- Introduzione -
Da ragazzo scoprii l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters grazie a Fabrizio De Andrè, che gli aveva dedicato un intero album che io comprai, in vinile, diversi anni dopo la sua pubblicazione. Oltre che dalle storie di vita aspre e toccanti che raccontava, fui colpito dal lungo dialogo-intervista con Fernanda Pivano (traduttrice di molti scrittori dell’epoca) che De Andrè aveva ritenuto necessario allegare a quel disco quasi per spiegare al suo pubblico la scelta del libro, delle poesie e dei personaggi ritratti.
Non al denaro, non all’amore né al cielo fu inciso circa mezzo secolo dopo la pubblicazione del libro di Masters. Proprio quest’anno ne ricorre il centenario, ma sono convinto che se venisse stampato oggi, ben pochi si accorgerebbero che non parla dei nostri contemporanei. Basta sfogliarne poche pagine per rendersi conto che quella galleria di ritratti è ancora attualissima! Di quella grettezza provinciale non ci siamo affatto liberati.
Sarà inutile ricordarlo, ma nel suo libro Masters dava voce ai cittadini di un paesino degli Stati Uniti con una particolarità:
ognuno di loro raccontava la propria storia dopo morto, da una prospettiva assolutamente insolita perché non più condizionato da tanti fattori che vincolano il nostro agire durante la vita. Finalmente liberi dalle maschere che tutti indossiamo ogni giorno!
De Andrè, nel suo disco, analizzava in particolare due temi che condizionano l’agire umano: l’invidia, per indicare il clima di competitività nel quale siamo obbligati a girare come conigli impazziti in una gabbia, e la scienza come aspirazione o mezzo per riuscire a liberarsi da questa dimensione. Tutto questo non riesce perché la scienza è ancora nelle mani proprio di quel potere che crea l’invidia.
La sua denuncia era che, purtroppo, la scienza non è ancora riuscita a risolvere i problemi esistenziali. Questi personaggi sono sempre in competizione gli uni contro gli altri ed animati da un sentimento di rivalsa che genera frustrazioni, in quanto non può mai essere appagato.
Eppure, nel disco, De Andrè aveva voluto lasciare uno spiraglio di speranza delineando anche due personaggi “positivi”. Un malato di cuore, la cui azione non era determinata dall’invidia, ma finalmente dall’amore, e il suonatore Jones, nel quale lo stesso De Andrè ambiva a identificarsi, perché suonava non per denaro ma per il puro piacere di farsi ascoltare.
La tesi di De Andrè era che nella vita a trionfare fossero le persone disponibili. Questo mi ha sempre fatto pensare, perché mi sembrava davvero arduo riuscire ad esserlo nel clima di competizione che lo stesso De Andrè (e Masters, ovviamente) avevano individuato e che piuttosto spinge tutti a mascherarsi quando si interagisce con gli altri, non riuscendo, o non trovando opportuno, essere sinceri.
Come uscirne? Se parliamo della vita comune di tutti noi, forse l’unica possibilità è riuscire a prendere le distanze da questa corsa forsennata all’accumulo materiale che ci lascia perennemente insoddisfatti. Se riflettiamo un attimo, ci rendiamo conto che ormai è la televisione a telecomandare le persone, attraverso la pubblicità, e non viceversa.
Viviamo in un’epoca in cui tutto è mercificato, in cui su ogni cosa viene apposto un codice a barre come fosse l’unica dimostrazione dell’esistenza dell’oggetto stesso. Ci impongono come indispensabili prodotti dei quali si può tranquillamente fare a meno. E noi, invece, corriamo ad indebitarci pur di ottenerli. Per non essere inferiori al vicino o al collega. Per
essere al passo con i tempi. Ma ne vale davvero la pena?
Bisognerebbe acquisire un’autonomia di giudizio che ci consentisse di orientarci senza condizionamenti. Riuscire finalmente a “scegliere e non lasciarsi scegliere”, per continuare a citare Faber. Forse sarebbe il caso di concentrarsi di più su noi stessi, sui bisogni reali che, quasi sempre, sono tutt’altro che materiali. Pace, amore, amicizia, emozioni, ascolto, comprensione, passioni, equilibrio, autenticità, che purtroppo non sono in vendita neppure nell’ipermercato più “esclusivo”. E innanzi tutto riappropriarci del nostro tempo, il bene più prezioso in assoluto. Ovviamente questo ragionamento è valido per l’Occidente opulento e “civilizzato”, non certamente per quei disperati ai quali, effettivamente, mancano ancora i mezzi per soddisfare i bisogni più elementari, come il pane, o i diritti fondamentali come la dignità.
Quella di Masters e De Andrè era una vera e propria indagine sulla natura umana che mi ha guidato per tutta la vita. Non è stato raro, nelle circostanze più diverse, osservare una persona come fosse un personaggio di quel libro. Individuarne o evidenziarne i limiti, le molle che guidavano il suo comportamento e riuscire così a capirla e sentirla più vicina. Perché siamo tutti vittime di qualcuno che “ci costringe a sognare in un giardino incantato”.
L’estrema sincerità dei protagonisti di quelle poesie era resa possibile non solo dall’essersi sottratti, con la morte, al clima di competizione che respiravano da vivi, ma anche dall’essersi liberati dal desiderio della “mela proibita”, cioè della possibilità di conoscenza, non più detenuta da Dio, ma dal potere che li manipolava a piacimento.
Come dice De Andrè, Edgar Lee Masters può sicuramente essere definito un contestatore, perché denuncia i difetti di gente attaccata alle piccole cose, che non vede al di là del proprio naso, che non ha alcun interesse umano al di fuori delle necessità pratiche. Entrambi concentravano la loro attenzione sull’aspetto umano prima ancora che su quello politico.
L’altra intuizione sorprendente di Masters è l’aver avvertito, già nel 1919, che nella nostra società non riusciamo a comunicare. Oggi, nell’epoca di internet, ce ne possiamo rendere conto maggiormente. Quella dei social non può assolutamente definirsi una comunicazione umana. È un surrogato di essa. Ci dà la sensazione di essere in contatto con tanti “amici” che in realtà spesso non conosciamo affatto, per lasciarci alla fine tristemente soli.
Io credo che la società del benessere sia come una droga, che rende dipendenti. Rende anche insensibili, per cui non c’è più niente che affascini e che stupisca davvero. Inseguiamo sempre nuovi oggetti che ci durano davvero troppo poco. Perché già ce ne stanno facendo desiderare uno nuovo. E così all’infinito.
Sarebbe auspicabile recuperare una sana disponibilità a lasciarsi sorprendere, che è fondamentale per raggiungere la serenità e per sentirsi appagati anche con poco. Ma purtroppo in tanti la smarriscono per strada. Ormai si è assuefatti davvero a tutto, viziati, sazi in ogni senso. Non si riesce più a distinguere fra ciò che è veramente necessario e quello che è assolutamente superfluo. E questa è la premessa peggiore, perché senza la capacità di stupirsi ci si avvia inevitabilmente verso un deserto morale, verso la rassegnazione, verso la monotonia. È come prendere l’autostrada per l’infelicità.
In partenza queste poesie volevano essere dei testi da musicare. Ma, strada facendo, hanno preso forma autonomamente fino a convincermi che potevano essere proposte ad un editore. Ciò non toglie che il sogno di un disco potrebbe ancora realizzarsi, proprio grazie a te che mi stai leggendo!
Questa raccolta vu...