Su maniestu
Come bene esprime il termine sardo, la pasta ben lavorata veniva ripresa in mano in quantità bastevole a ricavarne una decina di pani, lisciata e tirata sul tavolo da mani esperte che la suddividevano in tocchi rotondi ed eguali, i quali venivano collocati dentro una sporta di asfodelo, avvolti nei panni di lino sos pannos, di cui già ho detto, in attesa di procedere alla loro spianatura. La spianatura delle sfoglie, su pesondzu, era uno dei momenti più delicati della lavorazione del pane prima della cottura.
Spianatura del pane “
Pesande”
La divisione dei ruoli e delle mansioni era piuttosto rigida.
La ragazza più giovane, spesso poco più che bambina, si collocava all’estremità del tavolo, a capu 'e mesa, ed era addetta a cumenzare, schiacciare il tocco di pasta con la pressione delle dita e il matterello in modo da ottenere una spianatina tondeggiante, che subito passava alla seconda donna, la quale poteva toccare su tutturu, far risuonare il matterello nel tirare la sfoglia e portare il pane alla grandezza, diremmo così, standard, per passarlo alla donna più anziana ed esperta che doveva provvedere a perfezionarne la forma e i bordi e poi a che lu ghettare, trasferirlo nelle pieghe del panno predisposto sopra un ripiano di legno, su fundu, senza bucarlo, senza fargli alcuna piega, senza deformarlo.
In questa fase della lavorazione, il fatto che si dovesse procedere celermente specie se si trattava di grande quantità, di banda manna, non impediva alle donne di dare la stura alle chiacchiere sugli argomenti più disparati, ma soprattutto inerenti la cronaca paesana, sia rosa che nera.
Il lavoro della spianatura del pane procedeva, regolare e ritmato dal suono dei matterelli sullo spianatoio, talvolta in crescendo, tra le chiacchiere, i racconti, gli inviti delle donne anziane a fare silenzio perché il pane non aspetta, su pane no ispettada.
Poteva capitare che, in die de cochere, arrivasse qualcuno in casa, per una qualche commissione, po fachere un imperzu, o per una semplice visita di cortesia; il saluto rituale, sa custumassia, era: Deus bos Guardet, a cui si doveva rispondere: Bene bennia/u. Se per ignoranza o distrazione uno/a non lo faceva, poteva venire invitata/o a uscire dalla cucina, rientrare e salutare con la formula prescritta.
La buona riuscita del pane era certamente affidata alla perizia e all’attenzione delle donne, che vi si dedicavano amorevolmente, ma anche a tante piccole variabili, non ultima quella, nella credenza popolare, dello sguardo di chi veniva in casa, di ciò che diceva, sas pesadas, al punto che se il pane non riusciva a dovere, sospirando si diceva: ocros bonos l'ant bistu!!, non l’hanno visto di certo occhi benevoli!
Non c’erano tempi morti, in questa giornata tutta dedicata al pane, e così, a seconda della entità de sa cotta, mentre si stava finendo la spianatura, una delle donne si staccava per procedere al secondo impasto, sa de duas bandas.
Nel frattempo bisognava preoccuparsi di accendere il fuoco nel forno, che piano piano doveva imbonire, ovvero, attraverso una progressiva aggiunta di legna, di lentisco, leccio, olivastro, diventare incandescente.
Quando i mattoni refrattari di cui la calotta del forno era rivestita diventavano bianchi, si poteva cominciare a cuocere. Questo era ed è ancora oggi il lavoro più faticoso, perché si svolge stando sedute accanto alla bocca del forno incandescente, in ghenna 'e furru, prendendosene tutta la vampa, e perchè la cottura del pane carasau richiede sveltezza e attenzione.
La prima infornata “
Cochende”
Quella sottile sfoglia bianca e rotonda, va prima trasferita sulla pala di legno dal lungo manico, sa pala 'e cochere, e con questa infilata nel forno, avendo cura di sollevarne i bordi con la piccola paletta di ferro, sa palitta, mentre comincia a gonfiarsi per effetto della lievitazione, ed è già tempo di togliere quel pallone bianco pieno di aria bollente e riversarlo sul grande canestro, su canisteddu, perché possa sgonfiarsi e passare alle abili mani di un' altra donna che con il coltello lo apre lungo i bordi, lu carfit.
Appena finito di cuocere, su pane modde, il pane morbido deve essere sdoppiato, ispizzau, le sfoglie dalla consistenza morbida ed elastica vanno impilate con la faccia rugosa rivolta verso l'alto, avvolte nel solito pannu e messe sotto un peso per favorirne la perfetta distensione.
Quando infatti di lì a poco, ravvivato il fuoco con legna sottile in modo da produrre una fiamma che illumina il forno, si comincia a tostare il pane, a carasare, le sfoglie sono talmente distese e stirate che sembrano fogli di carta.
Il pane viene tostato, carasau, rinfornandolo per qualche minuto. Messa da parte la pala in legno, si lavora con la piccola paletta di ferro, sia per infornare le singole sfoglie, ma soprattutto per girarle velocemente all'interno del forno, che deve essere tenuto acceso con fiamma vivace, anche per favorirne l'illuminazione.
La tostatura del pane “
Carasande”
Mentre una delle due donne impegnate nell'operazione inforna e subito dopo appoggia le sfoglie tostate sul grande canestro collocato davanti alla bocca del forno, l'altra, generalmente più giovane e meno esperta, immediatamente deve raccogliere il pane bollente, impilarlo, schiacciandolo ogni volta con un fundu bello pesante in modo che le sfoglie, sos pizzos de pane, risultino ben distese e i bordi ben appiattiti.
La pila deve venire su dritta e compatta, se così non è, la fanciulla addetta a raccogliere, collire su pane, viene richiamata a maggiore cura ed attenzione con varie espressioni metaforiche, ma se la pila è bella si usa dire invece che è una pira de isposos, una pila da sposi! Finita questa operazione, la pila di pane, più o meno alta, viene fasciata con un telo sottile di quelli usati per le precedenti lavorazioni, coperta e messa sotto peso fino al giorno dopo quando, ormai freddo, quel pane fragrante, frutto di così tanta fatica, viene collocato all'interno de “Sa mesa cunzà”.
La provvista di pane era assicurata per almeno 3, 4 settimane, poi si ricominciava da capo a preparare, arguire a cochere.
IL PANE
di Sebastiano Satta
Pane, lievito santo come il germe Chiuso nel grembo, dopo quanta guerra Ti conquistò il debil uomo inerme, Prono sugli aspri solchi della Serra!
E ti bagnò pur di suo sangue in erme Tanche ed in salti inospiti, dov’erra Triste l’armento brado, e pendon ferme Nubi d’incendio a desolar la terra.
Sia pace per la croce della mano Che t’intrise e ti stese, e per l’ignoto Sangue che ti bagnò, pane, sia pace.
E di te si abbia gioia anche chi al piano Non scese a seminare, e va, pel vuoto Mondo, con solo il suo dolor seguace.
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