Il caso Pacciani: storia di un processo mass mediatico
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Il caso Pacciani: storia di un processo mass mediatico

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Il caso Pacciani: storia di un processo mass mediatico

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Per la prima volta un grande processo legato a fatti di cronaca viene interamente seguito dai media.
Quella di Pacciani non è solo una vicenda giuridicamente complessa ma anche un processo fortemente condizionato dal grande schermo.
E' il fenomeno del "processo mediatico" ovvero una sorta di para-processo che si svolge al di fuori delle aule giudiziarie ma che è in grado di orientare la condotta dei protagonisti in aula.
La strategia dell'accusa sarà quella di far coincidere l'immagine del contadino di Mercatale con quella del Mostro, al contrario la difesa si prodigherà nel dimostrarne l'assoluta estraneità. Entrambi gli schieramenti faranno leva sul potere immaginativo ed emozionale dei media.
La vicenda si incunea poi imprevedibilmente nei risvolti politico-giudiziari degli anni '90: la contrapposizione tra la procura antimafia di Firenze e la politica coinvolta nella trattativa Stato Mafia.
Questo libro si autoesclude dalla trita discussione tra innocentisti e colpevolisti, ma volge a far luce sul
quadro sociopolitico, antropologico e psicologico che ruota intorno al contadino di Mercatale.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788831682299

La parabola mistica del contadino di Mercatale

Il misticismo di ispirazione cristiana è la principale fonte di immagini a cui attinge Pacciani nel dipingere il suo quadro autoassolutorio. In due casi arriva persino a compararsi al Cristo: “è mio fratello” asserisce, e poi “morirò da innocente come Iddio (avrà voluto dire Cristo? ndr) sulla croce” esclama estraendo dalla tasca un’icona religiosa che mostra ai quattro venti.
Anche la narrazione della sua parabola terrena si ispira a ad allegorie religiose: come il fatto di essere nato povero da genitori poveri, o l’aver sempre lavorato facendo lavori umili, e infine asserendo di essere stato un buon padre che ha saputo crescere la famiglia facendo anche dispendiosi sacrifici. Anche la metafora che sceglie per descrivere il suo sentimento a questo processo è pastorale: si definisce appunto un agnello.
Questi sono i capisaldi teorici, concordati a tavolino con i suoi difensori. Il problema è che tra un caposaldo e l’altro Pacciani ci deve mettere del suo… ed ecco che i cardini della struttura cigolano spaventosamente.
L’omicidio Bonini raccontato in aula
Partiamo dall’episodio più segnante della sua travagliata giovinezza e torniamo all’omicidio del Bonini, il rivale o corteggiatore della sua allora fidanzata Miranda Bugli. Il fatto, come detto, è avvenuto nel ‘51 con Pacciani ventiseienne e Miranda con dieci anni in meno: Pacciani sorprende la coppia nel bosco in atteggiamenti amorosi, lei ha già scoperto il seno sinistro (risulta dai verbali redatti sulla base del racconto di Pacciani in aula; tenete bene a mente questo particolare perché nei suoi omicidi il Mostro avrà tra le sue firme quella di asportare la mammella sinistra). Abbiamo già raccontato la dinamica, quindi analizziamo il racconto di Pacciani come lo narra adesso che si trova quasi settantenne nell'aula della corte d’Assise di Firenze. “Ella mi disse guarda m’ha preso per forza, piglialo piglialo!!! Andai per tirargli du’ pugni, e quello l’era n’pezzo d’omo più grande di me e m’agguantò pel collo e mi stava strozzando”. Insomma Pacciani s’ebbe a difendere, frugò in tasca per cercare un coltello che a suo dire usava solo a fini di potatura. Il racconto si interrompe qui con una finta lacrima ad irrorare il volto: segue una sceneggiata drammatica dove inneggia al proprio pentimento e alla redenzione. Da quel giorno lui in tasca non ha più portato nemmeno un chiodo, o almeno questo è quanto asserisce.
Nessuno dei membri della corte potrebbe essere così ingenuo o stolto da non vedere quanto questa messa in scena si discosti dalla verità riportata sui verbali giudiziari del ‘51 che hanno condannato Pacciani a 22 anni di galera per omicidio e occultamento di cadavere. A dire il vero nemmeno l’ultimo degli spettatori in fondo all’aula potrebbe non accorgersi della colossale montatura: 19 coltellate e una pietra spaccata in testa sono un po’ troppo per considerarla legittima difesa.
Com’è possibile allora che la difesa abbia puntato su una così improbabile ricostruzione, ben sapendo che poi, questi elementi, in mano all’accusa sarebbero diventati un boomerang?
Forse gli avvocati si rendono conto dei limiti di questa strategia, ma ne conoscono anche i punti di forza: creare l’immagine del Pacciani pentito, che ha rotto con il passato e che fino a ieri ha pensato solo a lavorare la terra come il più umile degli agricoltori. Tutto si gioca sul filo dell’emotività, del credere o meno alle lacrime di quello che, fino a sentenza, è solo un povero contadino su cui gravano pesanti indizi e sospetti.
C’è da approfondire un ulteriore e forse ancor più sorprendente aspetto, su cui i difensori devono aver creduto molto: l’impressionante teatralità di Pacciani.
Sbaglia chi lo ritiene un vecchio rimbambito: anzi, ritenerlo tale significherebbe essere caduti nella sua trappola.
Pacciani si dimostra incredibilmente disinvolto nel recitare la sua commedia: non dobbiamo dimenticare che da questo punto di vista è un veterano delle aule di tribunale.
Ora deve recitare il ruolo dell’amante passionale che ha ucciso per gelosia. In questo modo sottrarrà argomenti all’accusa perchè questo omicidio del ‘51, a volerlo interpretare in un certo modo, è quasi completamente avulso rispetto alle dinamiche di uccisione del Mostro. Pacciani ha ucciso in un contesto che lo vedeva coinvolto direttamente, mentre il Mostro non conosceva le sue vittime. Pacciani ha infierito mortalmente su un uomo mentre il Mostro si accaniva su vittime di sesso femminile. Ancora, Pacciani non è un serial killer ma un omicida occasionale il cui contesto è unico, irripetibile ed irrituale, mentre il Mostro colpiva secondo precisi riti, in modo ripetitivo e con schemi consolidati come le notti di novilunio e nei fine settimana (giorni sabbatici).
Ma in questo processo combattuto a colpi di deduzioni ogni argomentazione si rivela un’arma a doppio taglio.
Infatti anche all’accusa vengono in mano molti elementi da questa storia: innanzitutto Pacciani dimostra pubblicamente la sua attitudine di mentitore capace di negare anche verità giudiziarie consolidate. E se mente su un fatto accertato perché non dovrebbe continuare a farlo anche su fatti che lo vedono fortemente indiziato? Inoltre ci sono alcuni aspetti che fanno di questo omicidio una sorta di Mostro “in nuce”. C’è la furia e l’accanimento omicida rinvenibile nelle quantità spropositata di coltellate inferte allo scopo di uccidere. C’è quel mix di sesso, sangue e morte che sono la molla scatenante dei delitti del Mostro. C’è quel particolare del seno sinistro che ritorna come una sorta di nemesi. E poi ci sono altri curiose coincidenze: Miranda Bugli dopo aver scontato anche lei qualche anno in prigione per il concorso in questo omicidio ha cambiato vita, si è sposata ed è andata a vivere a Lastra a Signa. Nel ‘68 abitava a pochi metri di distanza dalla famiglia Mele, quella coinvolta nel primo duplice omicidio (quello del ‘68, o della pista sarda per intenderci). Davvero una strana coincidenza, ma la diretta interessata ha sempre respinto ogni ipotesi di coinvolgimento. Pacciani non è mai andato a trovarla, tranne una volta a Rincine negli anni ‘70, in un incontro avvenuto in circostanze mai del tutto chiarite.
Le figlie di Pacciani
Tutti i capitoli del dibattimento processuale contengono elementi agghiaccianti: non solo per nell’ambito degli omicidi ma anche per tutto quanto ruota intorno alla figura dell’ imputato. La procura chiama a deporre tutta la famiglia Pacciani: la moglie e le due figlie. Il motivo per cui siederanno sulla sedia davanti al giudice è raccontare tutto quello che hanno vissuto all’interno del focolare domestico. Non sanno e non possono sapere nulla degli omicidi del Mostro: la moglie è inferma di mente e servirà a poco interrogarla, le figlie invece faranno luce sul più terrificante racconto che emergerà durante il processo. Possiamo considerarlo tale in ragione dell’età delle persone coinvolte e per la gravità dei reati commessi.
L’orrore del cibo per cani dato come pasto alle figlie, le inenarrabili sevizie, l’incesto, le botte: ecco fermiamoci qui, non entriamo nei particolari ma limitiamoci ai sommi capi, è più che sufficiente per la nostra trattazione.
Anche la difesa fatica a trovare appigli per uscire da questo orribile quadro e sostanzialmente si limita a far notare che per questo reato il loro assistito ha già pagato. La strategia del PM Canessa va invece a segno e centra un obiettivo: ora l’immagine del Pacciani non è più quella del povero contadino, l’agnelluccio, il perseguitato. Se questo non comprova che Pacciani è il Mostro, è però innegabile che Pacciani sia un Mostro, non è la verità, non è l’equazione Pacciani=Mostro ma è una tappa di avvicinamento a questo risultato. In un processo indiziario si avanza un gradino alla volta, e a questo giro l’accusa ha portato a casa un risultato: ancora una volta il terreno di scontro è l’immagine, l’impressione, il coinvolgimento emotivo.
Eppure Pacciani nella sua deposizione spontanea sembra convinto di poter smontare tutte queste che definisce calunnie, false accuse inventate per una sorta di ripicca. Sì perché a quanto pare una volta una delle due figliole le buscò per essersi allontanata per troppo tempo da casa, e poi c’è il datore di lavoro di una delle sue figlie che l’avrebbe fatta lavorare senza pagarla. Lui allora da buon padre telefonò a questo datore e gliene disse di ogni, e secondo Pacciani da qui ricevette per ritorsione una montagna di calunnie sul suo comportamento familiare. Storiette insomma.
Davvero Pacciani e la sua difesa non si rendono conto che i membri della corte non sono così stupidi da credergli ? Possibile convincere una giuria che lui sia stato per tutta una vita un onesto lavoratore e padre di famiglia e per un paio di sgarri si sia fatto 4 anni di galera per maltrattamenti alle figlie?
Probabilmente loro, i difensori, se ne rendono conto perfettamente, ma giocano sempre sul fatto che si tratta pur sempre di elementi non decisivi, avulsi e per i quali ha già saldato i conti con la giustizia.
“Intercettazioni canore”
Andiamo avanti, veniamo alle “intercettazioni canore” (per dirla con le parole dell’imputato stesso). Nella casa del contadino di Mercatale ci sono microfoni nascosti dappertutto e da tanto tempo, lui non lo sa ma in prossimità della sua abitazione ci sono uomini della scientifica appostati h24 per carpire indizi dalle sue conversazioni. Viene registrato un episodio piuttosto inquietante relativo all’interrogatorio a cui si è sottoposta la moglie Angiolina Manni presso la procura. Gli accordi con il marito erano altri: lei a parlare con gli inquirenti non ci doveva andare proprio, se l’avessero convocata avrebbe dovuto fingere un’indisposizione. Ma lei si fà convincere e a parlare ci va. Da questa povera debole di mente gli investigatori ottengono poco, ma quando Pacciani la accoglie in casa hanno la possibilità di registrare un iracondo rimprovero che il PM Canessa ci terrà a far ascoltare. Non è tanto la sequela agghiacciante di improperi in toscano stretto che impressiona, ma il tono furibondo in cui vengono espressi. Non è certo una prova schiacciante ai fini della condanna ma è comunque emerso il vero Pacciani in tutta la sua brutalità. C’è di più. Alla fine del turpiloquio Pacciani si reca in camera, apre uno sportello ed esclama: “e’mo adesso in do la metto ?”. Secondo gli inquirenti starebbe cercando di nascondere la pistola o un’arma da fuoco a cui avrebbe accennato la moglie in sede di interrogatorio. Resterà un’ipotesi senza riscontri oggettivi.
Un sogno di fantascienza
Nella sua requisitoria il PM Canessa al termine dell'elenco di prove, indizi, testimonianze aggiunge un particolare che sembra quasi una nota di colore, ma sul quale il PM sembra puntare molto, almeno come elemento nel quadro psicologico dell’imputato.
Si tratta di un quadro dai contenuti effettivamente inquietanti: personaggi di un genere che ondeggia tra l’horror ed il mitologico. Potrebbe anche avere un senso se solo si potessero collocare quelle forme un po’ astruse in un contesto spazio temporale. Pacciani lo ha firmato, e avrebbe anche battezzato il titolo “Sogno di Fantascienza”. La figura centrale è composta da un teschio con cappello da generale, una divisa verosimilmente militare e due grosse, palesemente sproporzionate, scarpe da tennis. Ad una testimone, che conosceva Pacciani per un rapporto di affitto locatario, il contadino di Mercatale avrebbe dato questa interpretazione: è il Generale della morte, ed ha le scarpe grosse perchè deve essere veloce a rincorrere le sue vittime.
C’è di più, una macabra coincidenza: l’opera riporta come data il 10 aprile, la stessa in cui Pacciani commise l’omicidio del 1951, le probabilità erano un 1 caso su 365… ma potrebbe anche non voler dire niente.
Nel giro di breve tempo il caso si sgonfia: un’esperta d’arte riconosce il quadro in quello di Christian Olivares, pittore cileno esule dalla dittatura di Pinochet, che lo realizzò a Bologna negli anni 70. Pacciani deve aver rinvenuto in qualche bottega uno schizzo in bianco e nero e poi lo ha colorato firmandolo come suo.
Per la procura è un clamoroso scivolone. Per la difesa è la dimostrazione che tutto il metodo di procedura dell’accusa è infondato: è un ragionamento induttivo e anche molto semplicistico ma infiamma il dibattito pubblico. In TV si scateneranno i mastini dell’innocentismo ad oltranza: per il critico d’arte Vittorio Sgarbi è manna che scende dal cielo, e non si contano i suoi interventi sul grande schermo per denigrare l’operato dei giudici (riprenderò più avanti questo spunto in sede di riflessioni più generali).
La gaffe è talmente grande che Pacciani interrogato da Canessa rincalza senza neanche aver bisogno degli avvocati: “Ma che dicono? Non l’ho dipinto io. Era una vecchia stampa che avevo in casa. Io ci ho soltanto messo su il colore; Ho sbagliato a metterci la firma; volevano fare un trucco, volevano descrivermi come non sono mai stato”. Non manca nemmeno un tocco di involontaria comicità quando Pacciani, nella sua replica, storpia il nome del dittatore cileno in “Pinochef”.
E’ stato solo un episodio, un colpo che l’accusa ha dovuto incassare ma non risulterà determinante nell’esito del processo di primo grado. D’altronde altro materiale per attribuire a Pacciani un profilo criminale non manca.
Tuttavia è evidente come la portata dell’errore sia stato amplificato dai media, ed è altrettanto chiaro che Pacciani ha avuto, come non mai, la possibilità di giocare in pieno la carta del martire.
La sentenza
E’ il 1 novembre, giorno di Ognissanti, del 1994. L’aula della corte d’Assise di primo grado del tribunale di Firenze è attraversata da un’atmosfera di isteria collettiva per quello che è l’ultimo atto di un interminabile processo. Si vedono giornalisti aggrappati alle graticole come scimmie dello zoo, ci sono cameraman in piedi sui banchi dei tribunali con la cinepresa appostata tipo cecchino. E’ un formicaio brulicante di addetti stampa e curiosi. So...

Indice dei contenuti

  1. Il caso Pacciani: storia di un processo mass mediatico
  2. Introduzione
  3. Il contesto sociale, politico e culturale negli anni del processo
  4. Genealogia di un processo
  5. Dal contadino al Mostro
  6. Chi era Pacciani?
  7. Il processo
  8. La parabola mistica del contadino di Mercatale
  9. Considerazioni sullo svolgimento del processo
  10. Antropologia di un personaggio
  11. Processo d’ appello e “compagni di merende”
  12. Compagni di merende
  13. La morte di Pacciani
  14. Il grimaldello contro le procure
  15. Conclusioni: l’effettiva influenza del media sullo svolgimento del processo