Kant a Reggio
eBook - ePub

Kant a Reggio

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Kant a Reggio

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Mi chiamo Giorgio Ricci, sono nato nel 1956 a Novellara (RE), dove ho sempre vissuto. Ho soltanto la licenza media e ho fatto il postino per 38 anni. Ho scritto un romanzo, forse, stravagante e fuori di testa, a partire dal titolo.
La storia d'amore tra due adolescenti nell'anno 1972 – una bella ragazza emancipata e uno sfigato dell'oratorio parrocchiale – racconta, da se stessa, senza bisogno di artifici, il delirante declino della cultura europea. Basta soltanto una vera storia d'amore, col semplice apporto dei suoi incantevoli luoghi comuni, per smascherare gli infernali propositi del pensiero filosofico che comanda la moderna società dell'occidente (e, ormai, il mondo intero). Non ci si aspetti un libro educato, o, peggio ancora, delicato. Né ci si meravigli del tono irrispettoso nei riguardi dei più "venerati maestri" della "colta" Europa. È un romanzo raro, non per meriti miei, ma, più semplicemente, perché vi si difende la tautologia. E l'amore, fra i ragazzi, si sa, mira sempre alla tautologia. A chi ha orrore della parola in questione, rivolgo, fin da subito, un cordiale, sincero saluto. Ma a chi è stanco delle ormai secolari menzogne del mondo culturale europeo, consiglio di leggerlo. Non si annoierà. E, se si annoia, conoscerà, almeno, una visione diversa del mondo in cui si trova a vivere.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Kant a Reggio di Giorgio Ricci in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Philosophy e Philosophy History & Theory. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831642699
Giorgio Ricci
Kant a Reggio
Youcanprint
Titolo | Kant a Reggio
Autore | Giorgio Ricci
ISBN | 978-88-31642-39-2
© 2019 - Tutti i diritti riservati all'Autore
Questa opera è pubblicata direttamente dall'Autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.
Youcanprint
Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce
www.youcanprint.it
Mi chiamo Giorgio Ricci, nel1956 a Novellara (RE), dove ho sempre vissuto. Ho soltanto la licenza media e ho fatto il postino per 38 anni. Ho scritto un romanzo, forse, stravagante e fuori di testa, a partire dal titolo.
La storia d’amore tra due adolescenti nell’anno 1972 – una bella ragazza emancipata e uno sfigato dell’oratorio parrocchiale – racconta, da se stessa, senza bisogno di artifici, il delirante declino della cultura europea. Basta soltanto una vera storia d’amore, col semplice apporto dei suoi incantevoli luoghi comuni, per smascherare gli infernali propositi del pensiero filosofico che comanda la moderna società dell’occidente (e, ormai, il mondo intero). Non ci si aspetti un libro educato, o, peggio ancora, delicato. Né ci si meravigli del tono irrispettoso nei riguardi dei più ‘venerati maestri’ della ‘colta’ Europa. È un romanzo raro, non per meriti miei, ma, più semplicemente, perché vi si difende la tautologia. E l’amore, tra i ragazzi, si sa, mira sempre alla tautologia. A chi ha orrore della parola in questione, rivolgo, fin da subito, un cordiale, sincero saluto. Ma a chi è stanco delle ormai secolari menzogne del mondo culturale europeo, consiglio di leggerlo. Non si annoierà. E, se si annoia, conoscerà, almeno, una visione diversa del mondo in cui si trova a vivere.
“Novembre 1970: è come se Reggio mi dicesse, attraverso il rumore del traffico, la puzza dello smog, attraverso la sua bruttezza architettonica, nel caos davanti alle scuole alle otto del mattino - Reggio con la sua luce autunnale malata- dimentica chi sei, cosa sei stato fino ad ora, perché, tanto, qui, in città, tra le mie luci, tra le mie strade affollate, tra le mie grandi piazze, tra i miei negozi alla moda, tra i miei enormi palazzi, tutto quello che sei e che sei stato non conta niente.”
Pinco aveva sempre conservato con molta cura questa frase, scritta sul suo diario di adolescente, alla candida età di 14 anni. L’aveva fedelmente trascritta di diario in diario, poi salvata su dischetto, quasi temendo di perdere memoria del suo periodo d’esordio, quello del suo debutto al mondo, il più terribile di tutta la sua vita, quando, secondo una definizione che gli piaceva dare di se stesso, non era in grado di comprendere il perché quasi di niente.
E dire che Pinco aveva addirittura atteso con impazienza il gran giorno in cui sarebbe andato finalmente a scuola in città. Con immaginazione fertile, tipica dell’età, Pinco aveva a lungo fantasticato sulle esperienze straordinarie che l’attendevano colà; e, certo, non del genere di quella che poi aveva fatto.
Cosa, in realtà, fosse successo, nel suo debutto al mondo, per lunghi anni Pinco non se lo era mai saputo spiegare, se non con le impressioni più semplici e immediate.
Non si aspettava che la città fosse così indifferente a lui e a ciò che, per lui, c’era stato prima di arrivarci, a ciò da cui proveniva. Ben presto, infatti, tra la folla di città, in mezzo a mille altri studenti uguali a lui, gli era toccato di comprendere d’essere come un’entità invisibile, quasi insignificante, che nessuno notava. Ma non perché la città fosse priva di occhi. Tutt’altro. La città, gli occhi, li aveva. Soltanto che non erano per lui. Essa guardava altrove. E dove la città guardasse, per Pinco era motivo di scandalo.
Guardava alle camiciole striminzite, ai pantaloni a campana, alle basette lunghe, al taglio dei capelli, alle giacchette corte, ai giubbotti in pelle, agli stivaletti a punta. Insomma: a un certo modo di vestire e di atteggiarsi per lui del tutto frivolo, nonché visibilmente falso. E il perché, a Pinco, non risultava affatto chiaro. Come ogni persona dotata di semplice buonsenso, il suo primo desiderio era quello di chiedere, ma far domande nemmeno si poteva, giacché il fatto straordinario era che, in città, non appariva sconveniente vestire con vergognosa frivolezza, ma domandare perché lo si facesse. Di conseguenza, non c’era modo di sapere perché si andasse tanto fieri d’essere frivoli e falsi, e, viceversa, ci si dovesse vergognare d’essere come si era e si era sempre stati.
Poiché, dunque, non si degnava di dargli una risposta, Pinco tendeva a concludere che la città di Reggio, con le luci delle sue vetrine, con la sua musica moderna, le sue bellissime ragazze, le sue mode sempre nuove, non lo voleva così come egli era ed era sempre stato. Ciò non poteva essere più chiaro, ma, a quel tempo, Pinco non ne capiva la ragione, il perché, e ne faceva una questione personale. Non avendo ancora maturato i necessari mezzi intellettuali, era ben lontano dal comprendere che la città di Reggio non rigettava lui e ciò che era, bensì l’avverbio che l’ignaro adolescente ancora s’attardava a porre accanto all’essere. Pinco, cioè, ignorava che quell’avverbio - sempre – era bandito di città.
Adesso, invece, era molto diverso. Adesso, Pinco sapeva. Aveva maturato i mezzi per sapere. Dopo aver letto, pensato, veduto, era sin troppo facile, per lui, comprendere l’inevitabile frivolezza di ciò che ambisce ad essere moderno. E i resti fossili che, di tanto in tanto, riaffioravano alla tv, di quel periodo in bianco e nero, portavano ancora scritto, nelle loro forme esasperate, ciò che il moderno era anche allora, quando lui non lo capiva: ossia mito del tempo che si vuole sciolto da ogni vincolo (anche se non lo è), e, perciò, mito del tempo ab-soluto.
Nel tempo sciolto da ogni vincolo, solo il presente ha l’esistenza, mentre ciò che declina e passa non l’ha più e ciò che ha da giungere ancora non ce l’ha. Di conseguenza, soltanto il tempo in atto può essere moderno. Ma, proprio perché ha la pretesa d’essere puro tempo in atto, il moderno è destinato ad essere instabile e volubile, e soltanto una perversione del linguaggio può avere l’ardire di chiamarlo dinamico e di dar nome di emancipazione al suo disprezzo per ciò che sta e non muta, ossia per la verità stessa.
Eppure, proprio in quegli anni, tutto in città si emancipava e l’emancipazione era il più sublime mito giovanile. E, Pinco, lungo e smilzo adolescente venuto di provincia, sentiva che la città non lo degnava di uno sguardo, proprio perché non era sufficientemente moderno ed emancipato. Era, del resto, l’unica cosa che capiva. Ma perché l’emancipazione consistesse nell’indossare tutti quegli abiti frivoli e falsi (peraltro, costosissimi), e, in più, nel vergognarsi di quelli che aveva sempre indossato, restava un mistero che nessuno si dava pena di svelargli: non la scuola, non la famiglia, non gli amici e neppure la Chiesa. Insomma: in tutto il mondo conosciuto, sembrava non trovarsi nessuno in grado di spiegargli una cosa che solo a lui, quattordicenne, pareva importantissima. Ossia perché ciò che era stato vero fino al suo ingresso in città, di colpo, non lo fosse più.
Adesso Pinco sapeva che il problema della verità era insignificante anche per chi, per primo, l’aveva posto agli uomini, cioè la filosofia. E, alla presentazione di un suo racconto pubblicato, poteva pronunciare, sorridendo, queste parole:
“L’antico concetto che sosteneva le arti, la filosofia, la religione, tutti i mestieri e la vita stessa era l’adeguazione dell’intelletto all’immutabile vero. Non esisteva creatività, così come la intendiamo noi moderni, se non, manifestamente, come errore. Infatti, una volta abolita la verità, non resta che il vorticare dell’immediato, dell’apparente. Non resta che il pollacos, con le sue doxai. Nessuna vera in se stessa, ma ognuna recante in sé un piccolo pezzetto della verità; e, dunque, tutte vere nell’insieme. False da sole e vere con le altre”. Poi, sospirando, chiese al piccolo uditorio:
“Si può sostenere una simile scemenza?”
E si rispose:
“No”.
Quello che Pinco sperimentava, senza saperlo, nella città di Reggio, in quegli anni, altro non erano che le conseguenze della celeberrima libertà del pensiero moderno. Nonostante l’ammonimento evangelico, secondo il quale “la verità vi farà liberi”, e, per converso, l’errore schiavi, il pensiero moderno, e già da molto tempo ormai, voleva essere libero, e tale si dichiarava senza ascoltar ragioni. Libero dalla verità, s’intende, e, conseguentemente, schiavo dell’errore. Che c’era, dunque, da stupirsi, se emanciparsi voleva dire emanciparsi dalla verità e vivere nell’errore, e se vivere nell’errore rappresentava, appunto, il più sublime mito giovanile?
Provare tutto, sperimentare tutto, secondo il metodo scientifico di procedere, illustrato dal famoso Popper, cioè per tentativi ed errori, senza farsi condizionare da un principio a priori, allo scopo di acquisire le esperienze più strane e più varie, ma non per ricondurle ad unità, essendo ciò vietato dalla bizzarra filosofia del suo coevo Heidegger: ecco qual era il modello di emancipazione giovanile. Questa, la dolce vita di quegli anni.
Pinco era ancora troppo giovane per sapere che la libertà di pensiero dà necessariamente sfogo al pollacos e alle sue doxai, ma ciò non gli impediva di vedere il mostruoso trionfo di un disfacimento morale e materiale, che la città testimoniava ovunque. Nella perenne confusione delle strade, nel traffico, nello smog, nelle fatue vetrine, nelle ragazze sfacciate, nella pubblicità blasfema, nei cinema porno, nelle discoteche, nell’uso delle droghe, tutto in città dava per evidente che non c’era più nessuna verità ma solo il caos di tante opinioni in lotta acerrima tra loro.
Sebbene non sapesse ancora cosa fosse quel casino, né quale nome dargli, il pollacos lo disgustava enormemente. Era, però, un disgusto non tematizzato e, quindi, inconscio, che non avendo ancora trovato modo di spiegarsi, ricadde su di lui come una malattia psichica.
Presto si incominciò col dire che Pinco era introverso, problematico, complessato; e, se si vuol dare retta alla falsa scienza medica celebrata come psicoanalisi, lo era. Ma non se si considerano le cose dal punto di vista del naturale pudore adolescente.
La festa della libertà, come è suo costume, andava dismettendo ogni principio immobile, e, quindi, ogni morale. Gli amici s’erano dati al fumo, al bere, al turpiloquio, alla bestemmia. Andavano in discoteca a caccia di ragazze, e non inutilmente, perché le ragazze, mutato totalmente atteggiamento, non si negavano. Anzi, proprio allo scopo di offrirsi a quel commercio, s’erano fatte frivole, sfacciate. Lui solo se ne scandalizzava. Ma ciò non era ancora giudicato grave. Avere ricevuto dei principi, si sa, è il comune destino dei ragazzi, solo che Pinco, quei principi, li voleva conservare; e questa era la cosa grave.
Così, mentre gli amici, sedicenti, e le ragazze, abbandonatolo ai suoi principi, s’erano lanciati spavaldamente all’assalto di quel mondo, per conquistarvi un posto; la scuola, che s’accingeva ormai a bocciarlo, dopo aver sentenziato che il giovanotto era immaturo quanto lungo, consigliò ai genitori, quale extrema ratio, di far ricorso allo psicologo. E diede questo consiglio, perché appariva chiaro che lo svogliato spilungone non si lasciava dettare l’agenda da nessuno, meno che mai dagli insegnanti. La scuola, però, non è che avesse titolo per consigliare. Essa non considerava che il giovanotto andava scoprendo un aspetto della vita su cui da secoli non dava più lezione. Anche i suoi insegnanti erano stati ragazzi, pensava Pinco, anche loro vedevano la schifezza a cui s’era ridotto il mondo, eppure, nessuno di loro si teneva in dovere di salire in cattedra a spiegare perché il mondo fosse così, e lo lasciavano da solo, a porsi domande spaventose.
Perché soltanto a lui tutto faceva schifo? Perché soltanto lui desiderava fuggire via dalla città e ritornare indietro? Perché doveva andare avanti? E perché, poi, gli toccava fare la scoperta più brutta della sua breve vita, quella che porta dritto al suicidio degli adolescenti, e cioè che tornare indietro non si poteva più; che il mondo andava avanti anche senza di lui; che si infischiava di chi fosse, di cosa avesse fatto e cosa desiderasse?
Il mito della caverna di Platone avrebbe risolto molte cose, ma Pinco non lo conosceva, perché la scuola tecnica non insegnava la sapienza antica. Perciò, al giovanotto veniva naturale chiedersi cosa servisse andare a scuola. A farsi strada in un mondo dal quale voleva solo scappare via?
E quando, in seconda superiore, si vide costretto a giustificare la prossima bocciatura, e lo disse in casa, il consiglio della scuola, derogato fino a quel momento, si rese improcrastinabile.
Il consulto medico fu abbastanza imbarazzante sia per Pinco, che per la sua famiglia. Recarsi dallo psicologo, a quel tempo, in provincia, non era cosa ben vista in nessun ambito sociale, ma particolarmente in quello operaio. Se non altro, però, si addivenne ad una diagnosi chiara e comprensibile. Secondo quanto asserì il dottore, il caso era ...

Indice dei contenuti

  1. Avvio