Le Baccanti
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Nella notte buia un'epidemia di follia si diffonde tra le vie di Tebe. Le donne gridano, si denudano, fuggono dalle case nascondendosi nelle foreste del monte Citerone dove, alla luce della luna, cantano inni barbari e celebrano riti misteriosi. A invasarle è uno straniero col fascino di Afrodite, le vesti in pelliccia di leopardo e il capo coronato d'uva profumata: Dioniso, il Signore del Delirio e dell'Ebbrezza, il più "terribile e dolce tra gli Dei", che nella Città dalle Sette Porte cerca vendetta e adorazione. Ma Penteo, orgoglioso re di Tebe, è intenzionato a riportare l'ordine nel regno e ordina ai suoi soldati d'arrestarlo. Una dichiarazione di guerra che condurrà i due uno di fronte all'altro. E specchiandosi nel figlio di Zeus, il sovrano inizierà a perdere se stesso e le proprie convinzioni, scivolando in una dimensione di dolorosa e crescente follia.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788831661102
Argomento
Histoire

1

Se so­lo aves­se po­tu­to e fos­se sta­to fol­le a suf­fi­cien­za da com­pie­re un si­mi­le af­fron­to, quel­la not­te Pen­teo avreb­be af­fer­ra­to il Dio Hyp­nos per il col­lo e lo avreb­be ob­bli­ga­to a far­gli do­no del più pro­fon­do e ri­ge­ne­ran­te dei ri­po­si. Un son­no dol­ce, ami­co, in gra­do di al­lon­ta­nar­lo, sep­pu­re per po­che ore, dall’op­pri­men­te real­tà che lo cir­con­da­va. Ma l’Ad­dor­men­ta­to­re sem­bra­va aver­lo di­men­ti­ca­to o, peg­gio, sem­bra­va che stes­se igno­ran­do di pro­po­si­to le sue pre­ghie­re, e ciò lo ren­de­va fu­ren­te.
Era il re di Te­be. Co­me po­te­va tol­le­ra­re che i suoi sud­di­ti dor­mis­se­ro bea­ti nei lo­ro gia­ci­gli di pa­glia, men­tre lui, ni­po­te di Cad­mo, fis­sa­va il sof­fit­to con oc­chi in­son­ni? Co­me po­te­va Hyp­nos spar­ge­re il son­no ovun­que tran­ne che sul­la sua po­ve­ra men­te? Non i por­ca­ri, non i mer­can­ti. Lui, Pen­teo, de­ten­to­re del tro­no te­ba­no, ave­va un di­spe­ra­to bi­so­gno di dor­mi­re per­ché sul­le sue spal­le gra­va­va il pe­so di ciò che sta­va ac­ca­den­do nel­la Cit­tà dal­le Set­te Por­te.
Si ri­gi­rò tra le co­per­te tra­sci­nan­do­se­le die­tro. Il fo­co­la­re era ac­ce­so: un ret­tan­go­lo di fuo­co scop­piet­tan­te nel ne­ro del­la ca­me­ra. Con le lu­cer­ne spen­te, il ca­mi­no po­te­va ben po­co con­tro le te­ne­bre del­la not­te, se non spar­ge­re nell’am­bien­te il suo aro­ma di le­gna bru­cia­ta. Il buio co­pri­va ogni det­ta­glio del­la stan­za co­me un te­lo scu­ro, ap­piat­ten­do la sua ric­chez­za: pit­tu­re mu­ra­rie mul­ti­co­lo­ri, tap­pe­ti di la­na per­sia­na, va­si in ce­ra­mi­ca de­co­ra­ta. L’ele­gan­za de­gli ar­re­di s’in­tra­ve­de­va ap­pe­na, co­me se la ca­me­ra stes­sa si fos­se ad­dor­men­ta­ta e aves­se smes­so di ac­ce­ca­re col suo sfar­zo bril­lan­te.
Pen­teo os­ser­vò le lin­gue di fuo­co che s’in­nal­za­va­no dai cep­pi in­can­de­scen­ti den­tro al ca­mi­no, e a po­co a po­co la sua in­vi­dia si spen­se. Sa­pe­va che era im­pos­si­bi­le che i suoi sud­di­ti stes­se­ro dor­men­do. Te­be era si­len­zio­sa, ma il suo era il si­len­zio te­so dell’in­son­nia; il si­len­zio di chi non può dor­mi­re per­ché trop­po spa­ven­ta­to, ar­rab­bia­to, smar­ri­to, e ri­fug­ge il son­no per ti­mo­re de­gli in­cu­bi.
Il re si ti­rò su, al­lun­gò una ma­no ver­so il ta­vo­li­no cir­co­la­re ac­can­to al let­to e af­fer­rò la cop­pa che vi era po­sa­ta so­pra. Bev­ve. L’in­fu­so al­le er­be era an­co­ra tie­pi­do e gli cor­se giù per la go­la in po­chi istan­ti, la­scian­do­gli sul­la lin­gua un re­tro­gu­sto dol­cia­stro. Ro­ve­sciò la te­sta in­die­tro, per far sci­vo­la­re in boc­ca le ul­ti­me goc­ce, quin­di po­sò la cop­pa e si ri­but­tò giù.
Ave­va fat­to fa­ti­ca a chie­de­re a Leon­te, il suo fi­da­to me­di­co, di pre­pa­rar­gli qual­co­sa che lo aiu­tas­se a dor­mi­re. A dir­la tut­ta, si era ver­go­gna­to da mo­ri­re. La man­can­za di son­no, in quel­le cir­co­stan­ze, era un in­di­ca­to­re di an­sia e tut­to de­si­de­ra­va, lui, tran­ne che pas­sa­re per an­sio­so. Ma do­ve­va dor­mi­re, co­sì a vo­ce bas­sa, pri­ma di ri­ti­rar­si in ca­me­ra, ave­va chie­sto l’aiu­to del me­di­co. In fin dei con­ti, non era an­da­ta co­sì ma­le. Il vec­chio ave­va an­nui­to sen­za mo­stra­re al­cu­no stu­po­re – era pur sem­pre l’uo­mo che si era cu­ra­to di ogni suo ma­lan­no, dai tem­pi in cui era an­co­ra un bam­bi­no che si sbuc­cia­va le gi­noc­chia o su­da­va per la feb­bre – e die­ci mi­nu­ti più tar­di gli ave­va in­via­to un ser­vo in ca­me­ra, con una cop­pa fu­man­te tra le ma­ni. Lui ave­va be­vu­to: ca­mo­mil­la, pas­si­flo­ra, ti­glio e chis­sà qua­le al­tra er­ba sco­no­sciu­ta, con una goc­cia di mie­le. Un in­fu­so gra­de­vo­le che, pe­rò, non ave­va sor­ti­to al­cun ef­fet­to. Cer­ti ma­li van­no sop­por­ta­ti fi­no all’ul­ti­ma fit­ta di fa­sti­dio. E ba­sta.
In­ner­vo­si­to, Pen­teo stro­pic­ciò il guan­cia­le e si ri­gi­rò. La lu­ce gri­gia che pe­ne­tra­va dal­la fi­ne­stra sci­vo­lò sul suo vol­to stres­sa­to, crean­do un cu­po gio­co di om­bre.
Era un so­vra­no gio­va­ne, sul­la so­glia del­le ven­ti­tré pri­ma­ve­re, coi ca­pel­li ca­sta­ni e gli oc­chi am­bra­ti e lu­cen­ti co­me quel­li di Echio­ne, suo pa­dre. Por­ta­va il vi­so sbar­ba­to co­me gli atle­ti del­le pa­le­stre. Il na­so era drit­to e lie­ve­men­te cur­vo in pun­ta, ere­di­tà di sua non­na Ar­mo­nia. Il men­to ton­do e lar­go, iden­ti­co a quel­lo di suo non­no Cad­mo. Nel com­ples­so era af­fa­sci­nan­te e ben pro­por­zio­na­to, ma tut­to di lui ema­na­va osti­li­tà e, per quan­to bel­lo fos­se, nes­su­na te­ba­na ave­va mai so­spi­ra­to al suo pas­sag­gio né lo ave­va mai sa­lu­ta­to con gio­ia. E men che me­no sa­reb­be ac­ca­du­to ora.
(Pen­teo)
Il re os­ser­vò il qua­dra­to di cie­lo blu che si sta­glia­va sul­la pa­re­te ne­ra. Ave­va l’im­pres­sio­ne che qual­cu­no, da qual­che par­te, gli stes­se par­lan­do. Una pre­sen­za lon­ta­na, mi­ste­rio­sa. L’en­ne­si­mo scher­zo del­la stan­chez­za. For­se.
Chiu­se gli oc­chi.
(So­no qui)
(La sen­ti la mia po­ten­za?)
Pen­teo in­fi­lò la ma­no sot­to al­le len­zuo­la e sce­se giù, tra le gam­be. Co­min­ciò a toc­car­si. Col­pi a pu­gno chiu­so, dal prin­ci­pio len­ti poi fret­to­lo­si, che gli of­fri­ro­no im­me­dia­to go­di­men­to men­tre coi pen­sie­ri at­tin­ge­va al poz­zo del­le sue in­con­fes­sa­bi­li fan­ta­sie. Ama­va e odia­va per­der­si in quell’at­to, che pri­ma lo sca­ra­ven­ta­va tra le stel­le e do­po lo schiac­cia­va a ter­ra, a fa­re i con­ti con la pro­pria ver­go­gna. De­si­de­ra­va es­se­re un vir­tuo­so, un pu­ro, un il­lu­mi­na­to. Un so­vra­no in gra­do di at­trar­re su di sé gli oc­chi glau­chi del­la sag­gia e ca­sta Ate­na. Ma ora ave­va bi­so­gno di ri­tro­va­re il suo equi­li­brio e di sta­re be­ne, al­me­no per un po’.
(Non re­si­ster­mi)
(Pen­teo)
Il te­ba­no sen­tì il pia­ce­re cre­sce­re e cre­sce­re, un fuo­co che dall’in­gui­ne si pro­pa­gò al ven­tre, al pet­to, al­le guan­ce. Si sfre­gò più ve­lo­ce­men­te, co­me se vo­les­se pu­nir­si, e men­tre si af­fret­ta­va ver­so l’api­ce lo de­si­de­rò dav­ve­ro.
(Ac­cet­ta­mi)
(E an­drà tut­to be­ne)
Pen­teo rag­giun­se l’or­ga­smo, le sue di­ta s’inu­mi­di­ro­no. Emi­se un ge­mi­to e con­ti­nuò a tor­tu­rar­si in pre­da al­le fiam­me, poi il suo pia­ce­re si spen­se. So­spi­rò pe­san­te­men­te, co­me un lot­ta­to­re giun­to al­la fi­ne del­la più ar­dua del­le ga­re, e i suoi oc­chi stre­ma­ti tor­na­ro­no al sof­fit­to. Fu so­lo un mo­men­to, poi si ri­chiu­se­ro, vin­ti dal­la sen­sa­zio­ne di pa­ce che so­lo la vet­ta del go­di­men­to ses­sua­le è in gra­do d’of­fri­re. Ascol­tò il pro­prio re­spi­ro af­fa­ti­ca­to e gli sem­brò di star­si squa­glian­do, di sta­re di­ven­tan­do un tutt’uno con le la­no­se co­per­te e le len­zuo­la umi­de di su­do­re.
Non più un so­vra­no, non più un uo­mo.
So­lo un in­si­gni­fi­can­te nien­te.
In­fi­ne, Hyp­nos ca­lò su di lui e gli sfio­rò la fron­te con le sue so­po­ri­fe­re di­ta. Un toc­co soa­ve, qua­si una ca­rez­za, e Pen­teo co­min­ciò a so­gna­re ciò che era ac­ca­du­to.
Clan­go­re di fer­ro.
Un fra­cas­so me­tal­li­co che squar­cia la not­te e si ri­pe­te ugua­le a se stes­so, as­sor­dan­te co­me mil­le ful­mi­ni sca­glia­ti da Zeus nel me­de­si­mo mo­men­to.
Pen­teo si sve­glia di so­pras­sal­to, i suoi oc­chi scon­vol­ti in­con­tra­no il ne­ro del buio che per­va­de la stan­za. Lo scon­quas­so fer­ro­so gli rim­bom­ba nel­le orec­chie co­me un ter­ri­bi­le in­sul­to. Pro­vie­ne da fuo­ri, dal­la stra­da. Un eser­ci­to ne­mi­co che pic­chia le spa­de con­tro gli scu­di, for­te, sem­pre più for­te. Non può es­se­re al­tro che quel­lo. Tut­ti i ca­ni di Te­be ab­ba­ia­no so­pra al gri­do di quel­le ar­mi.
Il re sca­ra­ven­ta via le co­per­te e si sca­glia fuo­ri dal­la stan­za, lan­cian­do­si nel cor­ri­do­io. I suoi pie­di scal­zi sal­ta­no con fa­sti­dio sul ge­li­do pa­vi­men­to. La ve­ste da not­te, lun­ga fi­no al gi­noc­chio, non rie­sce a pro­teg­ger­lo dal fred­do che aleg­gia nel pa­laz­zo. Scen­de le sca­le che con­du­co­no al pia­no in­fe­rio­re, sen­za sa­pe­re do­ve sta an­dan­do, e gi­ra l’an­go­lo. Ser­vi im­paz­zi­ti gli cor­ro­no in­con­tro e lo som­mer­go­no col lo­ro ter­ro­re.
«Non lo so! Non lo so!» gri­da, pre­ci­pi­tan­do­si nel­la sa­la dei ri­ce­vi­men­ti. Chi­lo­ne, il suo con­si­glie­re, lo as­sa­le. È pal­li­do e i suoi oc­chi so­no enor­mi co­me quel­li di un gu­fo.
«Dov’è mio non­no?» chie­de il so­vra­no e su­bi­to si pen­te di quel­la do­man­da. Spet­ta a lui, e a nes­sun al­tro, ri­sol­ve­re la si­tua­zio­ne.
«In ca­me­ra. Cre­do stia ar­ri­van­do» ri­spon­de il con­si­glie­re. «Mae­stà, co­sa-»
Pen­teo esce dal­la sa­la e si tuf­fa su per i gra­di­ni che con­du­co­no al­le ter­raz­ze. Il pa­laz­zo rea­le è l’edi­fi­cio più al­to di tut­ta l’acro­po­li. Da lì po­trà ve­de­re l’eser­ci­to. Il ge­lo del­la not­te lo ag­gre­di­sce e gli scuo­te la ve­ste. Fa fred­do las­sù, mal­gra­do gli enor­mi bra­cie­ri che ar­do­no agli an­go­li del­la ter­raz­za. Si af­fac­cia. Le sue di­ta si ag­grap­pa­no al­la pie­tra, co­me gli ar­ti­gli di un’aqui­la in­tor­no al cor­po del­la pre­da.
Te­be è de­ser­ta.
Nes­sun eser­ci­to, nes­sun in­va­so­re.
So­lo i tet­ti del­le ca­se, gli usci il­lu­mi­na­ti dal­le tor­ce, le stra­de vuo­te.
Ep­pu­re il ru­mo­re scuo­te an­co­ra l’aria, in­con­fon­di­bi­le fra­cas­so di fer­ro. I ca­ni ab­ba­ia­no e ab­ba­ia­no. Pen­teo non ca­pi­sce. Sta ac­ca­den­do qual­co­sa sot­to a quei tet­ti, e non è qual­co­sa di buo­no.
È sul pun­to di an­dar­se­ne e scen­de­re di sot­to, quan­do la ve­ri­tà si ri­ve­la.
Le por­te del­le ca­se si apro­no, le don­ne esco­no fuo­ri. Reg­go­no tra le ma­ni pa­del­le e me­sto­li di bron­zo, li schian­ta­no gli uni su­gli al­tri. Pen­teo sus­sul­ta stu­pe­fat­to. Le don­ne stan­no fer­me sul­le so­glie, a crea­re fra­cas­so co­me uni­te da un’in­vi­si­bi­le e col­let­ti­va iste­ria. Il re ve­de i ma­ri­ti pre­ci­pi­tar­si fuo­ri, li scor­ge men­tre cer­ca­no di strap­pa­re dal­le lo­ro ma­ni le pen­to­le. Le don­ne li spin­to­na­no, sci­vo­la­no dal­le lo­ro brac­cia co­me tri­glie ap­pe­na pe­sca­te e con­ti­nua­no a pic­chia­re i me­sto­li. Nel­le col­lut­ta­zio­ni al­cu­ni uo­mi­ni ca­do­no a ter­ra, le gri­da si som­ma­no al clan­go­re del bron­zo.
«Che fai? Sei im­paz­zi­ta?»
«Smet­ti­la su­bi­to!»
«Tor­na in ca­sa!»
«Ma co­sa ti suc­ce­de?»
Pen­teo scuo­te la te­sta, in­cre­du­lo di fron­te al­lo spet­ta­co­lo che gli si pa­ra da­van­ti, ap­pe­na ol­tre le mu­ra dell’acro­po­li. Av­ver­te una pre­sen­za al­le spal­le, si vol­ta e ve­de suo pa­dre Echio­ne. In­dos­sa l’ar­ma­tu­ra in­tar­sia­ta da co­man­dan­te del­le guar­die rea­li, l’el­mo ca­la­to sul vol­to co­me di con­sue­to. I suoi oc­chi inu­ma­ni – gli oc­chi del dra­go – so­no ac­ce­si co­me goc­ce di mag­ma. Nel­le te­ne­bre del­la not­te, per un se­con­do Pen­teo lo tro­va ter­ri­fi­can­te. Lui, lo Spar­to, na­to dai den­ti del dra­go uc­ci­so da Cad­mo ai tem­pi del­la fon­da­zio­ne di Te­be, è un es­se­re so­vru­ma­no. Una crea­tu­ra di po­che pa­ro­le a cui il vec­chio re­gnan­te, suo suo­ce­ro, ave­va scel­to di non ce­de­re il tro­no del­la cit­tà. Non sa­reb­be sta­to un buon re, un es­se­re si­mi­le, per que­sto Cad­mo lo ave­va sca­val­ca­to in­ve­sten­do tut­to sul ni­po­te. Echio­ne non si era con­tra­ria­to e ave­va ac­cet­ta­to con pia­ce­re il co­man­do dell’eser­ci­to. Era na­to con la co­raz­za ad­dos­so e con la co­raz­za ad­dos­so sa­reb­be mor­to.
«È in­cre­di­bi­le!» di­ce Pen­teo, ri­gi­ran­do­si a guar­da­re le don­ne.
Echio­ne lo af­fian­ca sen­za di­re nul­la. Guar­da giù, im­pa­zien­te. Sa che a bre­ve ri­ce­ve­rà de­gli or­di­ni ed è pron­to ad agi­re.
Pen­teo scor­ge qual­co­sa sot­to di sé, al­la ba­se del pa­laz­zo. È sua ma­dre Aga­ve, fi­glia di Cad­mo. Esce dal por­to­ne prin­ci­pa­le bat­ten­do le ma­ni. Die­tro di lei ap­pa­io­no le sue so­rel­le, Ino e Au­to­noe. Il re le os­ser­va a boc­ca aper­ta. Han­no i ca­pel­li sciol­ti sul­la schie­na, i pie­di scal­zi, le ve­sti da not­te co­sì leg­ge­re da far in­tra­ve­de­re i cor­pi nu­di. Bat­to­no le ma­ni con ener­gia, le lo­ro te­ste don­do­la­no di qua e di là, pe­san­ti co­me me­lo­ni. Po­chi pas­si e al­le lo­ro spal­le si apre un ven­ta­glio di don­ne. Esco­no dal por­to­ne, pic­chian­do i me­sto­li e i pal­mi.
So­no le ser­ve del­la reg­gia.
Tut­te le ser­ve.
«Ma che…?» Pen­teo os­ser­va con oc­chi sbar­ra­ti la bian­ca emor­ra­gia di an­cel­le che dal pa­laz­zo si spar­ge per le stra­de dell’acro­po­li. Poi, il fra­go­re me­tal­li­co si fer­ma. Le te­ba­ne si ar­re­sta­no, me­sto­li e pa­del­le ca­do­no a ter­ra. Gli uo­mi­ni si scam­bia­no oc­chia­te guar­din­ghe, i ca­ni con­ti­nua­no ad ab­ba­ia­re. Qual­cu­no pog­gia le ma­ni sul­le spal­le del­la mo­glie, qual­cun al­tro la scuo­te.
Le don­ne sem­bra­no es­ser­si tra­sfor­ma­te in sta­tue di mar­mo.
Pen­teo trat­tie­ne il fia­to. L’at­mo­sfe­ra è te­sa, stra­na, co­me se tut­ta Te­be si stes­se pre­pa­ran­do a qual­co­sa di ter­ri­fi­can­te. Apre la boc­ca, la ri­chiu­de.
Non sa...

Indice dei contenuti

  1. INTRODUZIONE
  2. 1
  3. 2
  4. 3
  5. 4
  6. 5
  7. 6
  8. 7
  9. 8
  10. 9
  11. 10
  12. 11
  13. 12
  14. 13
  15. 14
  16. 15
  17. 16
  18. 17
  19. 18
  20. 19
  21. 20
  22. 21
  23. 22
  24. 23
  25. 24
  26. 25
  27. 26
  28. 27
  29. 28
  30. 29
  31. 30
  32. 31
  33. 32
  34. 33
  35. 34
  36. 35
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  40. L’AUTRICE