L’OMBRA DELLA MORTE
«Amico? Carpegna? Di che cosa stai parlando? Tu chi sei piccoletto? Sei forse un Goblin come loro?», mi chiede con arroganza.
«Che cosa stai dicendo? Non sai riconoscere o non hai mai visto una persona? Posso sapere da dove diavolo vieni?».
«Ora ricordo, sei un umano. Molto bene, per questa sera abbiamo risolto il problema», dice sogghignando.
“Chissà di che cosa sta parlando, e quali sono le sue intenzioni. Mi piace poco quel ghigno”, mormoro. Mi squadra dalla testa ai piedi ancora un istante, poi si rivolge a quei piccoli esseri.
«Questa sera voglio accontentarvi, potrete mangiare in abbondanza: eccovi la vostra cena», dice indicandomi.
Non faccio in tempo neanche a rendermi conto di quello che sta accadendo che mi prende una fitta dolorosa sullo stomaco: un grido di dolore, e un’imprecazione maledicendo la mia boccaccia. “Stupido che non sono, dovevo dirgli che sono un umano? Questi li mangiano”.
«Ragioniamo un attimo», dico loro cercando di prendere tempo per escogitare una via d’uscita dalla già precaria situazione che mi sono venuto a creare involontariamente.
«Che cosa ci proponi», mi risponde uno di loro. «Davvero credevi di poterci sfuggire, solo perché è notte. Anche noi siamo abituati al tipo di vita che stai conducendo tu. Il buio non ci fa nessuna paura, e come vedi, abbiamo aspettato il momento propizio. Ulula ora se ti riesce, così facciamo fuori anche loro».
Finalmente riesco ad aprire gli occhi, e a vedere la realtà. Mi trovo ancora sotto il grosso albero, dove mi ero disteso per ripararmi dalla guazza della notte, solo che mi hanno legato come un salame. La voce non è più quella di prima, né di un Troll, né di un Goblin, che è stridula e squittente, direi quasi animalesca, ma piuttosto di una persona. Infatti, di fronte a me tre individui di età compresa fra i trenta e i quarant’anni, mi stanno osservando pronti a farmi la pelle senza tanti tentennamenti. Il dolore al petto non è dovuto alle solite nevralgie ma al coltello serramanico che uno di loro stava cercando di conficcarmi dentro per uccidermi. Qualche goccia di sangue comincia timidamente a uscire. Il dolore è abbastanza sopportabile, ma il mio pensiero ricorre altrove: che cosa ne sarà di Eva, di Speranza e Luigino, ormai per me non c’è via di scampo, è giunta la fine. Chissà, forse se avessi chiamato il branco, ora non mi troverei in quest'assurda situazione, ma prima o dopo doveva accadere. Sono stanco. Spero che tutto finisca in fretta.
«Aspetta Giacomo, lascialo parlare, sono curioso di sentire che cosa ci vuol dire».
«Vorrei solo sapere il perché di questo vostro accanimento nei miei confronti. Sapete benissimo che la morte non mi fa paura, ma la curiosità è tanta».
«Ti sei forse dimenticato di Giacomo Coccia e di suo figlio Giorgio? Non sei stato tu a farli sbranare dai lupi? Noi abbiamo l’ordine di vendicarne la morte. Non ce lo abbiamo con te. Ci dispiace, in fondo non rappresenti un problema. Per noi è solo un lavoro, credimi, se potessimo…».
Non finisce la frase che dei ruggiti spaventosi rimbombano nel bosco spaventandoci. Due mostri, di razza indefinibile, avvolti da una luce abbagliante: pelliccia folta e scura. Alti e grossi il doppio di un gorilla. Un corno bianco e affilato nel centro dell’enorme testa da dove parte il naso che va finire sopra l’enorme bocca. Denti lunghi e aguzzi. Due occhi piccolissimi sotto le lunghe e appuntite orecchie. Hanno quattro zampe con affilati artigli, ma camminano eretti su quelle posteriori. Ormai sono a pochi metri da noi e si avvicinano minacciosi. “Che strano”, penso, “com’è possibile certi animali da queste parti, che io sappia solo la fantasia può crearli. Forse non è destino che muoia questa notte”. Un susseguirsi di colpi d’arma da fuoco non riescono a fermarli, sembra che non li scalfiscano. Un fuggi fuggi, e una concitazione generale.
«Luigi, dobbiamo scappare, come facciamo con quello? Hai telefonato al capo che l’avevamo preso».
«Ti pare il momento di porsi certe domande? Se ti vuoi fermare per ucciderlo fallo pure. Torna indietro, io me la batto. Avremo modo di riprenderlo, ma sono sicuro che non sarà necessario, ci penseranno loro a farlo fuori. Ti perdi sempre in un bicchier d’acqua, Giacomo».
«Sai com’è! A volte è preferibile vedersela con bestie feroci che con certe persone», gli risponde piuttosto angosciato pensando alla reazione dal boss.
«Tu riesci comunque a cavartela ogni volta ma Giuseppe ed io siamo costantemente soggetti alle sue sfuriate».
«Beh! Allora veditela tu con quei due mostri, se ti fa piacere. Io me la batto. Credo sia meglio riparlarne dopo, adesso sbrigatevi, non è tempo di commenti o riflessioni. Il prigioniero sicuramente lo possiamo considerare morto».
“Già! Lo penso anch’io, ma non sono del tutto convinto che abbia ragione. Almeno non mi avessero legato mani e piedi così stretto, proverei a scappare, ma se fossero veri non credo me ne darebbero il tempo”, accidenti a loro. Le due bestie si avvicinano fin quasi a sfiorarmi, poi spariscono come risucchiati dalla nebbia che sta scendendo piano piano sul bosco, mentre io emetto un lungo respiro rilassante. Improvvisamente una figura maschile, poco visibile, quasi illusoria, mi scruta con un sorriso piuttosto enigmatico dicendomi:
«Non capisco perché mio fratello abbia voluto che ti salvassi. Voi miseri mortali e le vostre raccomandazioni».
«Tu chi sei? Di che cosa stai parlando. Ti ringrazio ma…scusa potresti spiegarmi che cosa sta accadendo?».
«Sono quello che gli dei chiamo “Icelo”, conosciuto da voi uomini come Fobetore, fratello di Morfeo e Fantaso. Quei due mostri li ho creati io, sono solo ombre».
«Vuoi dire che si sono rivolti a te perché accorressi in mio aiuto?».
«Non fingere di non sapere. Titania, la regina delle fate e Oberon il re dei folletti si sono raccomandati a Mio fratello, e lui a me, e come vedi ho provveduto. Ora posso andarmene, ma ricordati che la prossima volta dovrai cavartela da solo».
«Com’è possibile? Vuoi dire che accadrà ancora? Sai dirmi come finirà? No! Forse è meglio non sapere».
Non risponde, così in silenzio com’è arrivato, sparisce: ombra nel buio della notte. “Lo so che ci riproveranno appena sapranno che sono ancora vivo”, mormoro sottovoce per paura che ci sia ancora qualcuno nei paraggi ad ascoltarmi. Quando certe situazioni sono difficili da gestire, ci si lascia prendere dall’ansia, dall’angoscia, e possono generare paure sproporzionate, estreme, e diventare fobie invalidanti. Penso sia meglio che provi a scuotermi un po’, altrimenti non sarà solo la mia vita in pericolo, ma anche quella dei miei cari. D’ora in avanti non uscirò più solo di notte, e tutte le mie paure con la loro presenza spariranno.
È mattina inoltrata; quattro persone stanno parlando animatamente, e almeno uno di loro è piuttosto contrariato.
«Capo deve crederci, sono apparsi all’improvviso due enormi creature, alte quasi quattro metri, orrende. Gli abbiamo sparato diversi colpi di fucile e di pistola, ma niente. Che cosa potevamo fare se non scappare. Ormai quello sarà morto».
«Ma certo, magari volavano anche, vero? Quante volte ve l’ho detto che non dovete bere durante il lavoro. Capisco, forse era freddo, e un sorso alla volta vi sarete scolati una bottiglia di cognac. Davvero credete di prendermi in giro? Mostri? Siete degli emeriti imbecilli. Non venitemi a raccontare storielle. L’avevate preso, sì o no? Bastava un colpo di pistola in testa ed era finita. No! Arrivano belli belli, raccontandomi una storiella come si fa con i bambini. Siete degli incapaci. Se il buio vi fa paura, dovevate dirmelo cacasotto. Se dovesse accadere di nuovo una cosa del genere, vi ammazzo tutti e tre. E ora sparite prima che ci ripensi», risponde loro minacciandoli con la pistola in pugno.
«Hai sentito Luigi, te lo avevamo detto che non ci avrebbe creduti. Se fosse ancora vivo e riuscissimo a riprenderlo glielo porto ben impacchettato per farglielo dire da lui. Non voglio che ci prenda per dei visionari. È vero che abbiamo bevuto, ma non credo che tutti e tre fossimo ubriachi. Certo una bottiglia l’abbiamo finita di bere, ma…».
«Ma cosa? Non so cosa dirvi, e sì che li ho visti anch’io. Non possiamo averli solo sognati. Forse ha ragione il capo». Io intanto…
«Musetto dove sei finito? Ho bisogno di te, svelto! Si può sapere perché sei scappato? Immagino te la sia filata prima che arrivassero i tre mafiosi. Avresti potuto svegliarmi invece di lasciarmi prendere a botte in testa». Oddio! Adesso mi metto a parlare anche con il ghiro. Saranno gli scherzi che mi procurano certe paure. Beh! Speriamo che capisca e rosicchi queste maledette corde che mi stanno bloccando anche la circolazione del sangue. Nel frattempo sono riuscito a portare le braccia sul davanti e mostrargliele. «Dai mordi la corda, svelto. Non vorrei che quelli tornassero o si fossero nascosti nelle vicinanze. Così bravo, dai... dai…finalmente! Adesso alle gambe ci penso io».
LA PASSERELLA
Il mio ululato si espande fin giù nella piana, è una richiesta d’aiuto. La risposta non si fa attendere. Appena arrivano, decido di partire, ma prima faccio una telefonata.
«Pronto Eva, mi senti? Esci di casa un attimo per favore».
«Va bene, sono fuori, ma non capisco. Che cosa succede?».
«Verso mezzogiorno sarò da te, non posso dirti altro, ciao».
Mi massaggio bene gambe e braccia e mi avvio. Faccio molta fatica a camminare. Niente che appoggio il piede, le gambe si piegano, sembra che non mi reggano più. Cominciano a formicolare di nuovo, poi lentamente si attenua, così finalmente riesco a mettermi in cammino seguito dal branco. Arrivo nei pressi della passerella verso le undici. È davvero una giornata calda. Luglio è appena iniziato e l’afa è tornata farsi sentire. Mi fermo un attimo e mi asciugo la fronte. Ancora pochi metri e finalmente ci siamo. Sono davvero stanco, dopo tutto quello che ho passato, fare ancora quasi tre ore di cammino, in mezzo al bosco, non è semplice come parlarne.
«Forza Stella, dai Luna, ancora una cinquantina di metri e siamo arrivati, così potrete riposarvi anche voi».
Passano dieci minuti, ma la passerella non si vede. “Forse ho sbagliato stradino, devo tornare indietro”, dico fra me e me.
«Avanti amici, eccola là a pochi passi da noi».
Improvvisamente sembra essersi spostata più a valle di qualche metro. È possibile che non me ne sia accorto prima, e magari ho sbagliato di nuovo a imboccare il sentiero. Torno indietro, e finalmente me lo trovo davanti. Faccio un passo per salire sulla passerella, ma non c’è più, si è nuovamente spostata verso l’alto.
“E no, questa volta non ci casco”, farfuglio nervosamente.
«Oberon vieni fuori! Che cosa ti prende? Ho passato un sacco di guai nelle ultime ore, e non ho nessuna voglia di scherzare».
Finisco appena di parlare che sento la sua voce alle mie spalle.
«Sei diventato anche permaloso adesso? Se non fosse stato per me, ora non saresti qui, lo sai vero?» mi risponde con tono sarcastico.
...