Johann allein
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Anno Domini 1720. Ritornato a Köthen dopo due mesi di assenza, Johann Sebastian Bach scopre che la moglie Maria Barbara si è ammalata ed è morta. Ripercorrendo la vita del maestro, Stefani cerca di descrivere il comportamento di un uomo di fronte a misteri che ancor oggi affliggono il nostro presente tanatofobo, indagando le vie e i paesaggi musicali attraverso cui il giovane compositore è riuscito a esprimere il suo dolore trasfigurandolo con la sua arte e rendendo infine omaggio a Maria Barbara, lasciata troppo spesso nella penombra della morte prematura avvenuta esattamente trecento anni fa.

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In absentia 1

Guardo i miei piedi che si scollano dal fango polveroso al termine del lungo viaggio mentre il sole estivo spalanca il suo occhio di fiamme sopra la strada nel centro della città luterana di Köthen, pulsante arteria di comunicazione che scorre nel boscoso cuore della Sassonia. Mi fermo davanti alla soglia di un grande edificio in pietra e mattoni scaldati dalla luce. L’aria riempie gli occhi e impasta la bocca. Il calore è insopportabile, almeno quanto tra qualche mese lo sarà il freddo che serra tra le sue dita ghiacciate i palazzi durante l’inverno. Impossibile indossare la parrucca che va tanto di moda in questo periodo di eleganza europea. La camicia mi si appiccica alla schiena. La natura è al massimo del rigoglio in questo luglio torrido.
È l’anno del Signore 1720.
Il viaggio di ritorno è stato piacevole. Il mio signore e duca Leopold di Anhalt-Köten è uno tra i mille sovrani di cui si compone il manto della creatura dalle mille teste ma senza alcun corpo che abbia vigore, la Germania violata e sviscerata dopo la guerra dei Trent’anni. Il duca non aveva solamente portato con sé i musici di corte alla città delle acque, Karlsbad dal leone rampante, ma si era distinto suonando assieme alla sua orchestra una viola da gamba dalle decorazioni a forma di testa di donna mora. Naturalmente tutti avevamo fatto un bagno termale per rinfrancare corpo e spirito.
Fu l’imperatore Carlo IV di Lussemburgo a diffondere al mondo la notizia rendendo Karlsbad un punto di ritrovo della nobiltà, dopo che un cervo si ustionò con l’acqua bollente durante una battuta di caccia fuggendo dalla punta affilata della lancia reale. Carlo lasciò lo spiedo e si immerse nell’acqua, trovando il nuovo passatempo più piacevole delle battute a cavallo.
L’idea di acqua calda sempre disponibile che non dipendesse dal doverla far prima bollire sembrava un sogno per alcuni musici che avevano dunque provato ogni servizio offerto dalle terme, dai bagni alle miracolose proprietà insite nel bere l’acqua ctonia.
Avevamo avuto modo di utilizzare senza problemi un clavicembalo trasportabile, ottima invenzione dei francesi come anche i loro strumenti a fiato, i flauti a becco dal suono dolente e terso. Non c’era voluto molto per sistemare l’accordatura prima dei concerti e la comodità di trasporto del cembalo, agilmente piegato in forma di cassa, era miglia più avanti rispetto alla sorte degli strumenti del continuo, incaricati di sostenere alla base l’intreccio delle parti con le voci più gravi. Violoncelli, violoni e contrabbassi soltanto per essere scaricati dai carri o dalle carrozze e portati nel luogo deputato all’esecuzione avevano fatto sudare e ansimare i loro proprietari accaldati dal clima estivo, oppressi dalle grandi custodie nere più alte di loro, come se trasportassero un cadavere.
Il duca era rimasto soddisfatto da quella seconda esperienza di riposo e musica presso la città termale. La prima risaliva a qualche anno prima. Anche durante il viaggio verso casa i suoi modi gioviali e le sue battute di spirito, solari come il paesaggio tedesco in cui la piccola corte si muoveva tornando verso la Sassonia, mostravano quanto poco egli tenesse conto dell’etichetta ufficiale che mai avrebbe permesso a un nobile di lasciarsi andare così in compagnia di semplici musicisti. Ma il duca era un ottimo esecutore e trattava i suoi colleghi d’orchestra alla pari, invece di considerarli semplici sottoposti da sfruttare per la ricreazione dello spirito. Quando governava, era il duca di Köten; ma quando le sue mani si posavano su una viola da gamba finemente istoriata dalla cavigliera a forma di testa di vergine e le sue dita ne sfioravano il corpo d’ebano dall’abito succinto di budello, allora era un amante di Euterpe e anche lui sottostava all’autorità del kappelmeister che dirigeva un concerto, una sinfonia, una suite di danze. Il duca cedeva la corona e la poneva sotto la mia autorità. Sono io il kappelmeister, mia è la virtù per cui il duca sfiora la pelle scura della viola da gamba.
Il calore del culmine dell’estate, quella luce feroce che il sole latra, scotta la pelle e secca la gola arroventando i muri delle case adiacenti e la facciata della mia in Wallstraße.
Köten sboccia in un territorio di selve e acque nel centro del giardino luterano della Sassonia: due tratti basilari si trovano a confluire come due ciglia sulla sua posizione strabica, due sguardi osservano contemporaneamente verso Eisleben a ovest e verso la superba Wittemberg a est, entrambe città legate al grande Doctor Lutero. Proprio in questa regione egli sollevò la sua tempesta teologica capace di sradicare ogni abete delle nostre foreste, una furia nutrita da oro e dal tetto scoperchiato di San Pietro, bocca spalancata che urla di dolore, fiato di preghiere convertite in metallo senz’aria, non più voce di umili labbra ad avvolgersi attorno al soglio papale ma il tintinnio delle monete. Il vento di Lutero soffia ancora, senza stancarsi o arrendersi di fronte all’incapacità degli uomini di comprendere.
Pochi anni fa si è deciso di aprire una scuola luterana qui a Köten dopo decenni di calvinismo. Questa città e questa regione non potevano rimanere fuori dal soffio del monaco agostiniano, un esecrabile vuoto nel centro del ciclone che si è scatenato sull’intera Europa. Ma ora questa città è luterana e mi ha accolto con un impiego ben retribuito. Nel dicembre 1717 il mio primo stipendio è stato assolutamente generoso, così come i successivi.
Indugio qualche istante sulla soglia. Guardo con orgoglio questa solida costruzione di cui sono il primo proprietario, sin da quando pochi anni fa mi sono trasferito in questa città al servizio del duca. L’ho vista sorgere dalle fondamenta ed essere terminata. Qui ho portato la mia famiglia e qui ho ospitato numerosi musicisti alle dipendenze del duca. Il che è quasi equivalente per me, cresciuto con la musica attaccata come il proprio nome dopo il battesimo. Ho allevato questa casa assieme ai miei quattro bambini e a mia moglie Maria. La mia unica figlia in vita compirà dodici anni dopo Natale. Due anni fa Maria aveva dato alla luce un maschio, ma il piccolo è morto dopo dieci mesi. È il terzo bambino che perdo. Qualche anno fa aveva concepito due gemelli, un maschio e una femmina: purtroppo uno è nato morto e la sorella non ha voluto vivere senza la creatura che era rimasta con lei nove mesi. La bambina si sarebbe chiamata come sua madre mentre suo fratello mai conscio di un mondo all’esterno delle pareti del grembo avrebbe preso il mio nome. Se n’è andato senza mai sapere che esistevano suoni diversi dal nulla liquido in cui è stato concepito e dissolto. Entrambi si sono portati almeno una parte di noi, nomi che per loro non significheranno mai nulla, scendendo nella terra.
Le fonti termali di Karlsbad mi hanno rinfrancato. Hanno scaldato le mie ossa, sciolto i nodi nascosti nei muscoli, ritemprato la mia mente. Per quanto ora vada di moda bere queste acque ho preferito essere io al loro interno e non il contrario. Vi ho immerso la mia musica, mani e piedi che suonano da che ho memoria.
La vita del musicista non è affatto piacevole: ore e ore seduti immobili in solitudine e alla continua ricerca di mantenere un equilibrio tra velocità della mente e velocità del corpo, che nelle rigide temperature dell’inverno o nella spossatezza estiva si rifiutano di essere rapide come il pensiero desidererebbe. A volte appollaiati sopra la cantoria di un organo tentando di riscaldarsi con bracieri accuratamente sigillati per non dar fuoco all’intera chiesa, altre in saloni gelidi che causano problemi agli arti e alle ossa. Immobili a suonare, dirigere e comporre mentre la schiena si incurva e gli occhi, via via che la luce si fa più fioca, si stringono. Scrivere di continuo spartiti. La stampa sta semplificando le cose ma è ancora un’arte che ha bisogno di un lungo apprendistato. Ho bisogno di nuovi pennini per tracciare i pentagrammi, il mio rastrum ormai è inutilizzabile. A copiare tutte quelle parti personalmente prima o poi perderò la mano. Meglio il più tardi possibile, devo mantenere la famiglia. I miei tre maschietti e una ragazza, la più grande. Si fa rispettare dai fratelli, ha preso il mio carattere e parte del mio talento, ha un’ottima voce di soprano. Fiera come sua madre. Fra qualche anno dovremo pensare a un buon matrimonio.
Per quanto possa sembrare ironico la prima cosa che vorrei fare è un bagno.
Tra qualche ora si cenerà. Bisogna vedere se il duca vuole organizzare una festa di ritorno, ma ne dubito. Dovrebbe pensare a invitare qualche duchessa, non è ancora sposato e ha quasi trent’anni. Quasi la mia stessa età. Che musica vorrà mai… Cantata o concerto strumentale? Quali brani ho a casa? Quali abbiamo suonato di più? Di sicuro non quel concerto con i due corni solisti, erano solo di passaggio. Staranno dando i segnali di caccia in questo periodo, sempre a cavallo. Avevano le gambe storte da quanto rimangono in sella ogni giorno. Il loro suono così antico, ricurvo lungo l’ottone come le zanne del cinghiale che inseguono, nobile come la lotta che annunciano. Il primo oboe aveva la gola irritata dal fieno, potrebbe non eseguire bene il solo. Meglio evitare quella sinfonia. Al violoncello si è rotta una corda ma dovrebbe riuscire a rimediare al più presto. Il budello soffre con questo caldo. Gli archi temono il sole come il diavolo l’acqua santa.
Le chiavi di casa le ho qui. Che strano, la notizia dell’arrivo del duca dovrebbe averci preceduto eppure la porta è chiusa. Probabilmente il caldo non invita a mettere il naso fuori, c’è ancora troppa canicola. I bambini non possono rischiare di prendersi qualcosa. Leopold è morto proprio dopo l’estate, quasi un anno fa. E dire che era nato in novembre, resistendo così bene al primo inverno. Catharina è nata il 28 dicembre. Un Natale ancora più bello.
La mia famiglia. Mi sono mancati.
Due mesi, da tanto manco da casa. Sono partito il 25 maggio. Oggi è il 17 luglio. Il viaggio da Köten a Karlsbad è lungo ma sono abituato a spostamenti simili. Anni fa ho percorso miglia su miglia per raggiungere Lübeck e poter studiare sotto l’organista Dietrich Buxtehude. Il viaggio verso la città delle acque è stato lungo forse la metà. Ho viaggiato a piedi sin da quando ero ragazzo. A quindici anni ho percorso duecento miglia cantando, mentre tutt’attorno a me l’immensità verde e silente della Turingia mi scrutava dal fitto della selva. Mi muovo da che sono nato in un mondo ai confini di un altro, ignoto e oscuro. Al mio battesimo stava accanto a me un guardaboschi, un uomo che cacciava i lupi che si muovono con respiro di neve, al guinzaglio di tenebre ghiacciate ben più antiche di Lutero e della sua Bibbia in tedesco. Viaggiare non è mai stato un peso per me.
L’estate mi circonda agitando le sue foglie mentre resto ancora un po’ in attesa sulla soglia della mia casa, una brezza mi rinfresca la fronte e gli occhi. La porta si apre quasi senza rumore. L’interno silente mi immerge in una frescura che fa rabbrividire, come acqua che scorre sul petto quando si guada un fiume.
– Sono tornato.
A momenti potrò rivedere i bambini e Maria. Parlarle di Karlsbad e dirle che ho pensato a lei sempre. Vedere che progressi hanno compiuto i ragazzi alla tastiera, se hanno studiato i piccoli preludi e fughe che ho scritto per loro prima di partire. Ascoltare la voce di mia figlia mentre canta.
Eppure nessuno mi viene incontro nel guado tra estate e ombra alla soglia della mia casa.
Il silenzio contiene una dissonanza che infastidisce il mio orecchio, ma probabilmente è la stanchezza che si fa sentire ora che sono arrivato.
– Sono tornato, – ripeto. – C’è nessuno? Sono io.
Che strano, forse stanno dormendo. Dove sono i servitori, mai quando se ne ha bisogno. Mi toccherà riprenderli da subito, eppure sanno che non sono per nulla paziente in queste cose. Karl e Wilhelm fanno sempre il diavolo a quattro, è strano che ci sia questo silenzio. Che siano usciti? Improbabile, a quest’ora Maria starebbe già iniziando a organizzare la cena…
Qualcosa stona nella mia casa. Segni che non riesco a decifrare, qualcosa che non c’era alla mia partenza. O meglio, segni di qualcosa che c’era alla mia partenza e che ora non c’è più. Potrebbe essere solo una sensazione, ma l’ho già vissuta. Si muove ai confini della mente, ma cresce di volume.
Un movimento nel corridoio cattura la mia attenzione. Un piccolo corvo arruffato con gli occhi rossi emerge dalla penombra. Johann, quarto dei miei figli a essere sopravvissuto fino a poter parlare e chiamarmi papà. Qualcosa non va. È vestito di nero.
Lutto.
– Chi è morto.
L’estate si ritrae dall’ingresso della casa. Il calore e i colori assolati non entrano, solo io ho superato la soglia. Mi ritrovo da solo a guardare la faccia rigata di lacrime di mio figlio.
– Johann. Chi è morto?
Lui mi si getta tra le braccia, scoppia a piangere.
– Johann, che succede, parlami.
– Non c’è più.
– Chi?
Quale dei miei figli mi ha di nuovo preceduto, Dio. Quale di loro devo ancora una volta fasciare in una bara? Un funerale con note lacrimate, la musica che avrei voluto insegnargli per poi deporlo in una fossa.
I singhiozzi sembrano più forti di qualunque strumento.
Poi altri piccoli pulcini sbucano dal corridoio, nere piume di un’angoscia che mi avvolge sempre più, l’incognito mi fissa con lo sguardo d’ossidiana di un corvo. Carl. Wilhelm. Ci sono tutti, nessuno sembra malato… Un nodo mi stringe lo stomaco. Catherina. La mia unica figlia. No. Lei appare dalla penombra, il broncio per non piangere e occhi gonfi eppure duri come pietre sotto il mio sguardo cesellatore di note. Qualcosa stride nella mia testa, più forte di qualsiasi dissonanza.
Guardo Johann, stretto nelle mie braccia.
– Cos’è successo.
– Mamma è stata male.
Il mondo si gela, l’estate, la musica, tutto svanisce.
– Mamma non c’è più.
*
Il principio è squarciare un abisso e respirare l’aria sulla cima di una montagna mentre il resto del mondo rimane al di sotto dei propri occhi.
Il principio è un luogo in pietra che non ho mai visitato prima.
Il principio è un uomo che arranca verso la città di Eisenach, dove la mia casa paterna si erge. Mio fratello Johann Balthasar. Pochi oggetti nella sacca, il fiato pesante e la fronte imperlata di sudore freddo. Le mani gelide stringono una custodia che nasconde una tromba. Appena giunge a casa è chiaro che è malato. Nell’agonia si riesce a strappargli poche parole. Dove ti sei ammalato? Che ti è successo?
La risposta è un nome, un fiore offerto in dono alla morte che sboccia dalle labbra. Io sono solo un bambino mentre tutto questo accade, spio mio fratello andarsene e lo guardo pronunciare un nome che non significa ancora nulla. Raccolgo il fiore da labbra impallidite per la morte e lo osservo.
Köten.
I miei miei ricordi si leggono confusamente nel buio, lettere che si diluiscono in gorghi di oscurità. Sono nella penombra, forse una chiesa, colonne si ergono attorno a me nei loro stami di pietra. Muovo passi insicuri, mi sembra di vedere uno spiraglio luminoso in fondo alla stanza man mano che gli occhi si abituano. Sono nel ventre di un grande edificio, non ho memoria di come vi sia entrato. Cammino verso il lembo di luce. Un ambiente di volte a crociera intonacate si schiude, finestre illuminano l’interno. Se tento di guardare fuori resto accecato dal riflesso.
Qualcosa si fa strada nelle mie orecchie, si appoggia sui miei padiglioni, ha la stessa delicatezza con cui u...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. In absentia 1
  3. In praesentia 1
  4. In absentia 2
  5. In praesentia 2
  6. In absentia 3
  7. In praesentia 3
  8. Glossario