Le due città (Italian Edition)
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Racconto di due città (A Tale of Two Cities) è un romanzo storico di Charles Dickens del 1859. Insieme a Barnaby Rudge è l'unico romanzo storico scritto da Dickens. Il romanzo venne pubblicato sulla rivista All the Year Round in 31 puntate settimanali, la prima apparsa il 30 aprile 1859 e l'ultima il 26 novembre del medesimo anno. Il romanzo è ambientato a Parigi e Londra durante la Rivoluzione francese e negli anni del Regime del Terrore. In esso vengono rappresentati la sottomissione del proletariato francese all'oppressione dell'aristocrazia negli anni precedenti la rivoluzione, e la successiva brutalità dei rivoluzionari nei primi anni della rivoluzione. Il romanzo segue le vite di diversi protagonisti attraverso questi eventi, in particolare Charles Darnay, un ex-aristocratico francese che diviene vittima di accuse indiscriminate durante la rivoluzione, e Sydney Carton, un avvocato inglese che cerca di redimere la propria vita per amore della moglie di Darnay, Lucie Manette, il cui padre venne ingiustamente imprigionato nella Bastiglia. Risulta secondo le principali ricerche statistiche, il romanzo con la maggiore tiratura di sempre, con oltre 200 milioni di copie.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831646949
Argomento
Literature
Categoria
Classics

LIBRO SECONDO

IL FILO D’ORO

I. - Cinque anni dopo.

La banca Tellson, presso Temple Bar, era un vecchio istituto, anche nell’anno millesettecentottanta, in una casa piccolissima, oscurissima, bruttissima, incomodissima. Era un vecchio istituto anche moralmente considerato, perchè i soci erano orgogliosi della sua piccolezza, orgogliosi della sua oscurità, orgogliosi della sua bruttezza, orgogliosi della sua incomodità. Si vantavano anche della sua insuperabile eccellenza in queste qualità, ed erano anche accesi d’entusiasmo dalla loro certa persuasione che se fosse stata meno repugnante, sarebbe stata meno rispettabile. E la loro fede non era una fede passiva, sibbene un’arma attiva che lasciavano sfolgorare nei centri d’affari più sontuosi. La banca Tellson (essi dicevano) non aveva bisogno di spazio per allargare i gomiti, la banca Tellson non aveva bisogno di luce, la banca Tellson non aveva bisogno di fronzoli. Ne potevano aver bisogno Roakes e Compagni, ne potevano aver bisogno i Fratelli Snook; ma la banca Tellson, grazie a Dio!…
Ciascuno dei suoi soci avrebbe diseredato il figlio che avesse consigliato di riedificare la banca Tellson. Sotto questo aspetto la banca andava quasi di conserva col Paese, il quale spessissimo diseredava quei suoi figli che consigliavano miglioramenti nelle leggi e nei costumi, i quali, per essere stati da tanto tempo profondamente malefici, non erano perciò che più rispettabili.
Così era avvenuto che la banca Tellson fosse l’ideale trionfante della incomodità. Dopo aver aperto una porta stupidamente ostinata e con un debole rantolo in gola, vi precipitavate nella banca Tellson dall’altezza di due gradini e vi ritrovavate, ricuperando i sensi, in una misera stanzuccia con due banchi, dove gli uomini più decrepiti scotevano il vostro assegno come se il vento lo agitasse, e ne esaminavano la firma presso la più sudicia delle finestre, sempre sotto una doccia di fango della Fleet, rese sudice dalle loro stesse sbarre di ferro e dalla grave ombra di Temple Bar. Se i vostri affari vi mettevano nella necessità di parlar col direttore, eravate cacciato in fondo, in una specie di cella da condannato, a meditare sul corso della vostra vita sciupata, finchè quegli non si presentava con le mani in tasca, e voi potevate appena distinguerlo in quella triste penombra. Il vostro denaro usciva o entrava in vecchi cassetti di legno tarlato, la cui polvere, come si chiudevano e s’aprivano, vi volava su per il naso e giù per la gola. La carta moneta che vi si consegnava aveva un odore di muffa, come se si decomponesse per diventar di nuovo stracci. L’argenteria che andavate a depositarvi, veniva serbata fra le vicine pozzanghere e in due o tre giorni le sue cattive relazioni le appannavano e le rodevano la bella lucentezza. I vostri documenti venivano cacciati in camere corazzate improvvisate fatte di cucine e d’acquai, e trasudavano tutto il grasso delle loro pergamene nell’aria della casa bancaria. Le scatole più leggere, zeppe di carte familiari, andavano di sopra in una specie di stanza da pranzo, nel cui mezzo c’era sempre una gran mensa senza mai il desinare, e dove, anche nell’anno millesettecentottanta, le prime lettere scrittevi dalla vostra vecchia fiamma o dai vostri bambini, erano soltanto da poco liberate dall’orrore d’essere occhieggiate, a traverso le finestre, dalle teste esposte su Temple Bar con un’insensata brutalità e una ferocia degna dell’Abissinia e dell’Ascianti.
Ma in verità, a quel tempo, la condanna a morte era una ricetta molto in voga per tutti i mestieri e le professioni, e, al par degli altri, per i Tellson. La morte è il rimedio della natura per tutte le cose; perchè non anche per la legislazione? Per conseguenza il falsario era condannato a morte; lo spenditore d’un cattivo biglietto di banca, a morte; chi apriva una lettera che non gli era diretta, a morte; il trafugatore di un po’ di denaro, a morte; il custode d’un cavallo, alla porta della banca Tellson che se la svignava col cavallo, a morte; il coniatore d’un falso scellino, a morte; i sonatori di tre quarti delle note in tutta la gamma del delitto, condannati tutti a morte. Non che ne derivasse il minimo vantaggio nel campo della prevenzione — si sarebbe potuto osservare che avveniva quasi esattamente il contrario! Si risparmiava al mondo il fastidio di scervellarsi su ogni caso particolare, e non ci si pensava più. Così la banca Tellson al suo tempo, come i maggiori centri d’affari, suoi concorrenti, s’era presa tante vite, che se le teste troncate innanzi ad essa, invece d’essere mandate altrove, fossero state schierate su Temple Bar, probabilmente avrebbero escluso, in misura piuttosto larga, quel po’ di luce di cui godeva a pianterreno.
Annidati nelle più diverse specie di dispense e di alveari, i più decrepiti fra gli uomini attendevano gravemente agli affari. Quando si assumeva un impiegato giovane nella banca Tellson di Londra, esso veniva nascosto in qualche luogo finchè non diventasse vecchio. Veniva, come una forma di cacio, tenuto in qualche cella buia, finchè non avesse acquistato la fragranza e la muffa Tellson. Allora solo gli si permetteva d’esser veduto, armato d’occhiali, a sfogliare dei grossi registri e a far pesare le sue uose e le sue brache nell’importanza generale dell’istituto.
Fuori della banca Tellson — assolutamente non mai dentro, se non chiamato — c’era una specie di fattorino, all’occasione portiere, che faceva da insegna viva dell’istituto. Non era mai assente durante le ore d’ufficio, se non spedito per qualche commissione, e allora era rappresentato dal figlio: un brutto monello di dodici anni, che era la sua esatta e precisa riproduzione. La gente diceva che la banca Tellson, nella sua magnificenza, tollerava quella specie di fattorino. La banca aveva sempre tollerato qualche persona in quella capacità, e il tempo e la paglia avevano maturato quella persona per quel posto. Il suo cognome era Cruncher, e nell’infantile occasione della rinuncia per bocca del padrino alle insidie del demonio, aveva ricevuto nella parrocchia orientale dalla chiesa di Houndsdicht, l’appellativo aggiunto di Jerry.
La scena era il domicilio privato del signor Cruncher nel viale di Hanging-Sword in Whitefriars: il tempo, le sette e mezzo d’una mattina ventosa di marzo, anno Domini millesettecentottanta. (Il signor Cruncher parlava sempre dell’anno di nostro Signore come Anni Domino; certo con l’idea che l’era cristiana datasse dall’invenzione del noto giuoco, da parte di una donna, che gli aveva dato il suo nome).
Le stanze del signor Cruncher non erano in un quartiere elegante, e non erano che due di numero, anche se uno stanzino con una sola lastra di vetro contava per uno. Ma erano molto ben tenute. Per quanto assai presto, quella mattina, la camera in cui egli stava a letto, era già tutta quanta spazzata; e fra le tazze e i piattini pronti per la colazione e la tavola traballante un’assai candida tovaglia era distesa.
Il signor Cruncher riposava sotto una coltre cucita con pezze di varî colori, come un arlecchino in casa propria, in principio, dormiva profondamente, ma pian piano cominciò a rigirarsi e a distrigarsi dal letto, finchè non apparve alla superficie, con i capelli irti che sembrava dovessero ridurre le lenzuola a brandelli. E allora esclamò, voce di viva esasperazione:
— Che mi pigli un accidente, se essa non lo fa ancora! Una donna, dall’aspetto lindo e affaccendato, si levò un angolo dove stava inginocchiata, con abbastanza fretta e trepidazione da mostrare che era proprio lei la persona alla quale in quel momento si alludeva.
— Che! — disse il signor Cruncher, cercando fuor del letto uno stivale. — Tu lo fai ancora.
Dopo aver santificato la mattina con questo secondo saluto, come terzo scagliò uno stivale contro la donna, Era uno stivale assai sudicio, dal quale si poteva dedurre lo strano particolare riferentesi all’economia domestica del signor Cruncher, il quale, mentre spesso tornava a casa dopo le ore d’ufficio con gli stivali puliti, spesso, levandosi la mattina dopo, li trovava tutti inzaccherati.
Che stavi facendo, — disse il signor Cruncher, variando la sua apostrofe, dopo aver fallito il segno, — che stavi facendo, brutta strega?
— Dicevo le mie preghiere.
— Dicevi le tue preghiere! Sei una donna meravigliosa! Che vuoi intendere col buttarti giù a pregare contro di me?
— Io non pregavo contro di te; pregavo per te.
— Non è vero — E se mai, non te lo permetterei. Vedi, Jerry! Tua madre è una donna meravigliosa, che si mette a pregare contro la proprietà di tuo padre. Tu hai una brava madre, figlio mio. Tu hai una pia madre, ragazzo mio: una madre che si butta giù in terra a pregare che il pane possa essere strappato dalla bocca del suo unico figlio.
Il signorino Cruncher, ch’era in camicia, s’ebbe molto a male della cosa, e volgendosi alla madre, la scongiurò vivamente di cessar di pregare contro il proprio alimento personale.
— E che credi, vanitosa femmina, — disse il signor Cruncher, con inconsapevole incoerenza, — che credi che valgano le tue preghiere? Dimmi a che prezzo metti le tue preghiere!
— Mi vengono dal cuore, Jerry. Non hanno altro valore.
— Non hanno altro valore, — ripetè il signor Cruncher. — Allora non valgono molto. Comunque, non voglio che tu preghi contro di me. Non lo permetto. Io non voglio esser reso infelice dalle tue bassezze. Se tu devi gettarti in terra, gettati in terra a pro di tuo marito e di tuo figlio, e non contro di loro. Se io non avessi una moglie snaturata, e questo povero ragazzo non avesse una madre snaturata, avrei potuto fare un po’ di denaro la settimana scorsa; ma dovevo avere la disgrazia delle tue preghiere e delle tue trappolerie di bacchettona. Che mi pigli un accidente! — disse il signor Cruncher, che intanto s’era vestito, — se fra le tue preghiere e l’una o l’altra maledizione, non m’è capitata la scorsa settimana la peggiore disgrazia che a un povero diavolo possa capitare! Jerry, vestiti, figlio mio, e mentre mi lustro gli stivali, dai un’occhiata a tua madre di tanto in tanto, e se vedi che si butta giù a pregare, dammi una voce. Perchè, capisci, — e a questo punto si volse alla moglie, — non permetto che tu ti ribelli a codesta maniera. Io sono sconnesso come una vettura da piazza, io sono assonnato come l’oppio, le mie ossa sono stanche in modo che, se non mi facessero male, non saprei se fossero mie o d’un altro; e pure in tasca non ho un centesimo; e ho il sospetto che da mattina a sera tu non hai fatto che impedirmi di guadagnar qualcosa; e io non lo tollero, brutta strega, hai capito?
Brontolando, inoltre, delle frasi quali: «Ah, sì! Sei anche religiosa! Non ti metteresti contro gl’interessi di tuo marito e di tuo figlio! Non ti metteresti!» e sprizzando altre scintille sarcastiche dalla turbinosa macina della sua indignazione, il signor Cruncher si occupò della pulizia delle scarpe e dei suoi preparativi generali per gli affari. Nel frattempo il figlio, che aveva la testa adornata da spighe più tenere, e che aveva gli occhi l’uno vicino all’altro, come quelli di suo padre, manteneva su sua madre la sorveglianza richiestagli. Di tanto in tanto disturbava quella povera donna, balzando con un grido soffocato dal camerino, dove aveva il letto e si lavava: «Tu stai per buttarti in terra, mamma… Ehi, papà!» e dopo aver levato quei fittizi allarmi si rintanava di scatto con un ghigno sospettoso.
L’umore del signor Cruncher non era affatto raddolcito, quand’egli si sedette a colazione. Si offese del benedicite della moglie con particolare animosità.
— Ehi, brutta strega! Che stai facendo? Un’altra volta!
La moglie spiegò di aver semplicemente pronunciato la benedizione.
— Non lo fare! — disse il signor Cruncher, con l’aria di chi s’aspettasse piuttosto di veder sparire il pane per l’efficacia delle richieste della moglie. — Non voglio essere benedetto nè in casa, nè fuori di casa. Non voglio avere il cibo benedetto alla mia tavola. Sta zitta!
Cruccioso e con gli occhi rossi, come se la notte avesse assistito a una riunione di carattere tutt’altro che gioviale, Jerry Cruncher, più che mangiar...

Indice dei contenuti

  1. LE DUE CITTÀ
  2. Charles Dickens
  3. Le due città
  4. LIBRO PRIMO
  5. LIBRO SECONDO
  6. LIBRO TERZO