non era il caso di pensarci, perché quando si è poveri si viaggia male, Chiedere un prestito? A chi, se non c’era più un cane che gli volesse dare un quattrino? Giocare, tentar la sorte? Nessuno voleva mescolare con lui un mazzo di carte, e poi, non sempre chi giuoca vince.
Non rimaneva che la sua villa di Santafusca, lontana un cinque chilometri da Napoli, che poteva fruttare ancora qualche migliaio di lire, a patto però di vendere fino all’ultimo chiodo, perché un terzo era ipotecato già al marchese di Vico Spiano, un terzo era una rovina e l’altro terzo rappresentava un rifugio, un tetto, un asilo d’un povero uomo sulla terra.
Anche vendendo ciò che rimaneva di netto, non avrebbe potuto raggranellare quindicimila lire e dopo egli sarebbe rimasto un vagabondo intero, nudo nato, senza nemmeno un guanciale per posare il capo.
Se un barone di Santafusca, si noti, contava ancora per qualche cosa nel mondo e se poteva sperar dì trovare ancora un cento lire per la fame e per la sete, questo credito, per quanto avariato, gli proveniva da quel vecchio palazzo, che imponeva ancora un certo rispetto al volgo e che sosteneva colla catena della tradizione un uomo ridotto ormai a far la parte di pulcinella.
Bisognava trovare le quindicimila lire e già eravamo giunti al giovedì santo senza alcun risultato.
Finalmente gli venne in mente prete Cirillo.
Chi era prete Cirillo?
Non v’era donnicciuola o pescivendola o camorrista delle Sezioni di Pendino e di Mercato che non conoscesse “u prevete”, che abitava nei quartieri più poveri, in una soffitta chiusa in mezzo ai comignoli delle case, ove non mai scende l’occhio benedetto del sole, e non regna sovrano che il vizio ed il puzzo del pesce, che il popolino frigge sugli usci e nella via.
A vederlo camminare per le strade, non si sarebbe data una buccia di arancia per quel pretuzzo tutto cappello, vestito di un abito polveroso, sotto un mantello verdognolo e ragnoso che faceva da staccio al vento, con un viso tinto proprio come il pesce fritto.
Le mani erano lunghe, magre, lucide, come i fusi d’ulivo, con unghie più forti degli uncini che tirano nel porto i barili e ì sacchi del merluzzo.
Le gambette, asciutte come gli stinchi dei santi, andavano a finire in due scarpe sconquassate, grandi come i burchielli che fanno il servizio di cabotaggio tra Napoli e Messina.
Prete Cirillo era un uomo pieno di denari, che egli aveva radunati un poco coll’usura, prestando ai pizzicagnoli, ai pescivendoli, ai galantini della Sezione, e molto colle vincite al lotto. Si diceva che “u prevete” avesse i numeri e, coll’aiuto di certi calcoli cabalistici trovati da lui su un libro vecchio, vincesse al lotto ogni volta che gli piacesse di vincere. A qualcuno aveva anche regalati dei numeri buoni, ma il negromante era geloso e non si lasciava pigliare da tutti.
È in casa del prete Cirillo che noi troviamo ora “u barone”, che durante le feste di Pasqua non aveva perduto il suo tempo.
“U prevete” offrì una sedia di legno colle paglie rotte, andò a chiudere l’uscio ben bene, e tornò a sedere davanti a un tavolino ingombro di carte e di libri vecchi. Allora disse “u barone”:
- Avete pensato, don Cirillo?
- Ci ho pensato.
- E la villa l’avete veduta?
- L’ho vista, eccellenza.
- Vi piace?
- Poco mi piace, ma non son lontano dall’acquistarla. Vi do ventimila lire, eccellenza.
- Voi fareste be...

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  1. AVVERTENZA PREMESSA DALL’AUTORE ALLA PRIMA EDIZIONE (1888)
  2. Capitolo 13: Paure...