1. Introduzione alla Meccanica Quantistica
1.1. Elettromagnetismo e polarizzazione
Nel XVII secolo due teorie erano al centro del dibattito sulla natura della luce. Da una parte, la teoria corpuscolare proposta da Isaac Newton, che si rifaceva al pensiero dei filosofi atomisti dell'antica Grecia, dall’altra la teoria ondulatoria difesa dall'olandese Christiaan Huygens. Secondo la teoria corpuscolare, la luce sarebbe costituita di particelle che si muovono in linea retta nello spazio. Secondo la teoria ondulatoria. invece, la propagazione della luce avverrebbe, come suggerisce l'aggettivo, tramite onde.
A quel tempo entrambi i modelli erano in grado di spiegare le proprietà della luce conosciute: i colori, la riflessione, le ombre. Nei decenni successivi vennero però realizzati nuovi esperimenti ed emersero nuove proprietà che potevano essere spiegate solo dalla teoria ondulatoria; tale teoria, per un lungo periodo di tempo, prevalse rispetto al modello corpuscolare di Newton. In particolare, il fenomeno dell’interferenza, scoperto all’inizio dell'Ottocento da Thomas Young, cominciò a convincere la comunità dei fisici che la propagazione della luce avvenisse tramite onde del tutto analoghe a quelle che si formano gettando un sasso in una pozza d’acqua.
Figura 1.a - I risultati del celebre esperimento della doppia fenditura di Thomas Young
La teoria ondulatoria ottenne il massimo riconoscimento nel XIX secolo grazie alla sistemazione teorica operata da James Clerk Maxwell fra il 1860 e il 1870: l’elettromagnetismo. La teoria di Maxwell considera la luce un'onda elettromagnetica, e rende perfettamente conto di fenomeni abbastanza conosciuti e comuni quali, per esempio, l'interferenza, la diffrazione e la proprietà che ci riguarda più da vicino: la polarizzazione. Il termine elettromagnetismo, come anticipato, racchiude in sé il cuore della teoria ondulatoria di Maxwell: in ogni punto di un raggio luminoso sono presenti un campo elettrico e un campo magnetico, perpendicolari l'uno rispetto all'altro e rispetto alla direzione di propagazione dell'onda.
Il campo elettrico E giace su un piano che viene chiamato Piano di Vibrazione; il nome trae origine dall’osservazione che la direzione del campo elettrico varia (vibra) nel tempo.
Facendo passare la luce attraverso determinate sostanze si ottiene, all’uscita dal materiale, un’onda luminosa il cui campo elettrico vibra sempre lungo la stessa direzione. La luce così ottenuta è detta polarizzata.
Consideriamo allora un raggio di luce che si propaga lungo una certa direzione. Poniamo lungo il suo percorso una di queste sostanze polarizzanti, per esempio un cristallo di tormalina: esso è un polarizzatore lineare. Il cristallo, infatti, fa passare tutta la luce che incide su di esso e, all'uscita, si osservano non uno, ma due raggi distinti. Questi due raggi sono entrambi polarizzati, e lo sono lungo due direzioni fra loro ortogonali, come mostrato schematicamente nella figura 1.b: il raggio superiore è tale per cui il suo campo elettrico vibra in su e in giù lungo la verticale (polarizzazione verticale), mentre quello inferiore è polarizzato orizzontalmente. In conclusione, tutta La luce che è entrata nel cristallo ne esce divisa in due raggi, ciascuno dei quali ha un'intensità luminosa pari alla metà di quella del raggio entrante; in figura 1.b (e nelle successive) questa riduzione dell'intensità è rappresentata da frecce via via più corte.
Figura 1.b - il fenomeno della polarizzazione lineare
Esistono però anche altre sostanze polarizzatrici le quali filtrano la luce polarizzata in un’unica direzione. Tali sostanze sono anche detti filtri analizzatori il cui asse privilegiato viene detto asse di polarizzazione: la luce uscente dal materiale è tutta polarizzata in accordo a questa precisa direzione.
Per chiarire, se facciamo incidere su un filtro polarizzatore che ha come asse privilegiato quello verticale (analizzatore verticale) un fascio di luce polarizzato orizzontalmente tale fascio sarà completamente assorbito dal filtro. Dunque, un analizzatore è un filtro che lascia passare solo la luce polarizzata lungo la direzione del proprio asse.
Figura 1.c - Filtri polarizzatori lineari
Facciamo un passo indietro e ruotiamo il filtro polarizzatore (il cristallo di tormalina) di 45 gradi. Il polarizzatore, da lineare, diventa diagonale: i due raggi uscenti saranno polarizzati, rispettivamente, a 45 gradi e a 90+45=135 gradi.
Figura 1.d - Polarizzatore diagonale
Se a questo punto mettiamo lungo il cammino dei due raggi luminosi un analizzatore diagonale a 45 gradi scopriremo che il fascio superiore vi passa completamente attraverso mentre quello inferiore ne viene completamente assorbito.
Figura 1.e - Luce polarizzata diagonalmente attraverso un filtro a 45°
L’ultimo caso da esaminare, in questa breve rassegna, che quello inverso: un fascio di luce polarizzata diagonalmente che viene fatto passare attraverso un analizzatore verticale.
Figura 1.f - Luce polarizzata diagonalmente attraverso un filtro verticale
Tale caso mostra che luce uscente ha una intensità dimezzata rispetto a quella entrante. Lo stesso risultato si sarebbe riscontrato anche nel caso si fosse usato un analizzatore orizzontale.
La teoria classica dell’elettromagnetismo spiega perfettamente tutti questi fenomeni in termini ondulatori, prevedendo per un raggio di luce polarizzata proprio i comportamenti osservati sperimentalmente e riassunti qui da noi in precedenza.
1.2. La teoria quantistica e le sue novità
Alla fine del XIX secolo la teoria ondulatoria sembrava poggiare su solide basi e tutti gli esperimenti confermavano le previsioni teoriche. L’esempio della polarizzazione descritto in precedenza è soltanto uno dei fenomeni fisici del mondo della radiazione descritti dalla teoria di Maxwell.
Tuttavia, la fisica dell’epoca era divisa in due grandi filoni: da un lato la fisica del mondo della radiazione, imperniata sul concetto di onda elettromagnetica, dall’altra la fisica del mondo della materia, popolata da atomi e corpuscoli soggiacenti alle leggi della meccanica newtoniana. Questi due filoni non potevano restare separati per molto ma erano destinate a fondersi in un’unica teoria che spiegasse come avvenivano gli scambi energetici tra materia e radiazione, ed è qui che sorgevano le difficoltà.
Nell’anno 1900, il fisico Max Planck, studiando la radiazione emessa da un corpo nero (cioè un corpo che assorbe tutta la radiazione che incide su di esso), giunse alla seguente conclusione: gli scambi di energia fra radiazione e materia avvengono in modo non continuo ma per multipli di una quantità elementare, discreta, di energia. Tale quantità è data dal prodotto della frequenza dell’intensità della radiazione per una costante fondamentale: la costante di Planck h, chiamata dallo stesso Planck quanto d’azione elementare [1].
Planck riuscì a formulare un’espressione matematica che descriveva il fenomeno della radiazione del corpo nero perfettamente in accordo con i dati sperimentali. Tuttavia, il quanto si rivelò estremamente restio a farsi inserire nella teoria classica: fin tanto che lo si considerava infinitamente piccolo andava tutto bene, ma nel caso generale, al contrario, si spalancava una voragine, che per usare le parole dello stesso Planck “era sempre più impressionante al diminuire dell’energia coinvolta nel processo” [1].
Pochi anni dopo, nel 1905, Albert Einstein spiegò in un celebre articolo il fenomeno noto come effetto fotoelettrico: se si invia un raggio di luce contro una placchetta metallica quest’ultima, in determinate condizioni, emette elettroni. In particolare, l’intensità della radiazione incidente influisce non sulla velocità degli elettroni ma solo sul loro numero.
L’idea di Einstein consisteva nel fatto che tutta la radiazione luminosa di una data frequenza f fosse un insieme di quanti di energia E = hf. Einstein affermava quindi che ad una maggiore intensità della radiazione luminosa corrisponderebbe un numero maggiore di quanti di energia presenti nella luce e, di conseguenza, un numero maggiore di elettroni estraibili dal metallo.
Sebbene sia Einstein che Planck utilizzassero il concetto di quanto nessuno dei due usò mai la parola fotone che venne invece coniata dal chimico Gilbert Lewis nel 1926 [2].
Einstein venne insignito del premio Nobel nel 1921, Planck 3 anni prima; citando le sue stesse parole: “nel corso di quel ventennio erano state gettate le basi per qualcosa di completamente nuovo, di cui mai prima si era sentito parlare, che sembra doverci portare a rivedere completamente il modo in cui pensiamo funzioni il mondo fisico”: la meccanica quantistica.
Negli stessi anni un altro grande contributo alla teoria quantistica venne da Werner Heisenberg, che affermava: “la fisica classica sembra essere il limite visibile ad una microfisica non visibile; un limite, quello classico, tanto più raggiungibile quanto più risulta trascurabile la costane di Planck rispetto ai parametri del sistema” [3].
Il primo tentativo di conciliare le due teorie, quella dell’elettromagnetismo con quella dei fotoni, arrivò nel 1924 da Louis de Broglie: partendo dall’idea che, come suggerito da Einstein, la luce possa presentare, a seconda dei casi, una natura corpuscolare o una natura ondulatoria, de Broglie azzardò che anche per la materia fosse necessario introdurre il concetto di onda e corpuscolo allo stesso tempo [4]. In altre parole, l’esistenza di onde in simbiosi con corpuscoli deve essere presupposta in tutt...