Il mobbing nell'esercito, nella Guardia di Finanza, nella Polizia e negli altri corpi dello Stato
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Il mobbing nell'esercito, nella Guardia di Finanza, nella Polizia e negli altri corpi dello Stato

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Il mobbing è una condotta ostile capace di destabilizzare la vittima che, isolata e impotente, sperimenta forti sentimenti di angoscia e di mortificazione morale, sino a compromettere la sua capacità di vivere la quotidianità e di autodeterminarsi. Esso colpisce la professionalità di chi lo subisce, la sua capacità di mettersi in relazione con gli altri e la sua autostima, ledendo l'equilibrio psicofisico e provocando danni sociali e psicologici.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788831686143
IL MOBBING
Laura Lieggi
Maria Laura Triggiani
Avvocate
1. L’evoluzione del fenomeno
sociale (Lorenz, Leymann, Ege)
Nella dimensione concreta e reale delle vicende lavorative si verificano situazioni che minano la libertà, la dignità, la salute e la professionalità del lavoratore. Tra queste rientra il fenomeno sociale del mobbing, la cui teorizzazione, seppur non recente, resta pressappoco ignorata dai più.
Il termine mobbing è stato coniato agli inizi degli anni ‘70 dall’etologo austriaco Konrad Lorenz per descrivere il comportamento degli animali della stessa specie che si coalizzano contro un elemento indesiderato e mutuato dal verbo anglosassone to mob (a sua volta derivato dalla locuzione latina mobile vulgus, ossia letteralmente “movimento del popolo”), il cui corrispettivo italiano si traduce in "assalire, accalcarsi intorno a qualcuno”.
Il suo utilizzo in ambito lavoristico si deve al dott. Heinz Leymann che, trovando un addentellato tra le ricerche di K. Lorenz e la psicologia umana, lo declinò come “una comunicazione ostile e non etica diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo che è progressivamente spinto in una posizione in cui è privo di appoggio e di difesa e lì relegato per mezzo di ripetute e protratte attività mobbizzanti” (definizione di mobbing “in senso stretto”).
In seguito, il ridetto H. Leymann chiarì che il mobbing si manifesta attraverso una serie di azioni ripetute nel tempo (“si verificano molto frequentemente, almeno una volta alla settimana, e per un lungo periodo di tempo, per almeno sei mesi”) compiute da uno o più attori per danneggiare metodicamente un’altra persona: la vittima.
Un altro antesignano, tuttora vivente, è il dott. Harald Ege, il quale ha sempre limitato il suo raggio di indagine alla sola realtà lavorativa italiana, al punto da fondare a Bologna la prima associazione italiana contro il mobbing e stress psicosociale: “Prima”. Egli definisce il fenomeno in scrutinio come “una forma di terrore psicologicosul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori”1.
Il mobbing, quindi, si può compendiare in quella forma di pressione psicologica esercitata sul posto di lavoro attraverso condotte aggressive e sopraffattorie attuate con modalità polimorfe nel tempo (almeno 6 mesi), le quali producono uno stato di considerevole sofferenza sul piano mentale, psicosomatico e sociale alla vittima.
A ben vedere, risultano indispensabili le condizioni modali della ripetitivitàe della duratadegli atti mobbizzanti. Ne deriva che una semplice critica, uno scherzo, anche di cattivo gusto, un innocuo trasferimento, una singola molestia sessuale o la “normale conflittualità” collettiva all’interno dei luoghi di lavoro non costituisce il fenomeno sociale de quo.
Il discrimine tra la normale conflittualità nei rapporti lavorativi o in quelli professionali e il mobbing consiste nell'azione sistematica, premeditata e finalizzata all’esclusiva produzione del danno, morale e patrimoniale, a una vittima designata.
2. Le parti nel mobbing e la metodica assunta
I numerosi casi trattati portano alla perfetta identificazione delle parti coinvolte, degli scenari presenti e delle metodiche realizzate, cosicché una singola vicenda di mobbing assurge a verità comune riscrivendo un copione purtroppo più volte letto.
Nel mobbing i principali protagonisti coinvolti sono:
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il mobber o soggetto attivo, ovvero colui che compie l’azione afflittiva per svariati motivi, ad esempio, per paura di perdere il lavoro, per carrierismo, per pura invidia o antipatia o genuino divertimento.
Alcuni aggressori hanno la contezza del ruolo assunto, si compiacciono dei comportamenti tenuti e ne accettano le conseguenze. Diversamente, altri mobbers non riescono neppure a prospettarsi gli effetti delle proprie azioni o addirittura fanno ricadere sugli altri le conseguenze derivanti dalla propria ed esclusiva responsabilità;
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il mobbizzato o la vittima, che può essere chiunque e non necessariamente una persona dall’indole passiva e debole. In alcuni casi si caratterizza per la sua diversità rispetto agli altri, ad esempio nel caso di donna tra gli uomini o dello straniero tra i lavoratori autoctoni;
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gli spettatori, ossia coloro che partecipano agli episodi, assecondandoli o restando neutrali (si distinguono in indifferenti, in side-mobbers perché aiutano concretamente il mobber nell’impresa, in co-mobber perché collaborano subdolamente alle azioni mobbizzanti) oppure interrompendoli, prendendo le difese della vittima (i c.d. oppositori purché abbiano l’influenza e l’autorità per farlo, ad esempio il capo ufficio rispetto allo stagista).
Non è possibile indurre dall’esperienze particolari una situazione tipo generale o una peculiarità della personalità della vittima di per sé causativa del mobbing, in quanto sono coinvolti molteplici fattori.
Il dott. H. Leymann vedeva nel conflitto lavorativo, ossia nella perdurante distorsione delle relazioni interpersonali, il presupposto della nascita del fenomeno mobbizzante e ne ricercava i motivi:
a. la carente organizzazione del lavoro, poiché i problemi organizzativi e di distribuzione sono fonte di enorme stress per i lavoratori, capaci di liberarsene attraverso il riversamento su un determinato e presunto colpevole;
b. le mansioni lavorative ripetitive e monotone, le quali spingono il mobber a ricorrere alle azioni mobbizzanti per sfuggire alla noia della monotonia;
c. la direzione aziendale quando ignora le precipue esigenze dei lavoratori, sempre più insoddisfatti e in cerca di diversivi appaganti;
d. la dinamica sociale del gruppo di lavoro, ovvero la relazione intercorrente tra i colleghi, che può variare in base alla sovra o sotto attivazione.
Di conseguenza, se il carico di lavoro è eccessivo gli individui lavorano sotto pressione e scontano la quantità di tensioni accumulate sugli altri.
Va precisato che il mobbing è indipendente dall’indole delle vittime, le quali non hanno alcun “problema psicologico”, contrariamente a quanto sostengono alcune teorie scriteriate, che individuano specifici soggetti maggiormente a rischio ma tralasciano gli aspetti del sistema (le regole e le problematiche del mondo del lavoro) e della realtà sociale in cui il fenomeno si sviluppa.
Uno spettro esaustivo delle angherie subite è quasi impossibile, in quanto i mobbers possono esprimersi e comportarsi, direttamente ed indirettamente, in svariati modi inesauribili.
Tuttavia, il dott. H. Leymann ha elaborato come strumento di indagine il questionario LIPT (Leymann Inventory of Psychological Terrorism)2 che categorizza diverse tipologie di azioni mobbizzanti.
a. Attacchi alla possibilità di comunicare;
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il capo limita le possibilità di esprimersi della vittima;
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la vittima viene sempre interrotta quando parla;
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i colleghi limitano le possibilità di esprimersi della vittima;
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si urla o si rimprovera violentemente la vittima;
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si fanno critiche continue sul suo lavoro e sulla sua vita privata;
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le si rifiuta il contatto con gesti o sguardi scostanti.
b. Attacchi alle relazioni sociali (isolamento fisico della vittima):
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non le si rivolge più la parola;
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viene trasferita in un ufficio lontano dai colleghi;
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si proibisce ai colleghi di parlare con lei.
c. Attacchi all’immagine sociale (la vittima è bersaglio di offese sul piano lavorativo e su quello privato):
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si sparla alle sue spalle;
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le si sospetta di essere malata di mente;
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si prende in giro un suo handicap fisico;
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si costringe la vittima a fare lavori umilianti;
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si giudica il suo lavoro in maniera sbagliata e offensiva;
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le si dicono parolacce o altre espressioni umilianti;
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le si fanno offerte sessuali, verbali e non.
d. Attacchi alla qualità della situazione professionale e privata (attraverso sabotaggi):
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non le si danno più compiti da svolgere;
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le si toglie ogni tipo di attività lavorativa in modo che non possa più nemmeno inventarsi il lavoro;
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le si danno lavori molto al di sotto della sua qualificazione professionale;
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le si danno lavori umilianti;
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le si danno compiti molto al di sopra delle sue capacità per screditarla.
e. Attacchi alla salute (aggressioni fisiche, lavori rischiosi):
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la vittima è costretta a fare lavori che nuocciono alla sua salute;
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la si minaccia di violenza fisica;
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le si fa violenza leggera (ad es. uno schiaffo) per darle una lezione;
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le si mettono le mani addosso a scopo sessuale.
3. Come riconoscerlo
Il mobbing è un processo in crescendo secondo fasi ben prevedibili e identificabili.
Tra i vari modelli che gli studiosi hanno elaborato per facilitarne il riconoscimento vi è quello del dott. H. Ege, che descrive il fenomeno secondo uno schema sequenziale con diversi stadi nei quali pone in evidenza il punto di vista dell'individuo mentre subisce le azioni vessatorie:
a. la pre-fase detta “condizione zero” (non è ancora mobbing), caratteristica della sola realtà italiana.
Si sostanzia nel conflitto normale, fisiologico e comunemente accettato, ossia nella situazione di frizione (ad es. diverbi, antipatie, piccole ripicche, competizione, tentativi di far carriera etc.) che riguarda tutti i lavoratori e non una vittima precisa;
b. la fase del “conflitto mirato”, dove il ruolo della vittima è cristallizzato, cosi come l’obiettivo di distruggerla, di eliminarla e di dirigere su di essa la conflittualità generale, attraverso attacchi non più limitati all’ambito professionale ma che attengono anche argomenti della sfera privata;
c. la fase di “inizio del mobbing”, contraddistinta dalla percezione da parte del mobbizzato del mutamento delle relazioni con i colleghi (c.d. stigmatizzazione collettiva);
d. la fase dei “primi sintomi psicosomatici”, in cui la vittima inizia ad essere ossessionata dal lavoro, a sentirsi inadeguata e a somatizzare il disagio, avvertendo insonnia, problemi digestivi ed altri disturbi che la costringono ad assentarsi per malattia;
e. la fase degli “errori ed abusi dell’amministrazione del personale”, quando il caso di mobbing trascende i limiti dell'ufficio/reparto e diventa pubblico, favorito dagli errori di valutazione dell’amministrazione del personale che, diffidando della lealtà del dipendente, prende provvedimenti disciplinari nei suoi confronti per le sempre più frequenti assenze e per la ridotta produttività lavorativa;
f. la fase del “serio aggravamento della salute psicofisica della vittima”, dove il mobbizzato soffre di forme depressive e si cura con psicofarmaci che lasciano insoluto il problema.
La vittima mortificata non è in grado di rendersi conto dell’ambiente ostile e sfavorevole al punto da imputare a sé e alla propria incapacità la causa del fallimento lavorativo;
g. la fase “esclusione dal mondo del lavoro”, ovvero dove la vittima trova l’uscita dal mondo del lavoro, rassegnando le dimissioni oppure chiedendo il prepensionamento (o anche la pensione di invalidità) o addirittura subendo il licenziam...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Indice
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. Introduzione
  6. CAPITOLO PRIMO IL MOBBING
  7. CAPITOLO SECONDO LA NORMATIVA DI RIFERIMENTO
  8. CAPITOLO TERZO IL NESSO EZIOLOGICO TRA L’EVENTO E LA MALATTIA
  9. CAPITOLO QUARTO I REATI PERSEGUIBILI
  10. CAPITOLO QUINTO LA RISARCIBILITA’
  11. CAPITOLO SESTO LE CONSEGUENZE PSICHICHE
  12. Bibliografia