Il modello socio-cognitivo, sviluppato da Kenneth A, Dodge1 per lo studio dell’aggressività, affonda le sue radici nelle teorie e nei risultati empirici ottenuti nell’ambito della psicologia sociale e della psicologia cognitiva.
Punto di partenza di tale modello è la teoria dell’attribuzione di Heider (1958) la quale considera gli individui come dei pensatori costruttivi che si rapportano alle situazioni che incontrano ricercandone le cause e vi rispondono, dunque, comportandosi sulle basi delle loro attribuzioni e delle loro inferenze.
Kelley (1971) ritiene che gli individui usino dei principi logici nel fare delle attribuzioni causali, come il principio di covariazione in cui un effetto è assegnato alla causa con cui è associato e la distintività in cui il grado di plausibilità di una causa diminuisce la plausibilità di altre.
Le persone sviluppano anche bias2 che le portano ad errori nelle attribuzioni. Il primo di questi, individuato dagli studi di psicologia sociale, è l’errore di attribuzione fondamentale: le persone, come osservatori, tendono ad attribuire il comportamento altrui alla personalità o alle disposizioni, invece, come agenti, tendono ad attribuire il proprio comportamento alle circostanze.
Un secondo bias è la tendenza ad accettare come sufficiente la prima causa che risulta saliente e ciò porta ad una cessazione della ricerca di altre informazioni che potrebbero essere più adeguate per la spiegazione di un evento.
Un altro bias è che gli individui mostrano una tendenza a cercare conferma alle proprie originarie ipotesi, anche a dispetto dell’evidente contraddittorietà.
Kahneman & Tversky (1982), nel campo della teoria dell’elaborazione dell’informazione, hanno dato un contributo fondamentale nella comprensione delle cause di questi bias attribuzionali. Obiettivo degli studi condotti da questi autori è stato la comprensione del pensiero intuitivo, ovvero delle modalità attraverso cui la mente umana riesce a scegliere le informazioni appropriate tra le tante disponibili. Questi autori hanno suggerito che gli individui fanno affidamento su alcuni tipi di euristiche (dal greco heuriskein = trovare) quando fanno delle inferenze o formulano dei giudizi. Le più significative, messe in luce da parecchi studi sperimentali, sono l’euristica della rappresentatività e l’euristica della disponibilità.
La prima si basa sulla messa in corrispondenza tra percezioni di stati del mondo e rappresentazioni nella memoria, ed è la tendenza a classificare uno stimolo oggettivo come appartenente ad una particolare categoria quando tale stimolo ha caratteristiche salienti che sono simili alle caratteristiche che definiscono quella categoria. In questo modo un bambino che ha sviluppato una immagine prototipica di un coetaneo aggressivo come uno che disturba e/o tratta male i compagni, farà delle inferenze, incontrando altri bambini, che dipendono da questo suo modello immagazzinato in memoria. Così, se un nuovo coetaneo presenterà quelle stesse caratteristiche comportamentali molto probabilmente li giudicherà aggressivo.
L’euristica della disponibilità è la tendenza a dare dei giudizi sulla frequenza e sulla probabilità di un evento, basandosi su dati prontamente disponibili in memoria. Così, ad esempio, un bambino che è stato ripetutamente la vittima dell’aggressività dei compagni, concluderà che un coetaneo che mostra determinati comportamenti, lo vuole picchiare, semplicemente perché quella inferenza è altamente disponibile.
Le euristiche sopra descritte sembrerebbero universali e spesso porterebbero ad una corretta inferenza e ad una risposta competente con gran velocità e poco sforzo. Sfortunatamente le stesse euristiche possono portare ad errori di giudizio e a decisioni errate nei casi in cui siano applicate sotto condizioni di ambiguità: “più sono ambigui gli stimoli più le perso...