Un principio senza fine
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Un principio senza fine

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"Un principio senza fine" è il drammatico racconto di uno dei migliaia di giovani soldati dell'esercito italiano, impiegati nella campagna di Grecia, durante la seconda guerra mondiale. Il soldato Alfio Leotta aveva vent'anni nel 1940, quando fu chiamato dall'esercito a far parte del IV° Reggimento Fanteria di Catania. Alfio ci ha lasciato una testimonianza di quegli avvenimenti, avendo trovato la forza e il coraggio di scrivere, nonostante la vita precaria, vissuta sul fronte di battaglia. Come se non bastasse, in seguito alla sconfitta subita dall'esercito italiano, venne fatto prigioniero e deportato dai nazisti in Germania, in un campo di concentramento e messo ai lavori forzati in una fabbrica di ghisa, nella città di Wissen.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831648325
UN PRINCIPIO SENZA FINE
10-03-1940
Il dieci marzo del 1940, per me non è stato un giorno come tutti gli altri, ma il primo di un lungo e interminabile periodo che ha segnato la mia vita e quella di molti miei simili, in maniera indelebile. È stato il giorno in cui tutto ha avuto inizio, come se fossi entrato in un lungo tunnel, tetro e buio, dal quale non si riusciva a vedere l’uscita. Il dieci marzo del 1940 è la data che ha dato inizio a “Un principio senza fine”. Da quel giorno, tutte le mie più intime aspirazioni e tutti i miei progetti furono stroncati; tutti i miei sogni si sono sgretolati ed evaporati come la nebbia del primo mattino, ma non era il sole a occupare il posto della nebbia. All’interno di quel tunnel, oltre la nebbia, si sono materializzate una serie infinita di avvenimenti di terrore, che hanno messo a dura prova la mia vita, fino allora, piena di speranze e proiettata verso il futuro. All’età di vent’anni perdevo la mia serenità e la gioiosa felicità acquisita fino a quel giorno, perché un destino crudele mi aveva quasi afferrato per mano e accompagnato verso questo “Principio senza fine”, come qualcosa che regnava su di me, per soffocare le attese speranze della mia gioventù. Ogni forma di gioia e di felicità è stata schiacciata dalla vita tumultuosa cui sono andato incontro, piena di tristezza, di paure, di inutili sacrifici e di fame. Ho dovuto sopportare ogni forma di sopraffazione per non soccombere e per riportare a casa ciò che rimaneva della mia soffocata felicità. Il dieci marzo del 1940, ero triste e molto affranto. Era come se il destino mi parlasse e mi mettesse in guardia, riuscendo a prevedere la mia vita futura. Due o tre giorni prima di quella fatidica data, cominciai a essere sopraffatto dalla tristezza, perché pensavo ai giorni, ai mesi e agli anni che avevo vissuto in piena libertà, nel rispetto del mio ruolo in seno alla famiglia, del mio lavoro dignitoso di contadino. Anche se non mi ero ancora allontanato dalle pareti sicure della mia umile casa, già ero assalito dalla nostalgia di non poter vivere con la mia famiglia e condividere con loro la mia felicità. Erano tantissime, le cose che pensavo in quei giorni ed erano tutti pensieri negativi che mi rabbuiavano la mente e mi spezzavano il cuore. Tra i tanti pensieri che attraversavano la mia mente, quello che più di ogni altra cosa mi rendeva molto triste era il distacco dalla famiglia e dalla mia amata terra natia: la Sicilia. Provavo tristezza, anche se pensavo ai miei compagni d’infanzia, agli amici e ai parenti che avrei dovuto salutare per chissà quanto tempo. Quando salutai la mia fidanzata, abbiamo pianto insieme, tanto era l’amore che ci univa. Prima di quella data non mi ero mai allontanato dalla mia famiglia e dall’affetto materno; la sua presenza mi aveva accompagnato costantemente nei miei vent’anni e non riuscivo a immaginare una vita lontano da lei, da mio padre, da mia sorella Carmela e da mio fratello Salvatore. Intanto, il dieci marzo si avvicinava e le ore passavano velocemente; niente mi dava felicità e nessuna parola riusciva a confortarmi. Mia sorella, anche lei triste, si era dedicata a me; cercava di rendersi utile per alleviare il doloroso distacco. Salvatore, il più piccolo in famiglia, era pensieroso e non parlava con nessuno, come se volesse custodire dentro il suo piccolo cuore, quel senso di abbandono da parte del fratello maggiore. Mio padre cercava di darmi dei buoni consigli su come comportarmi con i miei futuri amici, compagni di sventura e con i miei superiori, perché anche lui, come me, aveva lasciato la sua famiglia per dare il suo contributo nella guerra del 1915/18 contro gli austriaci. Lui sapeva benissimo a cosa stavo per andare incontro, ma cercava di incoraggiarmi, affinché potessi superare senza difficoltà i momenti difficili nei mesi a venire. Mia madre era veramente in pena per me. Se ne stava tutta sola in un cantuccio e non smetteva mai di piangere. Aveva sempre gli occhi lucidi a qualunque ora del giorno e questa cosa m’intimoriva, tanto da provare pena per lei, più di quanto lei ne provasse per me. La vedevo piangere, ma fingevo di non accorgermi del suo dolore, girando lo sguardo da un’altra parte. Quando i nostri sguardi s’incrociavano, allora non potevo fare a meno di chiederle: <<Mamma, perché piangi?>>. Lei si commuoveva ancora di più, ma cercava di ricomporsi e di nascondere il proprio dolore, dicendomi: <<No, non sto piangendo, ho avuto un attacco di tosse!>>. Non era vero ed io lo avevo capito perfettamente e allora cercavo di fare il duro davanti a lei, mostrandole tutta la mia sicurezza, ma poi, andavo fuori, sotto un albero del vigneto e lì sfogavo tutta la mia malinconia piangendo di nascosto. L’ultima notte passata in casa, è stata quella più lunga e terribile, perché non riuscivo a prendere sonno e a trattenere le lacrime, mentre infiniti pensieri attraversavano la mia testa. Per tutta la notte, fino all’alba, un solo pensiero mi teneva sveglio: la partenza. Quando si fece giorno e la luce del sole illuminava la nostra casa, ho avuto la netta sensazione che tutto fosse avvolto dalle tenebre, tanta era la tristezza che attanagliava il mio cuore e anche quello di mamma, che mi teneva per mano, mentre mi accompagnava alla fermata dell’autobus che mi avrebbe portato lontano da lei e da tutti. Improvvisamente l’autobus è apparso in lontananza, puntuale come non mai e un attimo dopo ci raggiunse. Quando fu abbastanza vicino, con la mano feci un segno all’autista perché si fermasse. Si fermò ed io mi apprestai a salire a bordo; solo il tempo di un bacio scambiato con mia madre, mentre la sua mano ancora stringeva la mia nel disperato tentativo di trattenermi. Feci solo un passo e mi fermai sui gradini della corriera, chiudendo dietro di me il portellone. L’autobus ripartì immediatamente, mentre ancora vedevo il viso di mia madre pieno di lacrime, oltre il finestrino. Era rimasta sola, alla fermata della corriera, a pochi passi della porta di casa ed io cercai di fissarla più a lungo possibile, mentre l’autobus si allontanava. Lei diventava piccola, sempre più lontana dai miei occhi, fino a quando scomparve dalla mia vista a causa di una curva repentina della strada. Mi venne da piangere per la commozione, ma i compagni di viaggio che mi conoscevano, cercarono di confortarmi e darmi coraggio, mentre la città si avvicinava, sede del distretto militare cui dovevo presentarmi. Arrivati a Catania, andai subito al distretto militare. Quando quella mattina, entrai nella caserma militare, rimasi impressionato. C’erano tanti militari in giro negli spazzi interni alla caserma, molti dei quali avevano la mia stessa età. Sentendomi ancora estraneo in quell’ambiente, mi sono chiesto: “Ma che vita è questa?”. Feci la stessa domanda a uno di loro, il quale mi rispose un po’ scherzando: <<Te ne accorgerai!>>. Poi aggiunse, forse per non farmi spaventare: <<Tutto passa. Ti abituerai anche tu a questa vita!>>. Dopo qualche ora fui sottoposto a visita medica, dalla quale chiaramente fui dichiarato abile alla vita militare e fui destinato al IV Reggimento Fanteria di Catania. Vista la destinazione che mi era stata riservata, mi venne da pensare che la fortuna, forse stava dalla mia parte; infatti, pensai subito: “Come sono fortunato, farò il servizio militare vicino casa!”. Quella prima giornata passata in caserma volgeva al termine, ma nonostante avessi fatto ben poco per tutto il tempo, a parte la visita medica, quella sera, dopo l’imbrunire, mi ritrovai in mezzo a tanti altri commilitoni, tutte persone sconosciute per il momento e allora fui assalito nuovamente dalla tristezza. Nonostante fossi in compagnia di centinaia di altri giovani come me, mi sono sentito solo e triste, un essere inutile e non c’era niente che mi dava gioia. Con il passare del tempo, tutti quei giovani sono diventati miei amici e compagni di sventura, ma in quei momenti non erano di conforto.
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Immagine 2- Alfio Leotta,prima della partenza per il militare.
Mi sedevo un po’ qua, in compagnia di alcuni di loro e un po’ là, in compagnia di altri, ma da nessuna parte trovavo riposo. Pensavo in modo ossessivo a tutto quello che avevo appena lasciato, ma soprattutto, pensavo alla mia mamma. Pensavo a quelle lacrime sul suo viso in pena ed era un’immagine che mi si era fissata in modo indelebile nel mio cervello; avevo l’impressione che fosse lì davanti a me a fissarmi. Allora cercai conforto religioso, rivolgendomi a Dio e pregando, perché mi aiutasse a superare questo stato penoso in cui ero caduto. Proprio in quel momento fui avvicinato da quattro soldati; anche loro cercavano di fare amicizia. Si sono presentati e hanno cominciato a parlare con me. Hanno detto come si chiamavano e anch’io gli dissi il mio nome: <<Mi chiamo Alfio!>>. Ognuno di loro diceva il proprio parere sulla nuova vita che stavamo per iniziare e tutti avevano qualcosa da dire al riguardo, un pensiero unico, non molto diverso da quello che pensavo io. Tutti lamentavano l’inutilità di quel tempo dedicato alla vita militare e tutti pensavano al peggio, visti gli sconvolgimenti politici e militari in tutta l’Europa di quel periodo. Per un’ora abbiamo discusso e ci siamo raccontati le nostre vite, quello che facevamo e qual era il nostro lavoro prima che finissimo rinchiusi in un casermone nel cuore di Catania, in balia del dolce far niente. Dopo un po’ che stavamo insieme a parlare, fummo avvicinati da un uomo alto e grosso, un militare di carriera molto fanatico e figlio del suo tempo. Era un maresciallo. Usando un tono di voce del tutto inopportuno, ci chiede: <<Che cosa state facendo voi qui?>>. Noi, intimoriti dai suoi modi brutali e dal tono della sua voce, ci siamo guardati in faccia e abbiamo avuto quasi paura. Uno di noi, in modo del tutto cortese e con riverenza gli disse: <<Non facciamo niente, nessuno ci spiega che cosa dobbiamo fare!>>. Allora, il maresciallo, che non si aspettava quella risposta, rimase sorpreso e cambiò atteggiamento, si ammorbidì nel tono della voce e ci disse: <<Venite con me!>>. Noi, uno dopo l’altro e con i nostri bagagli ancora in mano, lo seguimmo. Ci fece entrare in una stanzetta completamente vuota, dove non c’era nemmeno una sedia per sedersi e ci disse: <<Rimanete qui!>>. Siamo rimasti lì dentro per tutta la notte, fino al mattino. Ci sentivamo abbandonati e completamente dimenticati, senza un minimo di rispetto. Fu una notte lunga e triste, le ore non passavano mai, perché non potevamo dormire. Di tanto in tanto, scambiavamo qualche parola l’uno con l’altro, ma ognuno di noi, immaginavo, si sentisse esattamente come me, con il pensiero rivolto verso casa, verso la nostra famiglia, ed era passato solamente un giorno dalla nostra partenza. La mattina eravamo tutti molto stanchi, con il pallore sulla faccia, per come avevamo trascorso la notte. Dopo un po’ siamo usciti nel cortile della caserma e fummo avvicinati da un caporale, il quale ci ha accompagnato al comando del reggimento. Dopo due o tre ore passati ad aspettare, ci assegnarono alla compagnia. Io fui assegnato al R.C.C., reggimento carri, dove fui condotto durante lo stesso giorno. Lì, sono rimasto ad aspettare fino il giorno dopo. Dovevano consegnarmi tutto il corredo militare. Finalmente, all’alba del giorno dopo, mi fu consegnato il corredo militare, che non sapevo nemmeno dove mettere, ma dopo avere chiesto in giro come e dove dovevo custodire tutto quello che mi era stato consegnato, riuscii a sistemare tutto e da quel giorno cominciai a essere un bravo soldato. Feci di tutto per comportarmi meglio che potevo e nel rispetto delle mie mansioni, al solo scopo di poter ottenere, ogni tanto, un permesso per ritornare a casa. All’inizio sembrava che andasse tutto bene ed ero quasi contento della vita che conducevo all’interno della caserma. La sera andavamo in giro nel centro di Catania ed eravamo molto uniti tra noi commilitoni, ma tutto questo è durato poco. Anche se non eravamo del tutto liberi, la vita che si conduceva non era brutta, ma era, comunque, molto noiosa, perché facevamo sempre le stesse cose ed eravamo comunque condizionati dalla disciplina militare imposta dai nostri superiori di grado, con le stellette fissate alle loro divise. Un giorno, uno di questi superiori stellati, ci spiegò il significato delle stelle a cinque punte fissate sulle loro divise. Ci disse, usando un tono perentorio: <<Le stellette che sono sulle nostre divise hanno cinque punte; dovete sapere che a ognuna di esse corrisponde una e una sola sillaba e sapete cosa dicono queste sillabe messe insieme? State bene attenti alle mie parole!>> mentre con un dito indicava le cinque punte, una dopo l’altra, disse:<<Non-si-di-scu-te!>>, <<Sono stato chiaro?>>, chiese alla fine del discorso. Così, sono passati i primi giorni e i primi mesi, conducendo una vita noiosa e senza senso, ma il 5 maggio 1940, la mia compagnia ha lasciato la caserma per fare il nostro primo campo. Siamo andati a finire a Malvagna, un piccolo paese di montagna in provincia di Messina.
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Immagine3- Alfio Leotta, nella foto, è il primo a sinistra, insieme a due amici commilitoni.
A Malvagna abbiamo scoperto quanto fosse dura la vita che si conduceva al campo rispetto a quella della caserma. Lunghe marce, diurne e notturne, erano ciò che più di ogni altra cosa, eravamo costretti a compiere, per temprare lo spirito del soldato, dicevano i graduati, ma io ho pensato che quello era il preludio di una vita piena di inutili sacrifici e senza che ci fosse la reale speranza di ottenere un permesso per ritornare qualche giorno a casa. Mi arrivava la posta regolarmente, lettere di mia madre e della mia fidanzata, che io custodivo gelosamente e che mi tenevano informato dell’andazzo della vita che conducevano i miei famigliari e della mia bella Zafferana Etnea, ma tutte le volte, puntualmente, la nostalgia saliva alle stelle e finiva sempre che mi mettevo a piangere. “Speriamo che tutto questo duri poco!”, continuavamo a ripetere nei nostri discorsi giornalieri, ma non c’erano segnali in questo senso, anzi, fu tutto il contrario di quello che speravamo, perché, anziché finire, quello fu l’inizio di nuovi avvenimenti, il principio di una vita sbagliata; tutto quello che abbiamo fatto nei giorni che seguirono, era senza senso e non c’era nessuna speranza che si potesse ritornare indietro. Quello che accadde in quei giorni sbagliati, è stato “Un principio senza fine”. La speranza si tramutò in rassegnazione, anche se rassegnarsi era sempre più difficile. Allora, ci siamo consegnati nelle mani di Dio, sperando sempre in un miracolo o in un aiuto divino che arrivasse dal cielo e si posasse su ognuno di noi come lo Spirito Santo. Ci rassegnammo alla vita da campo, triste e molto pesante...

Indice dei contenuti

  1. PREFAZIONE
  2. UN PRINCIPIO SENZA FINE
  3. LA PRIGIONIA!!!
  4. BREVE CONCLUSIONE