PARTE SECONDA
Racconti brevi
Racconto fantastico
(Ashira, la fata turchina)
I
A seguito di una catastrofica collusione della cometa Aster con il nostro pianeta una piccola parte della Terra di circa diecimila chilometri quadrati era stata, in un baleno, scaraventata nello spazio formando un ulteriore satellite dell’astro marziano.
Il fenomeno aveva avuto un impatto incredibile: quella porzione terrestre si era assestata nell’universo unitamente alla sua popolazione senza subire alcuna frammentazione né perdite umane. L’unico neo era costituito dal fatto che persone singole e famiglie avevano perso cognizione del tempo e non ricordavano chi fossero né da dove provenissero; pertanto avevano assunto nel vivere quotidiano forme e condizioni di vita di secoli e secoli addietro.
Il satellite era munito di una superficie indurita ed era a forma ovale con due poli come la madre Terra. Non c’erano distese di mare. Esistevano, però, monti e colline le cui cime, nel periodo invernale, si cingevano di neve. La neve a primavera si scioglieva e le conseguenti acque riversandosi giù per le valli davano luogo a fiumi e torrenti che sfociavano in numerosi laghi.
Ai piedi di una montagna, col passare degli anni, era sorto un regno dalle apparenze antiche che si chiamava Delaisten, governato da un sovrano dispotico e crudele dal nome Huster. Aveva, costui, gusti e abitudini terribili e si attorniava di consiglieri altrettanto malvagi. In vent’anni di trono aveva mandato a morte migliaia di persone. La sua condotta malvagia incuteva tanta paura: tanto che nessuno si era mai lamentato cosicché il reame appariva felice e sereno. Immune da qualsiasi turbolenza. I soprusi e le svariate prevaricazioni del tremendo Huster sui sudditi e malcapitati ospiti erano del tutto sconosciuti all’esterno del castello.
I suoi sudditi, subivano disumane umiliazioni ed erano sottoposti a lavori duri svolti in condizioni impietose, dall’alba al tramonto. Mai un popolo aveva vissuto in siffatta schiavitù e totale dipendenza di una tirannia così feroce.
Un giorno Huster, per dirne una delle sue prepotenze, ordinò la carcerazione del giovane Amir che dapprima aveva soccorso un poveraccio che era cascato a terra, stremato dal lavoro, e poi si era ribellato alle assurde richieste della guardia che controllava il campo di lavoro. Huster non diede alcuna possibilità ad Amir affinché potesse discolparsi. Prese per vangelo ciò che gli aveva riferito, a suo modo, il custode dei suoi ordini e dopo un processo ingiusto e sommario condannò il povero giovane a morte, previo tre anni di lavori forzati e dure frustate alla fine di ogni giornata di detenzione.
Fu un miracolo che permise ad Amir a sopravvivere alle torture a cui era stato sottoposto, per poi attendere il patibolo che avrebbe posto fine alle sue sofferenze.
Si avvicinava il giorno dell’esecuzione e la famiglia del giovane sventurato era desolata poiché non sapeva come salvare il ragazzo destinato alla morte cruenta, tramite impiccagione. Il padre, quasi centenario ma ancora cosciente, si struggeva dal fatto che nulla poteva salvare il figlio. Si era rifugiato nel totale silenzio e attraverso profonde meditazioni bramava un segno dal Cielo.
A dieci miglia dal castello, c’era un folto bosco popolato da uccelli cantarini e corposi bisonti che nessuno aveva mai tentato di cacciare. Era considerato un luogo pericoloso; né il terribile Huster né i suoi intrepidi guerrieri si erano mai avventurati in quel pezzo di terreno. Qualcuno che imprudentemente aveva osato addentrarsi in quella boscaglia non era mai uscito ed era stato ritenuto ammazzato da qualche spirito maligno. C’erano altre praterie che i soldati praticavano sia per procacciarsi la cacciagione sia per cimentarsi in spericolate gare per ostentare forza e coraggio.
Qui, viveva una fata con il suo cavallo alato, dal manto bianco e dal nome Celeste. Ogni mattina, al sorgere del sole, il cavallo emergeva dalla foresta, ispezionando ogni angolo del circondario. Sul suo dorso spiccava una fanciulla bellissima di nome Ashira. Sorvolavano il mondo sottostante, talvolta a bassa quota quasi toccando le cime degli alberi o le teste dei passanti sull’immensa radura. Nessuno poteva vederli. La bacchetta magica della fata rendeva invisibile anche il cavallo. Lei era sempre incorporea, salve in rarissime occasioni quando si trovava al cospetto di un’anima pura. La fata, nella sua maestosa e incantevole dimora era coadiuvata da altre fanciulle che si erano distinte nella vita per qualità umane eccezionali. Fuori dal bosco, erano soltanto lei e Celeste, il cavallo alato, a cimentarsi tra le bianche nuvole e l’azzurro del cielo.
Lo scopo era di soccorrere qualsiasi umano che si trovasse in difficoltà. Oppure un animale in pericolo a causa di un atroce predatore.
Erano trascorsi secoli dall’ultimo intervento della fata Ashira quando aiutò un guerriero a riconquistare il suo regno da uno spietato usurpatore. Benin, il principe spodestato, aveva perso il regno dopo l’uccisione del padre e dei suoi fedelissimi quando egli era ancora bambino. Era stato allevato da una famiglia di pastorelli che avevano ben nascosto la sua identità per sottrarlo al furore del sopraffattore.
Ashira, col suo cavallo alato, pur conoscendo la triste vicenda attese che Benin divenisse adulto prima di intervenire e restituirgli il trono.
Per lungo tempo era rimasta inattiva. Dopo quell’intervento, tutto era trascorso in costante serenità. Erano passati due secoli e non si era manifestata un’occasione di simile azione; oppure le era sfuggito qualche dettaglio di recente.
II
Il cavallo alato, durante una sua galoppata solitaria, tanto per sgranchirsi le gambe, notò una persona dai capelli grigi e una barba bianca che piangeva accanto alla fonte, all’imbocco della foresta.
«Perché piangi?» il cavallo gli chiese dopo aver atterrato a fianco dell’anziano disperato.
Il vecchio gli raccontò la triste storia del figlio e dell’imminente esecuzione capitale. Il cavallo lo rasserenerò e gli promise che l’avrebbe aiutato ma non gli svelò come.
Thomas, il venerando vecchietto, rimase stupito da tale rassicurazione. Non riuscì a immaginare come il cavallo avrebbe potuto risolvergli il problema ma confidò in tale promessa. Quando tornò a casa raccontò all’intera famiglia che restò incredula pur sperando nel miracolo.
Ashira, la bella fata, dopo aver ascoltato ciò che era capitato al suo cavallo si impietosì e rivolta al purosangue disse: «Hai fatto bene a fare tale promessa. Salveremo il giovane Amir e lo restituiremo alla famiglia».
Il castello si erigeva al centro di un lago e si accedeva attraverso ponti levatoi i quali erano ben custoditi da guardie davanti all’entrata e da sentinelle in cima alla torre. Il cavallo con le sue larghe ali faceva al caso. La fata in groppa allo stallone sorvolò la torre e avendo individuato il sotterraneo dove giaceva Amir scese dal cavallo e si diresse verso la cella dove il prigioniero era rinchiuso. Nessuno poté vedere la fata poiché era avvolta in un velo turchino che la rendeva invisibile. Le sentinelle sulla torre erano state sbalordite dalla vista del cavallo che svolazzava nell’aria celeste e, avvinti dalla paura, erano scappati per nascondersi. Amir, intanto, fu tratto dalla cella che si era spalancata al tocco magico della fata e balzò in groppa al cavallo insieme ad Ashira.
La famiglia riunita fu condotta lontana in un remoto villaggio dove potettero vivere al sicuro, felici e contenti.
Amir sposò la figlia del capo del villaggio e diede ulteriore sicurezza alla sua famiglia.
«Erano passati anni e anni da quando avevo compiuto un gesto così bello» disse la fata al cavallo il quale con cenni del capo annuì all’osservazione della sua padrona.
FINE
Un Reame d’altri tempi
I
C’era una volta nell’antichissimo Egitto (millenni prima della dinastia faraonica) su una smisurata rupe, un castello a forma di piramide in cima al quale si elevava una stella sfavillante che dava luce a tutto il sottostante circondario.
Il castello doveva essere di circa sei piani, di cui l’ultimo era inabitabile perché terminava a guglia, mentre ciascuno degli altri era abitato da gentiluomini e dame che avevano giurato eterna fedeltà al principe regnante. Al penultimo piano dimorava lo stesso padrone con tre cavalieri dalle sembianze tetre e selvagge nonché la servitù più fidata. Al quarto si organizzavano feste e balli a cui partecipavano soltanto sudditi altolocati e blasonati sia per diritti ereditari sia per aver compiuto gesta e imprese lodate e apprezzate dallo stesso principe il quale governava con poteri assoluti e incondizionati; infatti si limitava ad ascoltare pareri e proposte dei suoi consiglieri ma era sempre e solo lui a prendere le decisioni finali… e nessuno osava minimamente contrastarlo.
Il principe era un essere crudele e i suoi ordini erano per lo più iniqui, bestiali e terrificanti. Copriva la propria faccia con una maschera e non aveva mai mostrato il volto nemmeno a Orso, un guerriero impavido e devoto, che era la sua guardia del corpo sia di giorno che di notte. Orso era il custode della vita e il diretto esecutore dei tremendi editti emanati dall’assoluto sovrano. Si avvaleva di una guarnigione formata da cento uomini ben armati, imperterriti e feroci quanto lui medesimo.
II
In tutti gli uffici, abitazioni, ristori e altri luoghi pubblici e privati era ostentata una bella ed espansiva immagine del principe che in realtà non era mai apparso al popolo. E i sudditi più accreditati avevano diffuso tra la gente comune la bontà e l’affetto che il loro signore nutriva per la sua gente. La realtà era ben diversa e nessuno osava mettere in discussione l’irreprensibilità del principe per timore di una rivalsa più dura dell’ingiustizia eventualmente subita.
Infatti un giorno un contadino mentre raccoglieva l’uva nel fondo, avendo sia fame che sete, ingurgitò alcuni spicchi di un grappolo appena strappato dalla pendente e feconda vite.
Apriti cielo! Subì cinquanta frustate con il conseguente risultato di rincasare a sera col dorso mezzo lacerato.
«Niente sono caduto» rispose l’agricoltore, rispondendo alla moglie che l’aveva visto conciato così brutalmente. Era impossibile procurarsi tali ferite con una caduta ma era l’unica giustificazione, seppur incredibile, che aveva trovato in quel momento. La moglie intese cosa fosse successo ed ella stessa comprese che fosse meglio non parlarne. Servì la parca cena arrestando penosamente le lacrime.
«Eppure si dice in giro che il principe sia una brava persona» pensò la poveretta, ormai anch’ella rassegnata.
III
Era una domenica di dicembre e la gente si preparava a recarsi al Tempio per onorare gli Dei sotto la guida del sommo Sacerdote, attorniato da una schiera di seguaci vestiti di bianco. Il sommo sacerdote, invece, indossava una tunica rossa e calzava scarpe colorate. Era costui cugino dello stesso principe e costituiva il capo supremo dell’ordine religioso.
Durante la cerimonia, un fedele tossì non riuscendo a trattenere un mugolio alla gola causato dall’acre odore dei ceri. Nessuno si voltò poiché le regole esigevano che, per nessuna logica o altro seppur ragionevole motivo, si potesse interrompere la liturgia né distrarre i fedeli in preghiera.
Ebbene! Due guardie si accostarono alla persona che aveva osato guaire e lo trasportarono silenziosamente in una tenebrosa stanzetta lontano dal centro di raccolta. La poveretta, era una donna sulla cinquantina così malridotta dagli stenti che sembrava un’ottuagenaria, fu denudata e sferzata quasi a morte. Si udirono i colpi della frusta ma nessuno osò commentare né pensare altro.
Almeno così si credette. Poiché la penosa e sconsolata scena, sebbene nella mera immaginazione, provocò un effetto sconvolgente nel nipote il quale decise di zittire ma stava rimuginando una protesta.
Era costui un giovane mugnaio ...