Il tesoro. Romanzo
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Informazioni sul libro

Lo spunto iniziale del romanzo "Il tesoro" è appunto, come da titolo, un tesoro nascosto, che funge da semplice pretesto narrativo per raccontarci la storia di due famiglie. I Brindis e i Bancu, alle prese, appunto, con la ricerca del tesoro. Ma la vera vicenda narrativa ruota attorno alla speranza delle due famiglie di acquisire una ricchezza che cambierà la loro vita. Sulla scena di questa fantasticheria collettiva, prendono vita, intanto, amori e sofferti intrecci sentimentali.
Un racconto godibile e coinvolgente.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831645904
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

Grazia Deledda


« Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano. »
(Motivazione del Premio Nobel per la letteratura[1])

Grazia Maria Cosima Damiana Deledda (Nuoro, 27 settembre 1871 – Roma, 15 agosto 1936) è stata una scrittrice italiana, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1926.

Biografia

Giovinezza

Grazia Deledda nacque a Nuoro il 27 settembre 1871, quinta di sette tra figli e figlie,[2] in una famiglia benestante.[3]
Il padre, Giovanni Antonio Deledda, aveva studiato legge, ma non esercitava la professione. Era un imprenditore e agiato possidente, si occupava di commercio e agricoltura; si interessava di poesia e lui stesso componeva versi in sardo, aveva fondato una tipografia e stampava una rivista. Fu sindaco di Nuoro nel 1892. La madre era Francesca Cambosu.[4] Dopo aver frequentato le scuole elementari fino alla classe quarta, Grazia Deledda venne seguita privatamente da un professore ospite di una parente della famiglia Deledda che le impartì lezioni di base di italiano, latino e francese (i costumi del tempo non consentivano alle ragazze un’istruzione oltre quella primaria e, in generale, degli studi regolari). Proseguì la sua formazione totalmente da autodidatta.[3] Importante per la formazione letteraria di Grazia Deledda, nei primi anni della sua carriera da scrittrice, fu l’amicizia con lo scrittore, archivista e storico dilettante sassarese Enrico Costa che per primo ne comprese il talento. La famiglia venne colpita da una serie di disgrazie: il fratello maggiore, Santus, abbandonò gli studi, divenne alcolizzato e affetto da delirium tremens, il più giovane, Andrea, fu arrestato per piccoli furti. Il padre morì per una crisi cardiaca il 5 novembre 1892 e la famiglia dovette affrontare difficoltà economiche. Quattro anni più tardi morì anche la sorella Vincenza.[4]

Attività letteraria giovanile

Nel 1888 inviò a Roma alcuni racconti, Sangue sardo e Remigia Helder, che furono pubblicati dall’editore Edoardo Perino sulla rivista “L’ultima moda”, diretta da Epaminonda Provaglio. Sulla stessa rivista venne pubblicato a puntate il romanzo Memorie di Fernanda.
Nel 1890 uscì a puntate sul quotidiano di Cagliari L’avvenire della Sardegna, con lo pseudonimo Ilia de Saint Ismail, il romanzo Stella d’Oriente, e a Milano, presso l’editore Trevisini, Nell’azzurro, un libro di novelle per l’infanzia.
Deledda incontrò l’approvazione di letterati come Angelo de Gubernatis e Ruggero Bonghi, che nel 1895 accompagnò con una sua prefazione l’uscita del romanzo Anime oneste.[5]
Collabora con riviste sarde e continentali: “La Sardegna”, “Piccola rivista” e “Nuova Antologia”.
Fra il 1891 e il 1896 sulla Rivista delle tradizioni popolari italiane, diretta da Angelo de Gubernatis venne pubblicato a puntate il saggio Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna, introdotto da una citazione di Tolstoi, prima espressione documentata dell’interesse della scrittrice per la letteratura russa. Seguirono romanzi e racconti di argomento isolano. Nel 1896 il romanzo La via del male fu recensito in modo favorevole da Luigi Capuana.[5]
Nel 1897 uscì una raccolta di poesie, Paesaggi sardi edito da Speirani.

Maturità

Nell’ottobre del 1899 la scrittrice si trasferì a Roma. Nel 1900, sposò Palmiro Madesani, funzionario del Ministero delle Finanze, conosciuto a Cagliari. A Roma condusse una vita appartata. Ebbe due figli, Franz e Sardus.[3]
Nel 1903 la pubblicazione di Elias Portolu la confermò come scrittrice e l’avviò ad una fortunata serie di romanzi ed opere teatrali: Cenere (1904), L’edera (1908), Sino al confine (1910), Colombi e sparvieri (1912), Canne al vento (1913), L’incendio nell’oliveto (1918), Il Dio dei venti (1922). Da Cenere fu tratto un film interpretato da Eleonora Duse.
La sua opera fu apprezzata da Giovanni Verga oltre che da scrittori più giovani come Enrico Thovez, Emilio Cecchi, Pietro Pancrazi, Antonio Baldini.[6] Fu riconosciuta e stimata anche all’estero: D.H. Lawrence scrive la prefazione della traduzione in inglese de La madre. Grazia Deledda fu anche traduttrice, è sua infatti una versione di Eugénie Grandet di Honoré de Balzac.

Il premio Nobel

Nel 1926 le venne conferito il premio Nobel per la letteratura.

La morte

Un tumore al seno di cui soffriva da tempo la portò alla morte il 15 agosto 1936.[7]
Le spoglie di Deledda sono custodite in un sarcofago di granito nero levigato nella chiesetta della Madonna della Solitudine, ai piedi del monte Ortobene di Nuoro.
Lasciò incompiuta la sua ultima opera Cosima, quasi Grazia, autobiografica, che apparirà in settembre di quello stesso anno sulla rivista Nuova Antologia, a cura di Antonio Baldini e poi verrà edita col titolo Cosima.
La sua casa natale, nel centro storico di Nuoro (Santu Predu), è adibita a museo.[8]

Critica

La critica in generale tende a incasellare la sua opera di volta in volta in questo o in quell’-ismo: regionalismo, verismo, decadentismo, oltre che nella letteratura della Sardegna. Altri critici invece preferiscono riconoscerle l’originalità della sua poetica.
Il primo a dedicare a Grazia Deledda una monografia critica a metà degli anni trenta fu Francesco bruno.[9] Negli anni quaranta-cinquanta, sessanta, nelle storie e nelle antologie scolastiche della letteratura italiana, la presenza di Deledda ha rilievo critico e numerose pagine antologizzate, specialmente dalle novelle.
Tuttavia parecchi critici italiani avanzavano riserve sul valore delle sue opere. I primi a non comprendere Deledda furono i suoi stessi conterranei. Gli intellettuali sardi del suo tempo si sentirono traditi e non accettarono la sua operazione letteraria, ad eccezione di alcuni: Costa, Ruju, Biasi. Le sue opere le procurarono le antipatie degli abitanti di Nuoro, in cui le storie erano ambientate. I suoi concittadini erano infatti dell’opinione che descrivesse la Sardegna come terra rude, rustica e quindi arretrata.[10]

Verismo

Ai primi lettori dei romanzi di Deledda era naturale inquadrarla nell’ambito della scuola verista.
Luigi Capuana la esortava a proseguire nell’esplorazione del mondo sardo, “una miniera” dove aveva “…già trovato un elemento di forte originalità”.[11]
Anche Borgese definisce Deledda “degna scolara di Giovanni Verga”.[12] Lei stessa scrive nel 1891 al direttore della rivista romana La Nuova Antologia, Maggiorino Ferraris: “L’indole di questo mio libro mi pare sia tanto drammatica quanto sentimentale e anche un pochino veristica se ‘verismo’ può dirsi il ritrarre la vita e gli uomini come sono, o meglio come li conosco io.”

Differenze rispetto al Verismo

Ruggero Bonghi, manzoniano, per primo si sforza di sottrarre la scrittrice sarda al clima delle poetiche naturalistiche.[13]
Emilio Cecchi nel 1941 scrive:“Ciò che la Deledda poté trarre dalla vita della provincia sarda, non s’improntò in lei di naturalismo e di verismo…Sia i motivi e gli intrecci, sia il materiale linguistico, in lei presero subito di lirico e di fiabesco…”[14]
Natalino Sapegno definisce i motivi che distolgono Deledda dai canoni del Verismo: “Ma da un’adesione profonda ai canoni del verismo troppe cose la distolgono, a cominciare dalla natura intimamente lirica e autobiografica dell’ispirazione, per cui le rappresentazioni ambientali diventano trasfigurazioni di un’assorta memoria e le vicende e i personaggi proiezioni di una vita sognata. A dare alle cose e alle persone un risalto fermo e lucido, una illusione perentoria di oggettività, le manca proprio quell’atteggiamento di stacco iniziale che è nel Verga; ma anche nel Capuana e nel De Roberto, nel Pratesi e nello Zena.”[15]

Decadentismo

Vittorio Spinazzola scrive: “Tutta la miglior narrativa deleddiana ha per oggetto la crisi dell’esistenza. Storicamente, tale crisi risulta dalla fine dell’unità culturale ottocentesca, con la sua fiducia nel progresso storico, nelle scienze laiche, nelle garanzie giuridiche poste a difesa delle libertà civili. Per questo aspetto la scrittrice pare pienamente partecipe del clima decadentistico. I suoi personaggi rappresentano lo smarrimento delle coscienze perplesse e ottenebrate, assalite dall’insorgenza di opposti istinti, disponibili a tutte le esperienze di cui la vita offre occasione e stimolo.”[16]

Deledda e i narratori russi

È noto che la giovanissima Grazia Deledda, quando ancora collaborava alle riviste di moda, si rese conto della distanza che esisteva tra la stucchevole prosa in lingua italiana di quei giornali e la sua esigenza di impiegare una lingua italiana più vicina alla realtà e alla società dalla quale proveniva.
La Sardegna, tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, tenta come l’Irlanda di Oscar Wilde, di Joyce, di Yeats o la Polonia di Conrad, un dialogo alla pari con le grandi letterature europee e soprattutto con la grande letteratura russa.
Nicola Tanda nel saggio, La Sardegna di Canne al vento scrive che, in quell’opera di Deledda, le parole evocano memorie tolstojane e dostoevskiane, parole che possono essere estese a tutta l’opera narrativa deleddiana: «L’intero romanzo è una celebrazione del libero arbitrio. Della libertà di compiere il male, ma anche di realizzare il bene, soprattutto quando si ha esperienza della grande capacità che il male ha di comunicare angoscia. Il protagonista che ha commesso il male non consente col male, compie un viaggio, doloroso, mortificante, ma anche pieno di gioia nella s...

Indice dei contenuti

  1. Il TESORO
  2. Grazia Deledda
  3. Note