Fotografia, immagine e social network al tempo delle nevrosi collettive
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Fotografia, immagine e social network al tempo delle nevrosi collettive

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Fotografia, immagine e social network al tempo delle nevrosi collettive

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La fotografia proietta sempre il nostro sistema di preferenze e il nostro stesso apparato psichico. Il libro descrive il ruolo svolto dalla fotografia dal suo esordio nel 1826 e fino ai nostri giorni, alla fotografia digitale e ai social media, anch'essi straordinari contenitori di facce e pulsioni del nostro tempo. Il libro affronta poi il tema della fototerapia, dell'utilizzo delle immagini e del cinema nel contesto di una relazione d'aiuto e le degenerazioni narcisistiche che la società tecnologica alimenta attraverso il ricorso sempre più ossessivo al web. Le pagine di questo libro sono un atto d'amore verso la fotografia umanistica e verso il rappresentato e le sue manifestazioni: il segno, il disegno, la scrittura, l'immagine, il tatuaggio, i social media, fanno parte dei bisogni espressivi del genere umano. Di un dentro che viene portato fuori. Infine l'autore mette in guardia dai pericoli nascosti nella dittatura tecnologica e nel web e richiama la necessità di una nuova etica nella tecnologia anche in riferimento alle minacce sempre più gravi alla nostra privacy. La fotografia è sempre un guardarsi allo specchio; dentro quello specchio l'autore osserva le nevrosi della nostra epoca e la solitudine sociale del nostro tempo.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788831672610
Argomento
Arte
Categoria
Fotografía

1. Quante cose possono svelare le fotografie

 
 
La vecchia fotografia della copertina è stata scelta perché è una fotografia piena di potenti fascinazioni non immediatamente rivelate, mentre ad un primo esame sembrava una immagine normale, un normale e anonimo ritratto di famiglia, inizialmente scelto proprio allo scopo di metterne in evidenza gli aspetti più importanti. La foto in realtà presenta due dimensioni nella stessa immagine e una delle due dimensioni è incentrata su una rivelazione che cambia completamente il senso della fotografia, una volta appurata la sua vera origine. Ho anche avvertito il peso di aver riportato alla luce le persone che vi sono ritratte, probabilmente scomparse da tempo e anche questo fa parte dei potenti agiti della fotografia. Ho “incontrato” questa foto sul web mentre ero alla ricerca di una vecchia foto di inizi Novecento da usare per la copertina di questo libro, allo scopo di darne una interpretazione didattica, perché in una foto sconosciuta ognuno di noi può proiettare la sua personale e anche immaginifica interpretazione. Di seguito ciò che avevo scritto, quando della foto non sapevo nulla, limitandomi a descrivere in base alla mia personale sensibilità quanto in essa era rappresentato: sono nove le persone ritratte, quattro maschi e cinque femmine, quattro adulti e cinque giovani. La fotografia sembra scattata di giorno a ridosso di un portone. Sullo sfondo e ai lati si intravedono delle piante ornamentali, forse una scala di legno. A terra si nota un tappeto. Ciò vuol dire che potrebbe anche trattarsi di uno spazio interno o di un porticato. Se dovessimo datarla il 1920-1922 potrebbe essere più o meno il tempo in cui è stata scattata. Si nota infatti che le donne più giovani esibiscono la foggia dei capelli alla “maschietta” che appunto nasceva negli Stati Uniti intorno al 1920 insieme al jazz. Quella ritratta sembra una famiglia benestante. Potremmo essere in Italia, probabilmente in Europa. Tutti sono vestiti con agiato decoro anche se manca un tratto di spavalda ostentazione tranne nel ragazzo in piedi. Emerge, soprattutto nelle persone adulte ritratte, una rigorosa sobrietà che lascerebbe intendere l’appartenenza ad una media borghesia delle professioni o del commercio. Ci sono due figure centrali sedute che sono anche le figure guida del gruppo. La loro posizione focale è chiaramente riconosciuta da tutto il gruppo che funge da corona. La donna è sicuramente la figura centrale per eccellenza, tanto la sua posizione è centralmente definita. Ha occupato la scena e il suo sguardo fermo pervade tutto lo spazio. Intorno a lei è disposto l’intero asse familiare. Alla sua destra c’è la seconda figura guida. Potrebbe essere il marito. E’ però collocato in modo più periferico rispetto ad essa. Anche il suo sguardo è fermo e indulgente. Da buon padre di famiglia. Ai lati delle due figure guida centrali ci sono due ragazzi di circa 15-18 anni. Un maschio e una femmina. La ragazza è vestita con eleganza e sobrietà, palesa una certa plasticità. Quasi isolata rispetto agli altri, da sembrare un quadro di Degas. Ha la gamba destra accavallata sulla sinistra. Le braccia incrociate l’una sull’altra in segno di chiusura. Sembra indossare un bracciale e porta scarpe con i tacchi. Al suo opposto c’è un giovane molto elegante, che esibisce questa eleganza quasi con sfrontatezza e con forza cattura la scena di chi osserva la fotografia. Con un profilo di personalità completamente diverso, intraprende una sorta di tacito duello con la ragazza vestita di bianco seduta al suo opposto. Appoggia il braccio sulla spalla della figura guida maschile che potrebbe essere il nonno, ma anche il padre. Nella familiarità del gesto è come se volesse invadere uno spazio e relativo ruolo di potere nella scala gerarchica familiare o che comunque si candidi a farlo. Rilevo che è anche l’unica figura del gruppo a non essere simmetrica rispetto al punto di scatto della fotografia. Che cosa indica questo particolare? Vi è sicuramente un problema di spazio, ma di sicuro questo giovane riconosce la forza del gruppo familiare e la rispetta, nel senso che una parte del suo corpo pur attento alla fotografia imminente si divide tra fotografo [obiettivo fotografico], e gruppo familiare verso il quale anche è proteso [obiettivo sociale]. Il fatto che si rivolga con il corpo a tutte le persone che vi sono accanto è una evidente forma di attenzione verso il contesto che lo circonda. Al contrario la ragazza seduta al suo opposto ha un portamento quasi distaccato. Lascia molto spazio rispetto alla donna che ha accanto, che ragionevolmente potrebbe essere la nonna o la madre. E’ come se volesse marcare una distanza rispetto al gruppo. Anche il suo candore bianco la caratterizza. La grande grazia la eleva a foto nella foto. Per un attimo isolatela dal contesto, tracciate sulla sua figura una foto immaginaria, un ritratto, e vedrete la potenza che emana. Il suo estraniarsi “pesa” nella foto quasi quanto il pavoneggiarsi del ragazzo in piedi. Davanti al gruppo ci sono due ragazzi. Uno giovanissimo di poco più di dieci anni e una ragazza di diversi anni più grande. Il ragazzo ha i pantaloni corti e le gambe incrociate, ha uno sguardo pieno di fiducia sul futuro. Lo dimostrano anche le braccia che mantiene aperte e appoggiate alle gambe. La ragazza veste con eleganza ricercata, è seduta in terra con le gambe raccolte da un lato. Anche lei indossa un bracciale. In fondo al gruppo ci sono le tre figure più arretrate della foto; come mai si sono collocate ai margini della scena? Sono un uomo di circa 45 anni e due donne di età diversa. Una di 45 anni circa e l’altra di circa 25 anni. Quali sono i rapporti tra queste nove persone? Quali sono i gradi di parentela? Che professione svolgevano o svolgeranno da adulti? C’è qualcosa di evidente e qualcosa di non detto che si può evincere dalla foto? Chi può averla scattata? In quale occasione? I personaggi che l’hanno animata si sono preparati per scattarla oppure la circostanza si è presentata in modo casuale? E dove si trova il posto in cui è stata scattata? In quale paese? Siamo in Italia o all’estero? Chissà quel giorno cosa era successo accanto a loro e lontano da loro e come le vite di quelle persone fotografate erano state toccate dagli eventi. Chissà se era un giorno speciale. Se la famiglia si era riunita per un’occasione particolare. Probabilmente ci sono due coppie genitoriali. La prima è quella centrale che abbiamo definito di figure guida. Poi le due persone più grandi poste nell’ultima fila. In particolare l’uomo ultimo a destra e la sua corrispettiva ultima a sinistra che potrebbe essere la moglie e contemporaneamente figlia delle due figure guida con le quali si rileva una certa somiglianza. Quella al centro tra loro due potrebbe essere una figlia più grande [apparente età 25 anni], o anche una sorella della donna a fianco. Potrebbe però anche essere una “intrusa”; una ragazza che si è trovata per caso sulla scena e vi è stata compresa. Ci sono altri intrusi? I quattro ragazzi più giovani molto probabilmente sono fratelli. Tra le nove persone presenti nel ritratto di famiglia l’unico contatto fisico [esigenza di marcare una vicinanza che non è solo fisica, ma anche emozionale], è quello tra il ragazzo in piedi e la figura guida maschile. Tra tutte le altre persone non viene stabilito alcun contatto fisico. Tutte le figure femminili portano gioielli o monili, tranne le due donne più grandi almeno nella parte visibile. Le mani dell’uomo più anziano sono mani curate di chi fa un lavoro di intelletto. Ha le braccia in posizione aperta, tipica di chi possiede forza di carattere e sicurezza di sé. Abbiamo già detto moltissime cose, magari sfuggite a una prima lettura della foto, perché spesso guardiamo una foto senza riflettere su ciò che racconta, guardando solo al suo insieme e non ai mille dettagli significati e significanti che contiene. Inizialmente mi sono chiesto che vita hanno avuto i protagonisti della foto. Se sono stati felici. Se vi è stato qualcuno che doveva essere presente nella fotografia e invece ha preferito non esserci. Mi sono affezionato a questa foto che trovo di fortissimo potere evocativo, per come descrive con magnifica plasticità un momento, collocato dentro un’epoca che poi doveva rivelarsi grandiosa e terribile. Ognuno di loro con la propria umanità, le proprie aspettative, i suoi sogni di essere umano, il suo sistema di relazioni, il contesto geopolitico che fluisce intorno. Le persone più grandi hanno nel volto descritto il disincanto; i più giovani invece hanno nello sguardo l’ardire della sfida che li attende. Chissà che strade percorreranno, cosa diventeranno, quali relazioni saranno capaci di costruire e se incontreranno la felicità e il dolore. Il ragazzo in piedi sarà aiutato dalla sua vanesia spregiudicatezza oppure ne resterà vittima? La fiducia palesata dallo sguardo del ragazzo seduto a terra, sarà contraccambiata? Qualcuno di loro perderà prematuramente la vita durante le guerre che negli anni successivi insanguineranno il mondo? Le ragazze si sposeranno e avranno figli? Per qualcuno di loro si spalancheranno le soglie della notorietà e della fama? Oppure, prefigurando un radicale cambio di scena, potrebbe essere che le due figure guida sono i genitori di tutti gli altri protagonisti della foto, cosa affatto singolare per quel tempo? A nessuna di queste domande possiamo rispondere con ragionevole certezza, ma potremmo provare a immaginare quale può essere stata la realtà e lo scorrere delle loro effettive esistenze, anche rispetto al non detto o al sottaciuto. Quella che precede è la lettura di partenza che avevo effettuato della fotografia di copertina, scritta di getto non appena l’avevo trovata sul web, che pure faceva emergere molte componenti interessanti anche in ordine ad uno dei temi di questo libro che è appunto quello dell’utilizzo delle fotografie nell’ambito di una relazione d’aiuto. Prima di procedere alla stampa del libro ho però cercato di capire meglio quale origine la foto avesse e quale fosse la sua effettiva genesi. Ciò che è emerso la rende ancor di più interessante, proprio ai fini di questo lavoro. Perché questa foto possiede un'altra dimensione [quella autentica], che ne svela il diverso archetipo e contiene un potere evocativo fuori dal comune che la eleva a testimonianza, direi quasi a icona [la sua protagonista è la prima icona pop del Novecento, molto prima di Andy Wharol]. Un suo elemento dominante è infatti altro rispetto a quello che sembra [cosa che accade a larga parte del genere umano]. Il ragazzo in piedi, quello spavaldo, elegante, che emana una spiccata personalità e si candida chiaramente a esercitare una leadership sull’intero nucleo familiare, è Frida Kahlo vestita da uomo e la foto è stata scattata dal padre Guillermo [che sempre per restare al tema centrale di questo lavoro, era un fotografo professionale incaricato dal governo messicano al censimento del patrimonio architettonico nazionale], nel 1926 a Coyoacàn un quartiere di Città del Messico dove la famiglia Kahlo viveva. Chi avrebbe potuto dirlo non conoscendo la verità? Frida Kahlo che da ragazza amava travestirsi da uomo allo scopo di accrescere la sua autostima altrimenti minata dalla grave malattia che l’aveva colpita sin da bambina [era affetta da spina bifida]. Frida Kahlo, proprio la leggendaria icona del femminismo ante litteram, della libertà sessuale [che anche il travestimento svela], dell’anticonformismo eretto a sistema vitale, della lotta politica a favore dei ceti più poveri del Messico dei suoi tempi. Una delle pittrici più importanti del Novecento [un suo quadro è stato venduto alla cifra più alta che un quadro dipinto da una donna abbia mai incassato: ben otto milioni di dollari], la donna anticonformista che sposò due volte Diego Rivera [uno dei principali artisti muralisti del Novecento]. Colei che aveva intessuto relazioni profonde con Lev Trotsky [una delle figure principali della rivoluzione d’ottobre], approdato inutilmente in Messico in fuga dai sicari staliniani, con Andrè Breton, Marcel Duchamp, Julien Levy, Pablo Picasso, Vasilij Kandinskij, Salvator Dalì, Luis Buñuel, con le famose fotografe Tina Modotti, Emmi Lou Packard e con Nickolas Muray. Frida Kahlo y Calderon nasce a Città del Messico nel 1907 da Wilhelm [poi Guillermo], Kahlo Kaufmann e Matilde Calderon Gonzales. Ha tre sorelle probabilmente ritratte nella stessa fotografia. Il padre era un tedesco di origine emigrato in Messico nel 1891 e di professione un riconosciuto fotografo soprattutto di grandi architetture. La madre era messicana e di famiglia benestante [nella foto è la figura guida centrale]. Frida Kahlo ha una vita molto travagliata sin dalla nascita; già afflitta da una grave malattia subisce a 18 anni anche un trauma sconvolgente, sotto il cui peso chiunque si sarebbe arreso: mentre ritorna a casa da scuola il bus sul quale viaggia viene investito da un tram. Lo scontro è violentissimo e Frida resta quasi uccisa riportando fratture multiple alla colonna vertebrale, al bacino e agli arti. A seguito dell’incidente, un corrimano del bus si stacca dal suo alloggiamento e la trafigge da parte a parte nella regione pelvica. L’osso pelvico subisce la frattura in tre punti. Resta tra la vita e la morte per molto tempo e nessuno pensa che possa sopravvivere, ma poi miracolosamente resta in vita pur subendo nel tempo ben 32 operazioni molto dolorose e una grave invalidità permanente. Tutto questo non impedisce a Frida Kahlo di diventare Frida Kahlo, nonostante la difficilissima condizione di partenza. Ecco perché alla fine questa foto è stata utilizzata sulla copertina del libro e ancor di più quando ne ho scoperto l’archetipo. Perché dimostra che nella vita, pur nelle avversità che possono colpirla, si può rinascere sempre dalle nostre stesse ceneri e se anche ciò che di brutto ci accade non dipende da noi [accade raramente, ma a volte purtroppo è così], tutto da noi dipende se non facciamo nulla per uscire da una situazione anche gravemente sfavorevole che ci rende infelici. Frida Kahlo pur nelle enormi difficoltà e sofferenze che la malattia prima e l’incidente dopo le avevano causato, non solo non rinuncia alla sua vita, ma diventa una icona globale del suo tempo ed ancora oggi resiste a qualsiasi moda, rimanendo un grande riferimento culturale. Diventa la rappresentazione riconosciuta del concetto e pratica della resilienza e del coraggio; una donna colpita gravemente dal destino che al destino si oppone con tutte le sue forze riuscendo a ribaltarlo. Che si getta con tutte le sue energie nella vita, che non rinuncia ad amare, ad essere una grande artista, militante politica, scopritrice di generi di avanguardia nell’arte e nella moda, a dipingere il colore irruento pur in presenza di un nero esistenziale che non le dava tregua [“rinchiudere la propria sofferenza significa rischiare che ti divori dall’interno”, cit. di Frida Kahlo]. E’ una vita gravemente segnata sin dal suo esordio diventa, grazie alla sua ferrea volontà e alle sue tante vitali passioni [compresa la fotografia], un segno che marca con forza la storia culturale e artistica del Novecento. Muore a soli 47 anni e pochi giorni prima di morire completa uno dei suoi quadri più famosi raffigurante le famose angurie rosse. Succulente fette di angurie rosse con su una di esse scritto: “VIVA LA VIDA” pur essendo, attraverso i suoi quadri, la più grande narratrice del dolore del Novecento. Quale insegnamento possiamo trarre dalla vicenda descritta? Probabilmente che nella vita la giostra almeno una volta si ferma dalle nostre parti e ci invita a salire a bordo. E quella volta di farci trovare pronti a raccogliere l’invito. Coloro che pensano che la giostra per loro non sia mai passata, forse sono stati disattenti, anche perché la giostra può essere nella grandiosa bellezza della vita di ogni giorno. Frida Kahlo giace a letto immobilizzata dopo il gravissimo incidente patito. Non può muoversi; può solo muovere le mani. Avverte fortissimo il bisogno di esprimersi, di dare voce alla sua vocazione creativa. Il padre le costruisce una sorta di impalcatura per dipingere, perché lei si ribella a quella paralisi forzosa liberando ciò che di vitale ed impetuoso le scorre dentro. Diventerà l’artista donna più importante del Novecento. Eppure, la foto che avevo scelto in modo immediato tra tante altre, sembrava una foto normale, un normale ritratto di famiglia. La rivelazione che nascondeva è diventata un forte motivo di continuità con i contenuti di questo lavoro: la foto in sé, la forza e le implicazioni che la figura della protagonista mettevano in movimento, il fatto che l’autore della foto fosse una persona che viveva della fotografia [a conferma di quanto la fotografia fosse centrale nel Novecento]. E, infine, il fatto che la stessa Frida Kahlo amasse molto la fotografia e fosse lei stessa una brava fotografa, in grado non solo di scattare una foto tecnicamente interessante, ma anche di curarne lo sviluppo e la stampa. In una foto non vi era solo l’archetipo e la fascinazione di una protagonista della cultura del suo tempo, ed anche del nostro, ma vi veniva sintetizzata l’importanza che la fotografia ha avuto nel secolo passato, che ha coronato il suo grande successo e la sua affermazione come ottava arte.

2. L’importanza della fotografia oltre i tecnicismi

Il primo libro che ho pubblicato dal titolo “Storia di mio padre in 50 fotografie mai scattate”, vede la luce nel mese di aprile 2016. Contiene già in potenza questo lavoro. Fino a quel momento la fotografia per me rappresenta solo un sistema per “fermare” la realtà in modo da poterla ricordare per sempre, oltre al fatto di essere una forma espressiva del genere umano tra le più importanti ed anche una forma sublimata di arte e di bellezza. Prima di allora, non avevo mai considerato la relazione tra fotografia e psiche, tra fotografia e individuo, tra fotografia non solo come proiezione del mondo di fuori, ma anche di quello di dentro di chi scatta o viene ritratto e quindi come lente di ingrandimento della sua interiorità. Dopo aver scritto il libro su mio padre [che è anche uno spaccato della società italiana tra gli anni cinquanta e duemila], che nel sottotitolo parla di “50 fotografie mai scattate” e nell’appendice di documentazione presenta un certo numero di immagini che testimoniano la storia della mia famiglia e quella di mio padre in particolare, mi sono fatto delle domande. Finito quel lavoro che ha mosso in ogni direzione il mio sentire interiore, riportando in superficie sentimenti, emozioni, dolori: la mia vita insomma, mi sono chiesto perché lo avessi fatto, soprattutto con quella modalità e ponendo al centro delle cose [e non solo concettualmente], la fotografia. E’ stato proprio a quel punto che ho avuto “un’illuminazione” e su quella illuminazione ho cominciato ad elaborare fili e pensieri e in sequenza il libro che ora state leggendo. Proprio in quel momento ho compreso che la fotografia era molto di più di quello che generalmente si è portati a considerare e che la fotografia conteneva un mondo sommerso che avrei molto desiderato portare in superficie, condito di straordinarie implicazioni facilmente percepibili o opache e nascoste. Provandomi ad approfondire l'argomento, ho scoperto che vi era già una importante letteratura in merito, ma il tema mi appassionava ogni giorno di più e progressivamente le linee generali di questo libro diventavano un progetto definito. Ho allora enucleato le basi principali di un percorso articolato sul tema, per dare vita a un lavoro che con modestia desse ulteriore forza a questo argomento, anche nell’ambito di una relazione terapeutica o di aiuto, pur partendo da una letteratura di riferimento già ampia e autorevole. La mia principale attrazione per la fotografia nasce proprio dalla possibile connessione della fotografia alla psicologia dell’individuo e ai suoi comportamenti sociali e più in generale a spiegare il non detto, il significante oltre il significato. E’ accaduto quindi che man mano che i miei studi di autodidatta della psicologia progredivano, questo interesse cresceva, anche se non aveva contorni precisi. In passato spesso mi ero dilettato a interpretare il significato di fotografie prese dai giornali riguardanti lo scenario politico, sportivo, di cronaca. Alcune volte avevo anticipato il divenire degli eventi semplicemente “leggendo” una fotografia oltre ciò che facilmente lasciava intravedere. Oppure riprendevo in mano foto importanti della mia vita per verificare se lo stato d’animo di quel momento fosse efficacemente ritratto nelle fotografie di quel tempo o se dalle stesse potessi scoprire qualcosa di me stesso o delle persone che in quel periodo mi erano vicine ed erano ritratte con me, che in precedenza mi era sfuggito. Ritenevo che le foto contenessero chiavi interpretative della realtà molto forti e che questo fosse un argomento da approfondire in relazione soprattutto a ciò che la fotografia maggiormente costituisce: uno strumento formidabile per portare fuori quanto abbiamo dentro, al pari di un quadro, di una scultura, di una poesia, di un romanzo, di un film, di un’opera teatrale. Dopo aver scritto il libro su mio padre mi sono chiesto: perché ho inserito nello stesso libro anche una ampia sezione di documentazione completa delle fotografie salienti delle cose piene e vuote della mia vita? Che significava tutto questo? Come mai mi ero congedato dal dolore della perdita di mio padre scrivendo un libro anche fotografico? Era solo un omaggio verso mio padre e alla storia della mia famiglia o anche altro? Si trattava solo di una personale elaborazione del dolore oppure anche di un modo per restare in contatto con lui attraverso la cura della sua memoria, corredando il libro del nostro album di famiglia? E perché nel titolo, chiaramente, la fotografia era presa a pretesto per delineare il non delineabile e il non dicibile? Perché avevo descritto storie, situazioni, recuperato memorie oramai sepolte da pesanti coltri di polvere, sotto forma di fotografie mai scattate? Colmavo in questo modo l’assenza di mio padre dalla mia infanzia e adolescenza? Nell’ultimo anno di vita di mio padre gli ho scattato tante foto, avendo avuto netta la sensazione che, siccome stava per lasciarmi per sempre, dovessi suffragare in qualche modo la sua esistenza fisica e visiva che a breve mi sarebbe stata negata. Ho fotografato [esclusivamente con la camera del mio cellulare], il suo male, le sue ferite, gli ospedali in cui è stato ricoverato in quella via crucis che è stata la sua malattia nella fase “triste, solitario y final” come recita il famoso romanzo di Osvaldo Soriano. E tutti quegli oggetti fotografati, oggetti inanimati e freddi tipici degli ospedali, cosa proiettavano di me stesso, del mio dolore, della mia impotenza rispetto alla fine che si avvicinava inesorabile a concludere per sempre quella ineluttabile [per tutti], curva esistenziale? Quali catarsi proiettive le foto e la memoria ad esse connessa avevano consentito di agitare? Sono tutte domande alle quali proverò a rispondere nelle pagine che seguono. Fino all’età di venti anni non ho avuto neanche una foto con mio padre e mia madre, tranne quella relativa al giorno della cresima e della prima comunione [peraltro scattata da un fotografo ambulante, come allora accadeva spesso]. A quel tempo le foto erano considerate un lusso, perlomeno nelle famiglie come la nostra. Non si potevano sprecare soldi dei già pochissimi che avevamo, ma era anche un problema di atteggiamento mentale che rifiutava a priori le cose superflue. Le foto poi celebrano i momenti felici o che dovrebbero essere tali, le cose che ci attraggono secondo una precisa graduatoria di preferenze che le foto appunto sublimano. Mio padre regalò a me e mio fratello una macchina fotografica Agfa di plastica, di quelle essenziali da poche decine di marchi di valore. La riportò dalla Germania per la nostra grande felicità e io l’ho conservata gelosamente e intatta per mezzo secolo, ancora nella sua bella scatola di cartone come fosse nuova, trasformandola chiaramente in un oggetto feticcio dal quale non potrei mai separarmi. A differenza di allora, nel nostro tempo siamo costantemente proiettati nella società del selfie [autoscatto]. Il selfie è diventato quasi una malattia di massa [ogni giorno in Italia vengono scattati un milione di selfie]. In precedenza la macchina fotografica veniva utilizzata solo per le occasioni speciali [un lieto evento, una ricorrenza, un viaggio], e a nessuno sarebbe venuto in mente di scattare foto alla normalità o addirittura di auto scattarsi una foto [eravamo di fronte a una società comunitaria vs quella egocentrica attuale]. Oggi la normalità viene celebrata in ogni momento, anche i più ordinari. Attraverso le foto e le immagini, oggi l'ordinarietà è eretta a costante rituale esistenziale quasi da diventare una nevrosi collettiva in risposta ad una esistenza carica di frustrazioni. Ognuno di noi ha con sé lo smartphone 24 ore su 24 e quindi scattare foto è oltre che facile anche esposto a continue sollecitazioni. E’ stato un bene o un male? L’Agfa, uno dei principali protagonisti globali del settore della fotografia nel Novecento, prima di entrare in crisi assicurava lavoro diretto a circa 150 mila addetti in tutto il mondo e a milioni di occupati nei settori indotti. Instagram il gigante americano che convoglia la storia fotografica del pianeta [gli altri social network fotografici maggiormente diffusi sono pinterest e flickr], ho appreso che di addetti ne impiega 13 e la ragione della loro altissima capacità di generare valore [ROI – Return On Investment], è banalmente spiegata con il fatto che alla realizzazione del prodotto al quale accediamo a milioni siamo noi stessi utenti [sembra l’uovo di Colombo, ma in realtà è lo schema di business su cui si basa larga parte della cosiddetta economia digitale imperniata sui social network]. Questa è la banalissima verità: facebook, pinterest, flickr, twitter, whatsapp, funzionano grazie al contributo quotidiano gratuito di chi vi è iscritto e siccome di fondo il prodotto è gratis [per ora, ma in futuro potrebbe arrivare la fase a pagamento], le persone occupate nella cosiddetta economia d...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. 1. Quante cose possono svelare le fotografie
  3. 2. L’importanza della fotografia oltre i tecnicismi
  4. 3. Prima venne il disegno
  5. 4. La fotografia dal suo inizio, al secolo dell’immagine, alla fototerapia
  6. 5. La fotografia come idolo
  7. 6. Proiezione, espressività Junghiana, creatività nel setting
  8. 7. Insicurezza e narcisismo nella società del selfie
  9. 8. L'album di famiglia
  10. 9. L’uso della fotografia nella conoscenza del disagio umano
  11. 10. Il potere della fotografia
  12. 11. Una questione molto attuale: le foto su facebook e l’uso dei social network
  13. 12. Come il web cambia il profilo antropologico della società
  14. 13. Cinema, emozioni visive e proiezione
  15. 14. Evoluzione della fotografia
  16. 15. Una nuova forma di linguaggio e autorappresentazione: il tatuaggio
  17. 16. Elementi di domesticazione sociale
  18. 17. Il potere taumaturgico della fotografia
  19. 18. Solo una foto?
  20. 19. Le fotografie della nostra infanzia
  21. Bibliografia di riferimento