Gli Spinosi Cactus Di Palestina-Israele
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"Nella ormai quasi centenaria tragedia israelo-palestinese parole come "processo di pace", "road map", "sicurezza", sono state solo fumo negli occhi da parte di Israele, cavilli pretestuosi per prendere tempo e continuare nel suo astuto progetto di accaparrarsi le terre palestinesi, occultando gli eventi nella loro cruda semplicità e facendo passare le conseguenze per cause. Israele non ha MAI rischiato di scomparire, al contrario, non ha fatto che rafforzarsi ed espandersi con la complicità del mondo – soprattutto dei potenti Stati che a suo tempo non ostacolarono il sorgere del nazismo e poi accolsero solo in minima parte i profughi ebrei, ed ora pensano di riscattarsi sostenendo l' "industria dell'Olocausto" ( titolo di un libro dell'ebreo Norman Finkelstein). (…) Perché dovremmo avere paura d arrabbiarci? Perché dovremmo temere i nostri sentimenti se sono basati su inoppugnabili fatti? Lo schema che oppone la ragionevolezza alla passione è assurdo, perché spesso un atteggiamento passionale è il risultato di un processo razionale. La passione non è sempre irragionevole (…). Non credo nella passione irrazionale. Ma sono convinta che non esista nulla di meraviglioso quanto un'ardente passione intellettuale, e questa mi guida ormai da decenni nel seguire incessantemente la tragedia del popolo palestinese e denunciare le sempre più pesanti prevaricazioni di Israele".

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9791220319553
Argomento
Storia
Quale ritorno a Sion?
“La mia storia a saccheggio.
Saccheggio d’ossa di padri,
avi proibiti, come perdonare?”

(Tawfiq Zayyad, poeta palestinese)
A volte, dopo una mia conferenza, sono stata accusata da qualcuno di avere esposto le vicende storiche dal punto di vista dei palestinesi, e rivendico pienamente questo diritto. Dovrei forse esporle da quello dei vincitori che tutti già conoscono essendo la vulgata indiscussa della politica e dei media di quell’Occidente di cui Israele è fin dalla sua nascita membro a pieno titolo? In ogni modo, e questo non smetterò di sottolinearlo, io non mi occupo di punti di vista ma di inoppugnabili fatti, soprattutto dei fatti distorti, rimossi o più semplicemente negati che ho scoperto qui e là nelle documentate pagine dei libri che cito alla fine di questo testo, per cui sento il dovere di ricollocare le vicende della Palestina nel loro contesto reale. E tanto più in questi giorni in cui Gaza viene massacrata dalla quarta potenza militare al mondo - che detiene illegalmente dalle duecento alle quattrocento testate nucleari, non essendosi nemmeno mai preoccupata di firmare gli accordi di non-proliferazione - allo stesso modo del Pakistan, altro storico alleato degli USA - mentre i mass-media parlano di “guerra” come se a combattersi fossero due Stati indipendenti e sovrani.
Israele – dove, con una popolazione poco maggiore di Los Angeles, si parlano trentadue lingue e si contano più di venti partiti – è uno Stato tutt’altro che omogeneo. Di fatto, per quanto sia ritenuto una democrazia - mentre etnocrazia sarebbe un termine più appropriato - è una “democrazia” assai anomala, a cui il laico Ben Gurion, il più famoso dei padri fondatori, non riuscì nemmeno a dare una Costituzione “per non rompere la fragile intesa tra gli ebrei che teneva insieme il nuovo stato” (NOTA: Cfr. Susan Nathan, Shalom, fratello arabo. Ed. Sperling & Kupfer, 2005. Nata in Inghilterra da un’importante famiglia ebraica sionista, nell’infanzia conobbe l’apartheid in Sudafrica, terra d’origine del padre. A 50 anni si trasferì in Israele, nella cittadina araba di Tamra), cioè soprattutto per non irritare la componente religiosa che riconosceva come unica legge valida la halakhah, il sistema giuridico proprio del giudaismo, basato sulla Torah e sviluppato da successive interpretazioni rabbiniche. In mancanza di una Costituzione si ricorse all’escamotage di istituire undici Leggi fondamentali. Si pensò anche di concedere agli haredim – gli ebrei ortodossi antisionisti che i sionisti consideravano un triste retaggio della Diaspora – la deroga alla legge del servizio militare obbligatorio (NOTA:Pur se esentati, essi godono dei molti benefici per cui la maggioranza dei soldati si arruola. Gli arabi israeliani, sia cristiani che musulmani, ovviamente non si arruolano – tranne che in pochissimi casi - per motivi politici. I beduini invece possono prestare servizio volontario, di solito nel Corpo dei cacciatori del deserto. I drusi hanno invece l’obbligo di prestare servizio militare) e si attribuì al Rabbinato ortodosso ampia facoltà di giurisdizione su aspetti legati a nascita, morte, matrimonio, regole alimentari, nonché il potere di determinare l’ebraicità di una persona.
“Finora i legislatori israeliani si sono rifiutati di stendere una Costituzione proprio perché risulterebbe priva di legittimazione internazionale se non includesse quei principi di uguaglianza in grado di rafforzare la possibilità d’azione della minoranza araba contro gli atti discriminatori perpetrati dagli enti statali”, scrive Susan Nathan (NOTA: Nathan, op cit., pagg. 100-1). “Al suo posto Israele ha costruito, invece, un sistema legislativo che maschera con cura tale disparità: per fare un esempio, se la Legge del ritorno afferma nero su bianco di offrire speciali privilegi agli ebrei, altre attuano la stessa distinzione senza essere altrettanto esplicite; altre ancora, così come vari decreti, si riferiscono soltanto a chi risulta idoneo per il servizio militare, che ancora una volta equivale a dire ai soli ebrei”. Mancando una Costituzione, manca di conseguenza una codificazione di diritti di base, per cui l’uguaglianza, la libertà di opinione e diritti sociali come sanità, welfare, diritto al lavoro e all’istruzione non sono garantiti per legge, mentre importanti diritti collettivi nazionali in base ai quali viene determinata, per esempio, l’allocazione delle risorse, sono riconosciuti solo ai cittadini ebrei.
Va ricordato che nella Dichiarazione d’indipendenza pubblicata il 14 maggio 1948 allo scadere del Mandato britannico, mentre si proclamava la fondazione di uno Stato ebraico in Palestina, con una contraddizione in termini si prometteva di “difendere la completa uguaglianza sociale e politica di tutti i suoi cittadini, senza distinzione di religione, razza e sesso” e ci si impegnava a redigere una Costituzione entro il I ottobre 1948. Quanto sono labili le promesse sioniste!
In questa strana democrazia dove sono in vigore leggi religiose, la halakhah, accanto a leggi secolari, non c’è dunque separazione tra stato e chiesa (ma qualcuno ha mai criticato questa identificazione che tanto viene invece stigmatizzata nell’islam?); per legge, tutti i cittadini israeliani devono essere classificati in base alla religione a cui appartengono – giudaismo, islam, cristianesimo – e, per evitare matrimoni misti, non ci si può sposare se non con rito religioso, il che rende impossibili le nozze tra persone di fedi diverse, a meno che uno dei due non si converta all’ebraismo. Anche il divieto ebraico dell’allevamento del maiale è imposto da una legge, per quanto vi siano allevamenti sospesi da terra, così da aggirare il divieto di contaminazione. Poiché il giudaismo è religione di Stato e lo Stato è dichiaratamente lo Stato degli ebrei, non sarebbe più corretto definire Israele “uno stato etnico che pratica apartheid”, visto che democrazia significa che lo stato è di tutti i suoi cittadini? I cittadini arabi, invece, pur avendo il diritto di voto (NOTA: I deputati arabi alla Knesset di fatto sono sempre stati meno di dieci: sembra che, pur non esistendo una legge che fissa un limite al loro numero, un vincolo venga imposto “di fatto” – in accordo con gli accorgimenti adottati da Israele anche in altri settori della vita quotidiana, allo scopo di salvare le apparenze - da un sistema elettorale e da una delimitazione dei collegi concepita in modo tale da ottenere un simile risultato) vengono discriminati - in campo economico, educativo, socio-sanitario - da molte leggi, come quella sulla cittadinanza, che va contro i non-ebrei, o quella fondiaria che vieta agli arabo-israeliani - il 20% della popolazione di Israele con 1.300.000 cittadini - di acquistare terreni. Il 93% della terra è infatti gestita dalla Israel Land Administration e dal Fondo nazionale ebraico che la danno in concessione solo a ebrei. Gli arabo-israeliani sono stati così confinati nel 3,5% del territorio del paese e ancora continuano a subire confische e ad essere penalizzati in molti modi. (NOTA: Cfr. La Nuova Intifada,a cura di Roane Carey,Tropea Editore, 2002, pag. 173: per attuare questi espropri si approvarono sei apposite leggi, in nessuna delle quali appariva la parola “arabo”, superflua perché le uniche terre di proprietà privata erano di cittadini arabi). Il 90 % di loro vive in città o villaggi arabi dove la disoccupazione arriva al 20% - oltre il doppio della media nazionale - e i servizi e le infrastutture riservati agli arabi sono da paese in via di sviluppo. Israele dunque può a ragione essere definito uno Stato etnocratico, piuttosto che democratico. Tzvetan Todorov sottolinea che una democrazia moderna non può mai essere “una etnocrazia, vale a dire uno stato in cui l’appartenenza ad un’etnia assicura dei privilegi sugli altri abitanti del paese” (NOTA: Cfr. La paura dei barbari, pag. 95).
Un’altra anomalia di questa singolare “democrazia” è che dei sei milioni e mezzo di abitanti – ebrei e arabi – che hanno la cittadinanza israeliana, nessuno viene considerato di nazionalità israeliana. “Il ministero degli Interni ha attribuito centotrentasette diverse nazionalità ai cittadini del paese (tra cui quella giudaica, georgiana, russa, ebraica, araba, drusa, abkhaza, assira e samaritana), per preservare l’idea di Israele come nazione ebraica. Chiunque abbia cercato di farsi registrare come israeliano si è visto respingere la richiesta” (NOTA: Nathan, op. cit., pag. 320).
In una democrazia dovrebbe anche vigere la libertà di parola, mentre ad Israele la censura è molto attiva nei riguardi di chi va contro la vulgata dello Stato. Per citare qualche caso famoso, l’attore e regista arabo-israeliano Mohammed Bakri è stato sottoposto a processo per aver girato il film “Jenin Jenin”, che documenta il massacro compiuto nel 2002 dall’esercito israeliano nel campo profughi della città cisgiordana, e un noto storico come Ilan Pappe di Haifa ha lasciato la cattedra all’Università della sua città perché sottoposto a boicottaggio per le sue ricerche sulle atrocità compiute contro i palestinesi nel 1948-49: in sostanza, per aver definito il sionismo “progetto coloniale responsabile della pulizia etnica di quegli anni”. “In Israele non c’è una democrazia compiuta”, ha detto Pappe in un’intervista (NOTA:L’intervista, concessa a Michele Giorgio, in Altermedia.info, 26-7-2005). “Ci sono argomenti che rimangono un tabù, verità ufficiali che nessuno deve mettere in discussione altrimenti scattano le punizioni e talvolta si arriva alla diffamazione. Ad esempio, è stata accolta con disgusto la mia proposta di sanzioni internazionali contro Israele sino a quando questo paese non consentirà ai palestinesi di vivere liberi e indipendenti, proprio come si fece nel caso del Sudafrica razzista. Sono stato attaccato duramente, e non sono mancati anche gli insulti. Allo stesso tempo ho ricevuto lettere di approvazione da parte di molti israeliani, a conferma che la società di questo paese è viva e capace di mettersi in discussione, anche se resta in gran parte prigioniera del mito, dell’ideologia, del nazionalismo. (…) Il pluralismo di idee, sebbene sia ufficialmente garantito, di fatto è soggetto a limitazioni importanti che, a mio avviso, pongono dubbi sull’effettivo carattere democratico di Israele”. Nella primavera del 2005, gli accademici britannici attuarono un boicottaggio – di cui discutevano dal tempo del massacro di Jenin - contro l’Università di Haifa, quella di Bar Ilan (Tel Aviv) e altre Università israeliane (NOTA: Nel caso di Haifa, oltre al boicottaggio di Pappe si voleva punire la discriminazione verso gli studenti arabi. Quanto a Bar Ilan, questa Università sostiene un College nella colonia ebraica di Ariel, nei Territori Occupati, violando le risoluzioni internazionali. Sari Nusseibeh, rettore dell’Università Al-Quds di Gerusalemme, si dichiarò contrario al boicottaggio delle università, e Pappe nella citata intervista disse a questo proposito:“Purtroppo Nusseibeh e buona parte dei palestinesi continuano ad essere molto ingenui nei riguardi del sionismo. Dopo tanti anni non ne hanno ancora compreso gli obiettivi” )
In questa moderna “democrazia” è ancora in vigore il sistema consuetudinario coloniale inglese (NOTA: I decreti d’urgenza del 1945, imposti dalla potenza mandataria e ancora in vigore,vennero descritti all’epoca dall’ebreo Yaakov Shinson Shapiro - che negli anni Settanta sarebbe diventato Ministro della Giustizia in Israele - come “peggiori delle leggi naziste”. Nel 1950 Israele votò la legge contro il terrorismo, ispirata da una legislazione simile vigente nell’impero britannico, per scongiurare i rischi che organizzazioni sioniste di estrema destra promuovessero una politica di destabilizzazione contro il giovane Stato ebraico. Sia i decreti del ’45 che questa legge contro il terrorismo esigono che sia il sospettato a dimostrare la propria innocenza. Cfr. M. Warschawski, Sulla frontiera, Città Aperta, 2002) e c’è chi giura che continuerà ad essere usato fino a quando ci saranno palestinesi all’interno di Israele. In particolare, è usatissima una legge che, promulgata dall’Inghilterra al tempo del Mandato per scoraggiare il terrorismo sionista, esige che la casa di chi commette un attentato venga abbattuta. Ancora in vigore è anche una legge ottomana secondo la quale – essendo la maggior parte delle terre proprietà del sultano, cioè miri - se per tre anni i contadini fittavoli non le coltivavano, queste tornavano al sultano. Considerandosi successore dell’impero ottomano, Israele si serve ancora oggi di questa legge per spossessare gli arabi di Palestina delle loro proprietà.
Questa “democrazia” unica, più che rara, non ha a tutt’oggi confini nazionali, per riservarsi in questo modo la possibilità di annettersi, come sta facendo, la maggior parte della Palestina, in una illegalità patente e arrogante che quasi nessuno osa, non dico chiedere di punire, ma nemmeno criticare. Quanto alla sua posizione nei riguardi degli accordi internazionali, Israele – oltre a non aver firmato gli accordi di non-proliferazione nucleare (NOTA: Nel ’61 Kennedy fece invano pressioni per far aprire Dimona ad ispezioni internazionali – ma Israele non venne sottoposto a sanzioni come l’Iraq e l’Iran) – si ritiene esentato dalle Convenzioni di Ginevra, congegnate dalle Nazioni Unite nel 1949 per prevenire il ripetersi delle pratiche naziste di insediamento e sfruttamento delle popolazioni civili sotto occupazione e per proteggere le popolazioni civili in territori occupati a seguito di attività belliche. Inoltre è l’unico stato membro ammesso all’ONU (Nota: Cfr. la risoluzione 2733 (III) dell’11-5-’49), l’undici maggio 1949, a condizione che applicasse la risoluzione 194 - facendo cioè rientrare i rifugiati palestinesi scacciati o fuggiti nel 1948 - e la 181, che gli imponeva il ritiro entro i confini del piano di spartizione elaborato dalle Nazioni Unite, oltre al riconoscimento dello status di città internazionale di Gerusalemme (NOTA: Cfr. La Nuova Intifada, op. cit., pag. 361). Nonostante questa ammissione condizionata alle Nazioni Unite - che nessuno peraltro gli ha mai ricordato e di cui si è addirittura perduta la memoria – Israele si è dimostrato, insieme agli USA, lo stato che ne ha maggiormente disatteso le risoluzioni: più di duecento, come vedremo in seguito. Israele – che ha praticato e continua a praticare la tortura – è anche l’unico Stato fra le “democrazie” mondiali ad averla legalizzata – come dice Amnesty International – nonostante sia tra i firmatari della Convenzione contro la tortura dell’ONU (NOTA: Solo nel 1999 l’Alta Corte di Giustizia del paese intervenne per mettere un freno all’uso della tortura negli interrogatori. Cfr. Paolo Barnard: Perchè ci odiano Rizzoli Bur, 2006. Barnard, giornalista, è stato corrispondente all’estero dei maggiori quotidiani italiani e ha realizzato inchieste per la trasmissione Report di Rai 3. Collabora ora con Rai educational).
A mezza strada fra giustificazione e critica di questa “strana democrazia” è la seguente spiegazione di Meron Benvenisti, sindaco di Gerusalemme dal 1967 e per molti anni collaboratore di Teddy Kolleck che fu a capo della città fino agli anni Novanta: “La costituzione dello Stato di Israele aveva il significato dell’attribuzione di un simbolico marchio di legittimità al processo in atto di realizzazione del sionismo. Così continuarono ad identificare gli obiettivi dello Stato e le norme di governo con le politiche del periodo pre-statale. Ciò ha prodotto leggi e norme offensive dei diritti fondamentali della civile e umana uguaglianza intrisi di arbitrio e discriminazione etnica. I capi di Stato di Israele ed i loro più stretti collaboratori non avevano cioè imparato a differenziare fra le azioni di leader etnici senza autorità statale impegnati in una guerra intercomunale contro altri leader etnici (..) e le azioni compiute da capi di Stato capaci di approvare leggi nazionali e di farle rispettare da un esercito nazionale soggetto alla loro autorità.(NOTA: Cfr. Benny Morris, Vittime)”. Diversamente da Pappe, che parla chiaro usando apertamente il termine di pulizia etnica per definire l’espulsione dei palestinesi dalla loro terra, Benvenisti - conformemente a quanto riportato sopra, cioè distinguendo tra prima e dopo il 15 maggio 1948 – servendosi dei funambolismi verbali tipici dei sionisti più “aperti”, definisce “pericolosamente vicine a ciò che viene definito ‘pulizia etnica’ ” solo le espulsioni effettuate dopo questa data, aggiungendo che in effetti “ebbero luogo atrocità che potrebbero essere definite come crimini di guerra”.
Perché “potrebbero”, mi chiedo? Sono, senza dubbio, crimini di guerra! Molti episodi della cacciata dei palestinesi furono infatti esattamente uguali nelle terribili modalità – massacri, stupri, punizioni collettive – a quanto avvenne nel corso di altri recenti eventi bellici che tanto “turbarono” l’Occidente da farlo intervenire in armi per togliere di mezzo quello che avevano designato come il “cattivo” di turno.
“Israele deve scegliere se essere uno Stato di diritto o uno Stato pirata”, chiese al parlamento - dopo il primo dirottamento “di Stato” israeliano di un aereo di linea siriano nel 1954 - (NOTA: Cfr. Avi Schlaim, Il muro di ferro, Ed. il Ponte, 2003, pag. 126 e segg. Schlaim è nato nel 1945 a Baghdad ed è cresciuto in Israele) Moshe Sharett, che si alternò con Ben Gurion nella carica di primo ministro all’inizio degli anni cinquanta del Novecento. Che egli sia stato in seguito estromesso dalla vita politica dai sionisti di ferro del suo tempo – il duo laburista Ben Gurion-Moshe Dayan – la dice lunga sulla linea politica che ha trionfato in Israele. Sharett (NOTA: Nato in Ucraina nel 1894 con il nome di Moshe Shertok, emigrò a quattordici anni nella Palestina ottomana. Morì nel 1965. Fu un profondo conoscitore della cultura e della lingua araba e rispettava la sensibilità araba e internazionale. A lui si ispirò il movimento pacifista israeliano) infatti è oggi giudicato un politico debole, mentre era in realtà un intellettuale di larghe vedute, la cui linea politica avrebbe potuto avere conseguenze meno nefaste di quella che ha finito per imporsi. Avendo trascorso una parte dell’infanzia in un villaggio arabo, egli parlava correntemente la lingua, aveva amici arabi, conosceva bene storia, cultura e politica araba e poteva concepire una società multietnica formata da ebrei e arabi. Prima che degli avversari, i palestinesi erano per lui “un popolo fiero e sensibile”, come ebbe a dire, con “un intelletto estremamente acuto e sentimenti delicati”. Più unico che raro tra i politici sionisti - soprattutto i dogmatici autoritari alla Ben Gurion – Sharett credeva nella necessità di una diplomazia paziente, di un linguaggio di conciliazione e di gesti di buona volontà per ridurre la comprensibile ostilità araba. Riconoscendo che fra israeliani e palestinesi si era creato un muro, aggiunse: “E’ tragico che questo muro diventi sempre più alto. Cionostante, se si può impedire che diventi ancora più alto, se ciò è ancora possibile, allora è un sacro dovere farlo”. Al contrario, ben lungi dal decostruire questo muro simbolico come auspicava Sharett, il sionismo ha addirittura costruito un concreto, mostruoso muro di cemento - dichiarato illegale dalla Corte internazionale dell’Aia - che, ghettizzando la Cisgiordania ghettizza, benché in modo diverso, anche Israele. E forse non tutti sanno che è stato il patito Laburista, non il Likud, ad iniziarne la costruzione.
In ogni modo, come riconoscono tutti gli osservatori non ideologizzati, nonostante le apparenze il sionismo ha in sostanza fallito il proprio scopo. “La rivoluzione sionista è morta”, titolò un suo articolo del 2003 Avrum Burg individuando due cause essenziali di questo fallimento: l’occupazione da un lato, con i suoi perversi effetti sulla società e sullo Stato, e dall’altro la corruzione endemica che divora Israele. Le idee espresse nell’articolo non sono originali, altri le avevano espresse prima e forse meglio di Burg, ma ciò che fece scalpore in Israele fu il fatto che Burg fosse quello che nel paese si definisce un “principe”, cioè un membro della seconda generazione di dirigenti storici israeliani, che fu presidente dell’Agenzia ebraica e anche del parlamento, oltre ad essere figlio di un dirigente del partito nazional-religioso che fu ministro in tutti i governi dalla fine degli anni ’...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Indice
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. - Prefazione: Luna piena sulla piazza
  6. - 1) La guerra delle parole
  7. - 2) Quale ritorno a Sion? (la Palestina e il sionismo)
  8. - 3) Verso la nascita dello Stato di Israele (dalla Dichiarazione Balfour al 1945)
  9. - 4) Dietro le quinte: Salomone e le due madri (29 novembre 1947: la spartizione della Palestina)
  10. - 5) Un mondo rubato: la pulizia etnica della Palestina (1947-1948)
  11. - 6) Chi ha paura del “piccolo David”? (la guerra del 1948)
  12. - 7) La Nakba continua (pulizia etnica dopo la fondazione dello Stato di Israele)
  13. - 8) E poi… fu il silenzio: dalla Nakba alla Naksa (dal 1948 al 1967)
  14. - 9) Dietro la tenda dell’Olocausto
  15. - 10) Concedere o restituire? (dalla guerra dei sei giorni ad oggi. Gli accordi di Oslo)
  16. - 11) Vita sotto occupazione e dintorni
  17. - 12) L’inchiostro dei sapienti e il sangue dei martiri
  18. Postfazione