La vivisezione. Tortura di animali e scempio di coscienze
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La vivisezione. Tortura di animali e scempio di coscienze

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Augusto Agabiti (Pesaro, 7 gennaio 1879 – Roma, 5 ottobre 1918) è stato un teosofo italiano. Nel 1904 pubblicò il saggio giuridico "La sovranità della società". Le conoscenze nell'ambiente parlamentare, in particolare quella di Luigi Luzzatti, gli permisero di sollecitare l'emanazione di leggi in sintonia con le sue idee umanitarie, come quella sulla limitazione della vivisezione degli animali e sull'alcolismo. Nel clima culturale dei primi anni del secolo, nei quali era forte un'impronta spiritualistica, coltivò interessi teosofici: nel 1904 l'Agabiti incontrò Decio e Olga Calvari, cultori della teosofia della Blavatskij, e con loro fece parte della Società Teosofica, fondata ad Adyar da Henry Steel Olcott e da Annie Besant, dalla quale si allontanò nel 1910 per aderire alla Lega Teosofica Indipendente, fondata l'anno prima a Benares. Collaboratore dal 1907 della rivista «Ultra», ne fu anche il direttore dal 1914. Se egli fu influenzato dal clima spiritualistico e tardo-romantico che pervase la cultura europea e italiana nel periodo a cavallo dei due secoli, mantenne però in sé principi progressivi che gli derivarono dall'educazione liberale e positivistica, rifiutando la deriva reazionaria in politica e decadente in letteratura: ne Il problema della vivisezione attaccò il dannunzianesimo come «il risultato attuale e necessario dei principi areligiosi, edonistici, di egoismo selvaggio professati da alcuni gruppi sociali di intellettuali decadenti, i quali pretendono di essere al di là del bene e del male».

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788831649797

LA VIVISEZIONE
(TORTURA DI ANIMALI E SCEMPIO DI COSCIENZE).

«La vivisection est un crime»
Victor Hugo.
«Amo gli animali come miei fratelli».
S. Francesco d’Assisi.
«Nessuna rivendicazione della Scienza, nessun risultato che si possa sperare, nulla può giustificare tal genere di atrocità».
Cardinale Manning
Come le bare egizie di sicomoro, fatte per serbare indistruttibili le salme mummificate, avevano il coperchio scolpito che raffigurava intiero l’estinto nella serena immobilità del sonno di morte; così stava costrutto uno degl’istrumenti più tremendi della tortura giudiziaria tedesca: era una semplice cassa, irta nell’interno di crudeli aculei, ma esternamente ornata di un intaglio elegante, a forma d’uomo dall’impassibile aspetto.
La descrivono i principali storici della tortura, in libri lugubri e disperati, per le sinistre impressioni che producono.
La «Eiserne Jungfrau» esistente nel castello di Norimberga, nella orribile «Fünfeckige Turm», ne è uno degli esemplari perfettamente conservati: è tutta greve di struttura, pesantissima, spaventevole, e, per essere di ferro arruginito, quasi rossa di sangue recente.
La maschera restava immota, il legno od il ferro non avevano fremiti, potendo anzi quella scoltura rozza, mostrare il perpetuo sarcasmo di un sorriso stupido e calmo, mentre dentro la vittima veniva trafitta dai pugnali che lentamente penetravano, senza uccidere, nelle vive carni; ed era insieme soffocata ed oppressa dalle pareti di legno, nell’impossibilità di agitarsi e di urlare, perfino; di tutto impedita, fuorchè di soffrire intiero il tormento, quasi inenarrabile.
Orbene, chi fosse entrato ignaro nella sala di tortura cinque minuti dopo quelle esecuzioni, tanto spaventose e crudeli che l’animo s’attrista tuttora a ricordare, avrebbe veduto allineate ad una parete e ritte in piedi, tante casse dai coperchi chiusi e scolpiti, e le avrebbe credute bare destinate al riposo di morti, non sospettando la realtà; che dentro quelle bocche di coccodrillo fossero uomini, uomini stretti vivi nella morsa acuminata dei denti, e coi denti acutissimi del mostro, confitti nei polmoni, nelle reni, in bocca, dentro le orbite… Quale tormento più feroce? Pur non durava a lungo.
Ma sapete voi, lettori gentili, quel che si perpetra ogni giorno nei gabinetti di fisiologia; a Firenze, a Roma, a Parigi, a Londra, ovunque esistono studiosi di medicina?
Se la pietà umana non è estinta, se è vero che il pianto degli oppressi ed il dolore muto degli esseri privi di favella, che lo esprimono con lo sguardo e col convulso, non sono divenuti vani ed inefficaci dinanzi alle coscienze, dopo aver letto i documenti che qui arreco, sono certo che non giudicherete inutile cosa o superflua, l’avervi io intrattenuto su argomento sì grave ed angoscioso.
Nei suddetti laboratori, gli animali vivi (conigli, cani, cavie, gattini, cavalli) mediante una goccia del terribile veleno dei selvaggi dell’Orenoco, detto curaro, vengono resi immobili, come la scoltura in legno del coperchio di sicomoro e, così, feriti, spaccati, attanagliati, bruciati nelle piaghe col ferro infuocato ed i caustici, arsi a fuoco lento. E tutto ciò per ore, per un giorno intiero, per più giorni…
Il curaro, in tutti questi casi, quando viene impiegato, rende immobili le membra, ma non toglie il dolore; accentua la sensibilità, anzi!
«Tutte le descrizioni, dice il vivisettore Claudio Bernard1 , ci fanno apparire come cosa dolce e tranquilla la morte avvenuta sotto l’azione del curaro. Un semplice sonno sembra essere la transizione dalla vita alla morte. Ma così non avviene: l’apparenza esterna è ingannevole… Se, infatti, affrontando la parte essenziale del nostro soggetto, entriamo, per mezzo dell’esperimento, nell’analisi organica dell’estinzione vitale, vedremo come questa morte che ci sembrava sopraggiungere in maniera tanto calma ed esente da dolore, è accompagnata, invece, dalle più atroci sofferenze che l’immaginazione umana possa concepire».
….. «Infatti in quel corpo senza movimento, dietro quell’occhio appannato e con tutte le apparenze della morte, la sensibilità e l’intelligenza persistono ancora tutte intiere. Il cadavere che si ha dinanzi agli occhi, intende e distingue tutto quanto si fa intorno a lui, sente impressioni dolorose quando viene punzecchiato od eccitato. Insomma possiede ancora sentimento e volontà, ma ha perduto gl’istrumenti che servono a manifestarli».
Eppure lo stesso scrittore, in altro libro2 , nota:
«Il curaro è oggi impiegato come mezzo d’immobilizzamento, in un grande numero di esperienze; vi sono pochi studi nei quali non si cominci coll’avvertire il lettore che si è agito su di un cane curarizzato, per esempio».
Il numero degli animali sacrificati è enorme. Più di cinquemila cani subiscono a Parigi tale sorte miserrima ogni anno; e si cita il prof. Schiff di Firenze, per avere sacrificato da sè solo circa mille cani all’anno3 .
Ed egli osserva, nell’opera su la «Physiologie de la Digestion»: «Sono obbligato a tagliare le corde vocali, alla maggior parte dei cani che vengono portati al mio laboratorio, per timore che i loro urli notturni, non compromettano i miei studi fisiologici, destando il risentimento dei miei vicini»4 .
Del resto l’enormità del numero degli animali sacrificati si deduce indirettamente pensando che esistono varie Ditte industriali produttrici esclusivamente di ferri per la vivisezione, e specialmente di macchine per la respirazione artificiale degli animali curarizzati.
La penosa respirazione con soffietti meccanici li tiene in vita, nonostante la paralisi che il curaro produce, e che investe subito pure i polmoni. E gl’istrumenti sono di forma e di grandezza varie: semplici anche, complicatissimi, costosissimi perfino.
Nei cataloghi delle fabbriche suddette, vediamo le illustrazioni di coltelli (dai piccoli ed aguzzi che servono per pungere, incidere ed estirpare le profonde viscere, a quelli larghi e pesanti, atti a mozzare gli arti d’un colpo), di ...

Indice dei contenuti

  1. LA VIVISEZIONE
  2. Augusto Agabiti
  3. LA VIVISEZIONE (TORTURA DI ANIMALI E SCEMPIO DI COSCIENZE).
  4. BIBLIOGRAFIA
  5. Note