Il nonno (Novelle)
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Il nonno (Novelle)

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Il nonno (Novelle)

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Informazioni sul libro

Grazia Deledda (Nuoro 1871 – Roma 1936) è stata una scrittrice italiana, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1926. « Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano. »
(Motivazione del Premio Nobel per la letteratura) INDICE
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Il nonno
Solitudine!
Novella sentimentale
Poveri e ricchi
L'apparizione
Ozio
Ballora
Il sogno del pastore
La lepre
Cattive compagnie
Il ciclamino
La medicina

Domande frequenti

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831644679
Argomento
Literatura
Categoria
Clásicos


IL NONNO



Grazia Deledda



IL NONNO

Da noi, in Sardegna, più che il Natale si festeggia la Pasqua, e più che la Pasqua la Pentecoste.
Il popolo sardo è, per istinto, un popolo poeta, ma è un popolo molto povero. Per il contadino e per il pastore sardo il Natale rappresenta il colmo della miseria: anche la Pasqua non è allegra, ma in quel tempo si sa già se la raccolta sarà più o meno abbondante: lo strozzino farà più credito, la raccolta delle olive è finita, i campi offrono già, pietosamente, le loro erbe mangerecce. A Pentecoste, poi, l’orzo è quasi maturo e le greggie danno il loro maggior prodotto. È tempo di tosar le pecore, e di marcare, cioè segnare con impronta a fuoco le giovenche e i tori d’un anno. Questa ed altre semplici funzioni pastorali assumono un vero carattere di festa: le famiglie del pastore e del padrone delle greggie passano assieme la giornata, accomunate da uno stesso sentimento di gioia, e dal piacere sano che dà a tutte le anime semplici e primitive il contatto con la sacra natura.
Io ricordo sempre con nostalgia queste feste semplici e caratteristiche, queste scene idilliache alle quali mi pare d’aver assistito in un’epoca remota, quasi in una vita anteriore, tanto sono lontane, tanto sono diverse dalle feste e dalle scene campestri che ci offre la civiltà continentale. Quante di queste scene ho raccontato! Ma ne rimangono sempre in fondo alla mia memoria, come qualche canzone non ancora cantata rimane in fondo alla memoria del rapsodo errante. Ricordo, fra le altre, una scena un po’ drammatica, un po’ sentimentale, che si svolse durante una di queste feste campestri. La mia famiglia possedeva un armento, guardato da ziu Andria, un vecchio pastore che non ritornava quasi mai in paese.
La vigilia di Pentecoste ci recammo all’ovile per marcare le giovenche e i tori giovani. Con noi erano le nostre persone di servizio, e Nannedda, una nostra vecchia ex-serva, che conduceva con sé un bellissimo bambino di cinque anni, già vestito in costume.
Nannedda era una donna pietosa; una di quelle figure che s’incontrano ovunque ci sia un dolore da confortare. Io non posso figurarmi Nannedda senza vederla intenta a fasciare una piaga, a rivestire un cadavere, a confortare una donna tradita, a rappacificare due amanti. Tuttavia era una donna di carattere gaio, che spesso e volentieri trovava il lato ridicolo delle cose e delle persone.
- È un povero orfanello, senza padre: sua madre è malata, - ci disse, parlandoci del bambino che conduceva con sé, - molto malata, e per di più poverissima.
Il bambino, seduto in fondo al carro preistorico che ci trasportava, non pareva preoccupato della sua misera sorte. Con una fronda aizzava i buoi, rideva, gridava. Solo di tanto in tanto rivolgeva i suoi luminosi occhi neri verso Nannedda, la guardava fisso, poi scoppiava a ridere e nascondeva fra le manine il visetto rosso pieno di fossette. Era intelligentissimo. Il carro, sul quale sedevano solo le donne, mentre gli uomini precedevano a cavallo, proseguiva il suo lento viaggio attraverso le campagne verdi, incolte, deserte. La giornata era bellissima, un po’ velata: le montagne verdi e azzurre sembravano vicine, sotto la linea bianchiccia dell’orizzonte. In lontananza si vedevano come dei fuochi pallidi, fiammeggianti tra il verde della brughiera: erano macchie di ginestra fiorite.
Il conduttore del carro, un piccolo contadino che pareva un etiope, additava col pungolo questo o quell’altro campo, e ne nominava i proprietarî, dei quali raccontava vita e miracoli.
- Questa è la tanca di Prededdu Carìa, - disse, mentre attraversavamo un pascolo popolato di piccole vacche nere, - quel giovine e ricco paesano ha sedotto la figlia di ziu Andria, quando questi, parecchi anni or sono, era suo pastore. La donna non era più tanto giovine, anzi era piuttosto anziana. Il suo errore fu dunque più grave: e ziu Andria non perdonò. Non volle più sentirla nominare.
Fra Nannedda e il conduttore del carro cominciò allora una discussione molto interessante, ma troppo lunga per esser riferita. La donna affermava che il peccato d’amore è meno grave in una donna anziana che in una giovinetta. La giovinetta ha tempo di aspettare, di sperare: la donna anziana… non ne può più! Il conduttore diceva il contrario: le altre donne ridevano maliziosamente.
Intanto, dopo circa due ore di viaggio, si arrivò sotto un bosco ancora profumato dai ciclamini. Ziu Andria ci venne incontro, ci salutò, scherzò con le donne. Non era poi così burbero e selvatico come lo descrivevano: sembrava anzi un ometto allegro, ancora svelto per i suoi settant’anni, piccolo, scarno, nero, con una corta barba bianca, e due occhi neri vivacissimi sotto due folte sopracciglia bianche.
- Oh, oh, eravate poi accompagnate bene! - esclamò, vedendo il bambino che lo fissava. - Non c’era pericolo che vi assalissero i ladri. C’era questo giovinotto. E il fucile, giovinotto? Neanche uno di canna, ne hai? È tuo figlio, Nannedda?
- Per oggi sì - ella disse. - È figlio della tale.
E nominò la donna inferma. Il vecchio e il bambino fecero subito amicizia.
- Io voglio mungere le vacche - disse il bambino. - Io voglio vedere i tori: non ho paura, io: sono forte, io! Zia Nannedda mi ha detto che ci sono anche cinghiali, qui: voglio vederli: non ho paura, io.
- Be’, abbiamo capito! - disse il vecchietto, battendo le mani. - Tu vuoi combattere con qualche cosa: ti daremo un pezzo di formaggio col miele, e tu lo distruggerai subito!
- Eh, quello me lo mangio subito! - rispose serio serio il bambino.
E cominciò a correre di qua e di là, ed a frugare per tutti i buchi della capanna. Ogni tanto si avvicinava a ziu Andria, ed io li vedevo ridere e chiacchierare assieme.
Mentre le donne preparavano il pranzo, i pastori legavano le giovenche e i tori e li chiudevano uno per volta entro una specie di gabbia di tronchi. Ziu Andria arroventava la marca, specie di sigillo con le iniziali del padrone, e la imprimeva rapidamente sul fianco delle povere bestie che al contatto rovente muggivano, si contorcevano, e appena slegate fuggivano leccandosi il pelo bruciato sul quale era rimasto impresso il nome del loro proprietario.
Il bambino guardava coi begli occhioni avidi spalancati, e quando le giovenche e i tori muggivano troppo forte, e spaventati fuggivano dalla loro gabbia di tortura, anch’egli si spaventava e si tirava indietro tremante.
- Come? - diceva ziu Andria. - Tu vuoi vedere i cinghiali selvaggi, e ti spaventi per così poco? L’ho detto io: tu devi combattere con la pappa, o col formaggio e col miele! E dicevi che volevi restare con me nell’ovile e vigilare la notte contro i ladri!
- Sì, sì, voglio restare con voi - gridò il bambino. - Ma mi darete il fucile, il coltello, il bastone: ammazzerò tutta la gente cattiva!
- Pochi allora resteranno vivi! - disse il vecchio, rattristandosi.
Di tanto in tanto Nannedda chiamava il bambino nella capanna, facendogli vedere qualche pezzetto di carne o di formaggio fresco.
L’omettino in costume correva dalla donna, ed io lo vedevo mangiare e ascoltare attentamente quanto ella gli diceva. Egli faceva cenno di sì, di sì; poi ritornava presso il pastore e ricominciava a chiacchierare. Quando ziu Andria andava a prendere le giovenche dal prato, il bambino gli correva appresso. Il vecchio fingeva di stizzirsi, e gridava:
- Tu mi fai perdere troppo tempo, giovinotto coraggioso! - ma lo prendeva per mano e lo conduceva con sé.
Durante il pranzo il bambino sedette presso il vecchio: e ad un tratto chinò la testina sulla gamba di ziu Andria e si addormentò.
Nannedda s’alzò, dicendo che voleva portare nella capanna l’omettino addormentato, ma il pastore disse:
- Lascialo qui, non svegliarlo. Quanto è bello!
E ogni tanto, mentre continuava a chiacchierare con la donna e con gli altri pastori, egli passava una mano sulla testina del bimbo e lo guardava con ammirazione affettuosa.
- Poiché vi piace tanto, tenetevelo per figlio! - disse Nannedda. - È orfano di padre e fra poco lo sarà anche di madre!
- Son vecchio e son povero per potermi permettere tanto - rispose ziu Andria.
- Per nipote, allora… - insinuò la donna.
Il vecchio corrugò le folte sopracciglia bianche; e la donna comprese i segreti pensieri che lo turbavano, e non insisté nel suo scherzo.
Dopo il pranzo i pastori ripresero le loro faccende e le donne si sdraiarono sull’erba e si addormentarono. Anch’io feci lo stesso. Quando mi svegliai vidi il bambino, nuovamente vispo e allegro, in confabulazione con Nannedda. Ella gli diceva:
- Senti bene: fra poco ziu Andria avrà finito, e verrà a sedersi ancora sull’erba. Tu devi gettargli le braccia al collo e tenerlo stretto forte: poi devi dirgli: «Nonno, sono vostro nipote, voglio restare con voi!». Hai capito?
- Sì - rispose l’omettino.
Anch’io avevo indovinato tutta la commedia.
- Ma è possibile che il vecchio non conosca ancora il bambino? Non lo ha mai veduto? - domandai alla donna.
- Non lo ha mai voluto vedere - ella rispose. - Eppoi fino a ieri il bambino aveva ancora le sotta...

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  1. IL NONNO
  2. Grazia Deledda
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