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Se solo avesse potuto e fosse stato folle a sufficienza da compiere un simile affronto, quella notte Penteo avrebbe afferrato il Dio Hypnos per il collo e lo avrebbe obbligato a fargli dono del più profondo e rigenerante dei riposi. Un sonno dolce, amico, in grado di allontanarlo, seppure per poche ore, dall’opprimente realtà che lo circondava. Ma l’Addormentatore sembrava averlo dimenticato o, peggio, sembrava che stesse ignorando di proposito le sue preghiere, e ciò lo rendeva furente.
Era il re di Tebe. Come poteva tollerare che i suoi sudditi dormissero beati nei loro giacigli di paglia, mentre lui, nipote di Cadmo, fissava il soffitto con occhi insonni? Come poteva Hypnos spargere il sonno ovunque tranne che sulla sua povera mente? Non i porcari, non i mercanti. Lui, Penteo, detentore del trono tebano, aveva un disperato bisogno di dormire perché sulle sue spalle gravava il peso di ciò che stava accadendo nella Città dalle Sette Porte.
Si rigirò tra le coperte trascinandosele dietro. Il focolare era acceso: un rettangolo di fuoco scoppiettante nel nero della camera. Con le lucerne spente, il camino poteva ben poco contro le tenebre della notte, se non spargere nell’ambiente il suo aroma di legna bruciata. Il buio copriva ogni dettaglio della stanza come un telo scuro, appiattendo la sua ricchezza: pitture murarie multicolori, tappeti di lana persiana, vasi in ceramica decorata. L’eleganza degli arredi s’intravedeva appena, come se la camera stessa si fosse addormentata e avesse smesso di accecare col suo sfarzo brillante.
Penteo osservò le lingue di fuoco che s’innalzavano dai ceppi incandescenti dentro al camino, e a poco a poco la sua invidia si spense. Sapeva che era impossibile che i suoi sudditi stessero dormendo. Tebe era silenziosa, ma il suo era il silenzio teso dell’insonnia; il silenzio di chi non può dormire perché troppo spaventato, arrabbiato, smarrito, e rifugge il sonno per timore degli incubi.
Il re si tirò su, allungò una mano verso il tavolino circolare accanto al letto e afferrò la coppa che vi era posata sopra. Bevve. L’infuso alle erbe era ancora tiepido e gli corse giù per la gola in pochi istanti, lasciandogli sulla lingua un retrogusto dolciastro. Rovesciò la testa indietro, per far scivolare in bocca le ultime gocce, quindi posò la coppa e si ributtò giù.
Aveva fatto fatica a chiedere a Leonte, il suo fidato medico, di preparargli qualcosa che lo aiutasse a dormire. A dirla tutta, si era vergognato da morire. La mancanza di sonno, in quelle circostanze, era un indicatore di ansia e tutto desiderava, lui, tranne che passare per ansioso. Ma doveva dormire, così a voce bassa, prima di ritirarsi in camera, aveva chiesto l’aiuto del medico. In fin dei conti, non era andata così male. Il vecchio aveva annuito senza mostrare alcuno stupore – era pur sempre l’uomo che si era curato di ogni suo malanno, dai tempi in cui era ancora un bambino che si sbucciava le ginocchia o sudava per la febbre – e dieci minuti più tardi gli aveva inviato un servo in camera, con una coppa fumante tra le mani. Lui aveva bevuto: camomilla, passiflora, tiglio e chissà quale altra erba sconosciuta, con una goccia di miele. Un infuso gradevole che, però, non aveva sortito alcun effetto. Certi mali vanno sopportati fino all’ultima fitta di fastidio. E basta.
Innervosito, Penteo stropicciò il guanciale e si rigirò. La luce grigia che penetrava dalla finestra scivolò sul suo volto stressato, creando un cupo gioco di ombre.
Era un sovrano giovane, sulla soglia delle ventitré primavere, coi capelli castani e gli occhi ambrati e lucenti come quelli di Echione, suo padre. Portava il viso sbarbato come gli atleti delle palestre. Il naso era dritto e lievemente curvo in punta, eredità di sua nonna Armonia. Il mento tondo e largo, identico a quello di suo nonno Cadmo. Nel complesso era affascinante e ben proporzionato, ma tutto di lui emanava ostilità e, per quanto bello fosse, nessuna tebana aveva mai sospirato al suo passaggio né lo aveva mai salutato con gioia. E men che meno sarebbe accaduto ora.
(Penteo)
Il re osservò il quadrato di cielo blu che si stagliava sulla parete nera. Aveva l’impressione che qualcuno, da qualche parte, gli stesse parlando. Una presenza lontana, misteriosa. L’ennesimo scherzo della stanchezza. Forse.
Chiuse gli occhi.
(Sono qui)
(La senti la mia potenza?)
Penteo infilò la mano sotto alle lenzuola e scese giù, tra le gambe. Cominciò a toccarsi. Colpi a pugno chiuso, dal principio lenti poi frettolosi, che gli offrirono immediato godimento mentre coi pensieri attingeva al pozzo delle sue inconfessabili fantasie. Amava e odiava perdersi in quell’atto, che prima lo scaraventava tra le stelle e dopo lo schiacciava a terra, a fare i conti con la propria vergogna. Desiderava essere un virtuoso, un puro, un illuminato. Un sovrano in grado di attrarre su di sé gli occhi glauchi della saggia e casta Atena. Ma ora aveva bisogno di ritrovare il suo equilibrio e di stare bene, almeno per un po’.
(Non resistermi)
(Penteo)
Il tebano sentì il piacere crescere e crescere, un fuoco che dall’inguine si propagò al ventre, al petto, alle guance. Si sfregò più velocemente, come se volesse punirsi, e mentre si affrettava verso l’apice lo desiderò davvero.
(Accettami)
(E andrà tutto bene)
Penteo raggiunse l’orgasmo, le sue dita s’inumidirono. Emise un gemito e continuò a torturarsi in preda alle fiamme, poi il suo piacere si spense. Sospirò pesantemente, come un lottatore giunto alla fine della più ardua delle gare, e i suoi occhi stremati tornarono al soffitto. Fu solo un momento, poi si richiusero, vinti dalla sensazione di pace che solo la vetta del godimento sessuale è in grado d’offrire. Ascoltò il proprio respiro affaticato e gli sembrò di starsi squagliando, di stare diventando un tutt’uno con le lanose coperte e le lenzuola umide di sudore.
Non più un sovrano, non più un uomo.
Solo un insignificante niente.
Infine, Hypnos calò su di lui e gli sfiorò la fronte con le sue soporifere dita. Un tocco soave, quasi una carezza, e Penteo cominciò a sognare ciò che era accaduto.
Clangore di ferro.
Un fracasso metallico che squarcia la notte e si ripete uguale a se stesso, assordante come mille fulmini scagliati da Zeus nel medesimo momento.
Penteo si sveglia di soprassalto, i suoi occhi sconvolti incontrano il nero del buio che pervade la stanza. Lo sconquasso ferroso gli rimbomba nelle orecchie come un terribile insulto. Proviene da fuori, dalla strada. Un esercito nemico che picchia le spade contro gli scudi, forte, sempre più forte. Non può essere altro che quello. Tutti i cani di Tebe abbaiano sopra al grido di quelle armi.
Il re scaraventa via le coperte e si scaglia fuori dalla stanza, lanciandosi nel corridoio. I suoi piedi scalzi saltano con fastidio sul gelido pavimento. La veste da notte, lunga fino al ginocchio, non riesce a proteggerlo dal freddo che aleggia nel palazzo. Scende le scale che conducono al piano inferiore, senza sapere dove sta andando, e gira l’angolo. Servi impazziti gli corrono incontro e lo sommergono col loro terrore.
«Non lo so! Non lo so!» grida, precipitandosi nella sala dei ricevimenti. Chilone, il suo consigliere, lo assale. È pallido e i suoi occhi sono enormi come quelli di un gufo.
«Dov’è mio nonno?» chiede il sovrano e subito si pente di quella domanda. Spetta a lui, e a nessun altro, risolvere la situazione.
«In camera. Credo stia arrivando» risponde il consigliere. «Maestà, cosa-»
Penteo esce dalla sala e si tuffa su per i gradini che conducono alle terrazze. Il palazzo reale è l’edificio più alto di tutta l’acropoli. Da lì potrà vedere l’esercito. Il gelo della notte lo aggredisce e gli scuote la veste. Fa freddo lassù, malgrado gli enormi bracieri che ardono agli angoli della terrazza. Si affaccia. Le sue dita si aggrappano alla pietra, come gli artigli di un’aquila intorno al corpo della preda.
Tebe è deserta.
Nessun esercito, nessun invasore.
Solo i tetti delle case, gli usci illuminati dalle torce, le strade vuote.
Eppure il rumore scuote ancora l’aria, inconfondibile fracasso di ferro. I cani abbaiano e abbaiano. Penteo non capisce. Sta accadendo qualcosa sotto a quei tetti, e non è qualcosa di buono.
È sul punto di andarsene e scendere di sotto, quando la verità si rivela.
Le porte delle case si aprono, le donne escono fuori. Reggono tra le mani padelle e mestoli di bronzo, li schiantano gli uni sugli altri. Penteo sussulta stupefatto. Le donne stanno ferme sulle soglie, a creare fracasso come unite da un’invisibile e collettiva isteria. Il re vede i mariti precipitarsi fuori, li scorge mentre cercano di strappare dalle loro mani le pentole. Le donne li spintonano, scivolano dalle loro braccia come triglie appena pescate e continuano a picchiare i mestoli. Nelle colluttazioni alcuni uomini cadono a terra, le grida si sommano al clangore del bronzo.
«Che fai? Sei impazzita?»
«Smettila subito!»
«Torna in casa!»
«Ma cosa ti succede?»
Penteo scuote la testa, incredulo di fronte allo spettacolo che gli si para davanti, appena oltre le mura dell’acropoli. Avverte una presenza alle spalle, si volta e vede suo padre Echione. Indossa l’armatura intarsiata da comandante delle guardie reali, l’elmo calato sul volto come di consueto. I suoi occhi inumani – gli occhi del drago – sono accesi come gocce di magma. Nelle tenebre della notte, per un secondo Penteo lo trova terrificante. Lui, lo Sparto, nato dai denti del drago ucciso da Cadmo ai tempi della fondazione di Tebe, è un essere sovrumano. Una creatura di poche parole a cui il vecchio regnante, suo suocero, aveva scelto di non cedere il trono della città. Non sarebbe stato un buon re, un essere simile, per questo Cadmo lo aveva scavalcato investendo tutto sul nipote. Echione non si era contrariato e aveva accettato con piacere il comando dell’esercito. Era nato con la corazza addosso e con la corazza addosso sarebbe morto.
«È incredibile!» dice Penteo, rigirandosi a guardare le donne.
Echione lo affianca senza dire nulla. Guarda giù, impaziente. Sa che a breve riceverà degli ordini ed è pronto ad agire.
Penteo scorge qualcosa sotto di sé, alla base del palazzo. È sua madre Agave, figlia di Cadmo. Esce dal portone principale battendo le mani. Dietro di lei appaiono le sue sorelle, Ino e Autonoe. Il re le osserva a bocca aperta. Hanno i capelli sciolti sulla schiena, i piedi scalzi, le vesti da notte così leggere da far intravedere i corpi nudi. Battono le mani con energia, le loro teste dondolano di qua e di là, pesanti come meloni. Pochi passi e alle loro spalle si apre un ventaglio di donne. Escono dal portone, picchiando i mestoli e i palmi.
Sono le serve della reggia.
Tutte le serve.
«Ma che…?» Penteo osserva con occhi sbarrati la bianca emorragia di ancelle che dal palazzo si sparge per le strade dell’acropoli. Poi, il fragore metallico si ferma. Le tebane si arrestano, mestoli e padelle cadono a terra. Gli uomini si scambiano occhiate guardinghe, i cani continuano ad abbaiare. Qualcuno poggia le mani sulle spalle della moglie, qualcun altro la scuote.
Le donne sembrano essersi trasformate in statue di marmo.
Penteo trattiene il fiato. L’atmosfera è tesa, strana, come se tutta Tebe si stesse preparando a qualcosa di terrificante. Apre la bocca, la richiude.
Non sa...