Amore e ginnastica
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Informazioni sul libro

All'interno di un caseggiato torinese di fine Ottocento, in un miscuglio di personalità eccentriche e al tempo stesso normalissime, vive il ragionier Celzani: un giovane timido ed impacciato che si innamora perdutamente dell'avvenente maestra Pedani, appassionata cultrice di ginnastica. Gettando il cuore oltre l'ostacolo, Celzani prende coraggio e chiede la mano della giovane, che risponde con un secco rifiuto, adducendo a giustificazione il fatto che si sente investita dall'importante missione di diffondere la pratica della ginnastica secondo le teorie di Emilio Baumann. Il ragionier Celzani non smette di accarezzare il suo audace e temerario sogno d'amore e, in un susseguirsi di ridicoli equivoci e pietose umiliazioni, Cupido espone il protagonista allo scherno di tutto il condominio. Già, perché il condominio di questo gioiello di libretto è l'Italia, ritratta da De Amicis all'alba del suo idillio unitario: è l'autore stesso a dichiarare di averlo concepito come una brillante metafora del nuovo Stato sabaudo, temerariamente assemblato fra due anime inconciliabili.Dimentichiamo i toni solenni del celebre libro Cuore per ritrovare un De Amicis ironico e scanzonato, che abbandona i grandi temi patriottici e sociali per raccontare le atmosfere squisite (e contradditorie) dell'Italia appena unita, attraverso le gesta di un onesto borghesuccio innamorato di una giovane maestra tutta salute e ginnastica!

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9791280092014
Argomento
Literature
Categoria
Classics
All’angolo con via dei Mercanti, il segretario si levò il cappello con deferenza incontrando l’ingegner Ginoni, che gli rispose col suo solito: – Buongiorno, segretario amato! – poi infilò via San Francesco d’Assisi per rientrare in casa. Mancavano venti minuti alle nove: era quasi certo d’incontrare per le scale chi desiderava.
A dieci passi dal portone intoppò nel baffuto maestro di ginnastica Fassi, che leggeva delle prove di stampa. Questi si fermò, e mostrandogli i fogli, disse che stava scorrendo le bozze di un articolo che trattava della sbarra fissa. Lo aveva scritto la maestra Pedani per il Nuovo Agone, giornale di ginnastica del quale egli era uno dei principali redattori.
– È giusto, – soggiunse, – quello che dice. Non devo dargli che qualche ritocco, qua e là. Ah! È veramente una maestra di ginnastica. Non lo dico per come scrive: ciascuno ha le sue facoltà. E poi, nella ginnastica, come nella scienza, il cervello di una donna non sfonda, si sa. Ma come esecutrice, non ha pari. Già, madre natura l’ha fabbricata per quello: le ha dato le proporzioni fisiche più perfette che io abbia mai viste, una cassa toracica che è una meraviglia. Lo osservavo giusto ieri nella rotazione del busto, che faceva per esperimento. Ha la flessibilità di una bambina di dieci anni. E mi vengano a dire i signori estetici che la ginnastica sforma il bel sesso! Quella maneggia i manubri come un uomo, e ha il più bel braccio di donna, se lo vedesse nudo, che si sia mai visto sotto il sole. La riverisco.
Così egli troncava bruscamente ogni discorso per imitare il celebre Baumann, il grande ginnasta, come egli lo chiamava; che era il suo Dio. Il segretario rimase pensieroso.
Quel feroce maestro Fassi, senza saperlo, lo andava tormentando da un pezzo con tutti quei ragguagli descrittivi delle forze e delle bellezze della maestra, a cui egli già troppo pensava. Ora quelle due immagini del busto roteante e del braccio nudo gli crebbero l’agitazione con la quale si avviava sempre verso la scala, quando sperava di incontrarvi la sua vicina.
Salì i primi scalini a passi lenti e leggeri, con l’orecchio teso, e quando fu sul primo pianerottolo, udendo provenire da sopra uno stropiccio di piedi, si sentì salire il sangue alle guance. Erano la maestra Pedani e la maestra Zibelli che scendevano insieme, come di solito, per andare a scuola. Egli riconobbe la voce di contralto della prima.
Quando gli si trovarono di fronte, a metà della seconda rampa di scale, il segretario si fermò, levandosi il cappello, e invece di guardar la Pedani, vinto dalla timidezza, guardò, come faceva sempre, la sua compagna; la quale, anche questa volta, credette d’esser lei la cagione del suo turbamento, e lo incoraggiò con un sorriso amorevole. E tennero uno dei soliti dialoghetti stupidi di quelle occasioni.
– Così presto vanno alla scuola? – balbettò lui.
– Non è tanto presto, – rispose con voce dolce la maestra Zibelli; – sono a momenti le otto e tre quarti.
– Credevo… le otto e mezzo,
– I nostri orologi vanno meglio del suo.
– Può darsi. C’è una nebbia questa mattina!
– La nebbia precede il buon tempo.
– Qualche volta… Speriamo. E… al piacere di rivederle!
– A rivederla.
– A rivederla.
Arrivato a capo della scala, il segretario si voltò rapidamente e fece ancora in tempo a lanciare un’occhiata ladra alla bella spalla e al braccio poderoso della Pedani, giusto nel momento in cui la Zibelli, senza che la sua amica se ne avvedesse, si voltava a lanciare a lui uno sguardo sorridente.
Allora egli prese una risoluzione. No, non poteva continuare in quella maniera; quella nuova sciocca figura, ch’egli aveva fatto in presenza di lei, gli dava l’ultima spinta. Non gli era possibile regger più oltre con quel tormento di desiderio in corpo, inasprito ogni giorno da quegl’incontri, nei quali non gli riusciva neppure di procurarsi il gusto di guardarla. Era deciso, avrebbe mandato la lettera che teneva da una settimana sul tavolino. Voleva una sentenza di vita o di morte.
Arrivato al secondo piano, aprì l’uscio con un movimento risoluto e andò difilato verso la camera di suo zio, il commendatore Celzani, padrone di casa, per rimettergli le pigioni dell’altra sua casa di Vanchiglia, e andar subito dopo a rilegger l’ultima volta la lettera che doveva decidere del suo destino. Ma a un passo dall’uscio, udendo due voci nella camera, s’arrestò, e messo l’occhio al buco della serratura, vide in compagnia del padrone un uomo bassotto e grasso, con un largo viso imberbe e rugoso di ragazzo invecchiato ed enfiato a un tratto, e una piccola parrucca nera messa per traverso, che egli conosceva da un pezzo. Era il direttore generale delle scuole municipali che, passando ogni mattina per via San Francesco per andare in ufficio, saliva ogni tanto a salutare il commendatore, col quale aveva stretto amicizia intima, otto anni prima, quando quello era assessore supplente dell’istruzione pubblica. Nondimeno, essendo diventato diffidente di tutti, da quando serbava il segreto di quella passione nel cuore, il segretario si mise a origliare all’uscio, col sospetto che parlassero di lui. Si tranquillizzò un poco udendo che il direttore discorreva, secondo la sua consuetudine, delle grandi e delicate difficoltà della propria carica, per ciò che riguardava le maestre.
– Lei capisce, – diceva con voce asmatica e lenta, – vanno a dar lezioni in famiglie nobili, hanno conoscenze fra i deputati e i senatori, alcune sono anche in relazione con alti funzionari del ministero. Bisogna andare adagio. Qualche volta son perfino appoggiate dalla casa di sua maestà. Si fa presto a sollevare un vespaio. È una carica, lei lo sa, che richiede un tatto, una delicatezza… che pochi hanno. Si tratta di mandare avanti una famiglia da duecento cinquanta a trecento fra signorine giovani e mature, maritate e vedove, provenienti da tutte le classi sociali, e con loro, un corpo di direttrici che… sarebbe più comodo aver da fare con le trenta principesse di casa Hohenzollern. S’immagini i pensieri che mi danno fra amori, malattie, matrimoni, lune di miele, esami, parti, rivalità, contrasti con superiori e parenti… Creda che, alle volte, io darei del capo nel muro.
E andava avanti così, sulle generali. Il segretario, rassicurato del tutto, si trasse in disparte ad aspettare. Appena il direttore fu uscito, entrò dallo zio, che era ancora seduto sulla poltrona, ravvolto nella veste da camera coi suoi gravi e dolci occhi azzurri fissi alla volta, come assorto in contemplazioni celesti, e resogli conto del suo operato, gli mise sul tavolino i biglietti di banca. Lo zio fece un cenno d’approvazione con la sua bella testa bianca, senza parlare, com’era suo uso, e volti di nuovo gli occhi per aria, si rimise a pensare. Allora il segretario se ne andò in punta di piedi, entrò nella sua camera, cavò da un cassetto chiuso una lettera di quattro facciate scritte con perfetta calligrafia, la rilesse con profonda attenzione, la rimise nella busta con gran riguardo, vi attaccò un francobollo con molta cura, uscì di casa senza farsi sentire, e arrivato al canto della strada, dopo esser rimasto un po’ incerto con la mano alzata davanti alla buca delle lettere, vi lasciò cadere la sua. Poi tirò un lungo respiro. Il dado era tratto. Non c’era più che a rimettersi a Dio.
Il segretario Celzani passava di pochi anni la trentina, ma aveva la compostezza d’aspetto e di modi d’un uomo di cinquanta, una figura di notaio da commedia o di precettore di casa patrizia clericale. Rimasto orfano da ragazzo, era stato raccolto da uno zio materno, parroco di villaggio, che l’aveva tirato su in sagrestia e poi messo in seminario per farlo prete. Tuttavia, morto il parroco, lasciandogli un po’ di denari, l’aveva levato di seminario e preso in casa sua lo zio Celzani, vedovo senza figliuoli, per fargli fare da segretario e da fattore di campagna: ufficio in cui egli metteva una probità e uno zelo veramente esemplari. Andava in chiesa, frequentava dei preti, e di prete gli eran rimaste certe mosse e certi atteggiamenti, come quello di tenere spesso le mani una nell’altra serrate sul petto, l’avversione ai baffi e alla barba e l’abitudine di vestire tutto di scuro, ma non era bigotto, e si vantava senza mentire di essere patriotta e liberale. Ciò non ostante, a cagione della sua apparenza, tutti gli inquilini della casa lo chiamavano da anni, per celia, don Celzani. E pure trovando in lui un’ombra leggera di ridicolo, lo stimavano e gli volevano bene, poiché era cortese e servizievole, timidamente rispettoso con tutti, e sempre eguale. Egli non aveva, quando la sua pazienza era messa alla più dura prova, altra esclamazione più risentita di quella di: «Dio grande!» che egli metteva fuori alzando gli occhi al cielo e allargando le braccia, in atto d’invocazione. Ma vi era un lato della sua natura che nessuno conosceva. Sotto quell’aspetto composto di prete travestito si celava un temperamento fisico vivacissimo, una forte sensualità contenuta, non per ipocrisia, ma in parte per timidezza, in parte per sentimento di decoro, e dissimulata per lo più da un’aria di profonda meditazione. A veder per la strada quell’uomo vestito di nero, un po’ curvo, coi capelli scuri spioventi, col viso liscio, con due occhi così piccoli che quando sorrideva non si vedevano più, con un naso lungo e sottile di asceta, con un’andatura come se egli studiasse di farsi piccolo, sempre con lo sguardo rivolto a terra, a dieci passi davanti a sé, nessuno avrebbe mai pensato che non sfuggisse alla sua vista né un piedino scoperto sul montatoio d’una carrozza, né una fotografia licenziosa in una vetrina, né una coppia tortoreggiante sotto un portone, né alcuna cosa o immagine che potesse eccitare i sensi. Un osservatore non avrebbe potuto riconoscere il suo temperamento che dalla grande bocca mobile, che pareva formata da due serpentelli vermigli, e da certe ondate di sangue che, al passar di certi pensieri, gli coloravano per un momento il collo e la faccia. Certo, la buon’anima dello zio prete non avrebbe potuto seguirlo in ogni suo passo, ma la sua condotta era così dignitosamente prudente, che anche chi conosceva meglio le sue abitudini non mostrava nulla che gli potesse far sospettare ch’egli non fosse quel che pareva. Del resto, egli era una di quelle nature nella loro sensualità non volgari, le quali non si abbandonano al vizio perché non vi si appagano, e son fatte per non trovare appagamento che in un possesso unico, sicuro e onesto, non scompagnato dall’affetto. Nature, più che semplicemente sensuali, amorose, che aspettano e cercano, frenandosi senza grande sforzo, finché non trovino incarnato un certo ideale fisico e morale che covano in mente; nel quale sono forse più difficili a contentarsi d’altri uomini più freddi e più raffinati, a cui non fa velo il fumo della passione.
Ora egli aveva trovato quest’ideale nella maestra Pedani, lombarda, venuta tre mesi prima, sul cominciar di dicembre, ad abitare con la sua collega Zibelli in un appartamentino al terzo piano di quella casa, di fronte all’uscio del maestro Fassi, il quale l’aveva tirata là per assicurarsi meglio la sua cooperazione preziosa al Nuovo Agone. Quell’alta e robusta giovane di ventisette anni «larga di spalle e stretta di cintura» modellata come una statua, che spirava da tutto il corpo la salute e la forza, e che sarebbe stata bellissima se non avesse avuto un nasino non finito e un’espressione di viso e un’andatura un po’ troppo virili, gli aveva fatto, fin dal suo primo apparire, l’effetto di una persona lungamente desiderata e aspettata. Era il tipo che aveva accarezzato nei suoi sogni ardenti di seminarista, la figura che aveva vagheggiato confusamente per tutto il corso della sua calda gioventù castigata. La prima volta che era salito in casa sua a prender da lei la pigione anticipata del trimestre, non gli era riuscito di contare i biglietti da cinque che essa gli aveva messo in fila sul cassettone. Da quel giorno la sua passione era andata crescendo a vampate. E appena egli ebbe compreso, dal contegno di lei, il suo carattere vigoroso e calmo, che rifiutava ogni civetteria, che quasi non le lasciava avvertire l’impressione prodotta dalla propria persona, e non dava speranza alcuna né di leggerezze né di capricci, il pensiero di lui andò diritto e risoluto al matrimonio, come all’unico modo possibile di conseguire la soddisfazione dei suoi desideri. Nonostante il suo ardore, per altro, egli prevedeva le difficoltà che avrebbe ragionevolmente opposto lo zio al suo matrimonio con una maestra sola e senza fortuna; ma a sperare che il no non sarebbe stato assoluto lo confortava in parte il fatto d’una passione singolare di cui pareva acceso il commendatore, la sola ch’ei gli conoscesse: uno spirito attivissimo di propaganda in favore della ginnastica educativa, ch’egli aveva promosso in tutti i modi durante il suo breve vice assessorato dell’istruzione. Sebbene lo zio avesse in seguito abbandonato quello slancio di propaganda, aveva serbato una viva e costante simpatia per tutti gli spettacoli ginnastici di scuole, collegi, istituti, accademie ed esami, di cui non perdeva uno solo, essendo invitato a tutti come uno dei primi e più benemeriti fondatori della Palestra di Torino. Era appunto questa simpatia per la ginnastica che gli aveva fatto ridurre d’un terzo la pigione al maestro Fassi, conosciuto da lui alla palestra molti anni prima, e fatto accordare lo stesso favore alla signorina Pedani, maestra di ginnastica in vari istituti, nota per la sua valentia d’insegnante e per i suoi articoletti vivaci nei giornali tecnici. Il segretario pensava che lo stesso sentimento che gli aveva fatto calar la pigione all’inquilina gli avrebbe fatto scemare l’opposizione alla sposa. Da questa parte, dunque, non si trovava la difficoltà più terribile. La più terribile era quella di arrischiarsi a dichiarare apertamente a lei la sua passione; al che s’era formidabilmente opposta per tre mesi la sua invincibile timidezza, cagionata sopra tutto dalla considerazione della grande inferiorità ch’egli riconosceva in sé, rispetto alla maestra, dal lato dei pregi esteriori della persona. Da tre mesi, conoscendo appuntino l’orario di tutte le sue lezioni, egli si ingegnava ogni giorno e più volte al giorno, d’uscire o di rientrare in casa in quei dati momenti, per incontrarla per le scale e aprirle il suo cuore; e cento volte l’aveva incontrata; ma non una era riuscito a cacciar dalla bocca altro che le più usuali e scipite parole. E non gli serviva prepararsi prima la frase, inghiottire in fretta e furia due bicchierini di Caluso, o cercare il coraggio nel sentimento dell’onestà dei suoi fini. Di modo che quando si trovava di fronte a quell’alta e forte ragazza, che stesse sullo scalino di sopra o su quello di sotto, gli pareva sempre che lo dominasse come una figura colossale, e tutto il suo ardimento fittizio cadeva senza che il più delle volte egli osasse nemmeno di staccare lo sguardo di torno alla sua bella vita o dalle sue spalle stupende per sollevarlo fino al suo viso. Non era forse neppure riuscito a farle indovinare la propria passione, tanto era tranquilla e sempre uguale la disinvoltura di giovanotto con la quale essa lo salutava e gli parlava. E così egli viveva ruminando il suo amore, aggiungendo ogni giorno l’eccitamento di una nuova immagine a una interminabile collezione di atteggiamenti, di suoni della voce, di mosse, di guizzi della persona, ch’egli aveva in capo e che passava a rassegna di continuo, meditandoli a uno a uno e assaporandoli con una voluttà e con un tormento crescenti, che non gli concedevano più pace. Finalmente, non potendo più reggere, aveva scritto la lettera.
La casa si prestava ai maneggi e ai segreti d’una passione amorosa. Era una delle più vecchie case di Torino, un antico convento, dicevano: senza soffitte, senza terrazzini sul cortile, con due sole scale mal rischiarate. Su ciascuna delle scale non vi erano che sei appartamenti, la maggior parte dei quali assai piccoli, e abitati tutti da gente tranquilla. Sulla scala del padrone di casa, al primo piano, abitava l’ingegner Ginoni, con la sua famiglia, con la quale la Pedani era in relazione per essere stata maestra elementare d’una delle figliuole, che allora era alunna della scuola Margherita. Stavano sullo stesso piano due vecchie sorelle agiate, tutte di chiesa, scrupolose a tal punto che non alzavano mai gli occhi in viso a un uomo, e buonissime in fondo. Le due sorelle avevano dapprima salutato la Pedani cortesemente e poi smesso di salutarla, dopo che da alcune persone di servizio avevano saputo che essa frequentava un corso di anatomia e fisiologia applicate alla ginnastica fatto dal dottor Gamba. Al secondo piano, in faccia al commendatore, abitava un vecchio professor di lettere, certo cavalier Padalocchi, vedovo e pensionato, un linguista terribile, dicevano, ma di maniere compitissime, il quale s’accompagnava qualche volta con la Pedani su per la scala, parlandole dei suoi malanni. Il terzo piano era tutto scolastico e ginnastico, e i due appartamenti, per la vita che vi si conduceva, erano senza dubbio i più bizzarri della casa. Il più bizzarro era quello delle maestre, a cagione delle differenze grandi che correvano fra di loro, nell’indole e nella vita, le quali facevano parere strano che si fossero decise a mettersi insieme. La Zibelli aveva trentasei anni ed era anche nel fisico l’opposto della sua amica. Alta essa pure; ma magra, e stretta di spalle; un viso bellino, ma troppo piccolo, e già appassito: non aveva che i contorni apparenti d’un corpo ben fatto, grazie al gusto con cui si vestiva, e dal suo modo di buttare i piedi si capiva che i suoi ginocchi erano troppo intrinseci amici. Doveva esser stata una giovinetta assai simpatica: aveva avuto dei capelli castagni bellissimi, la sua gloria era d’aver fatto innamorare, alla scuola Domenico Berti, un giovane professore di fisica, il quale arrossiva interrogandola. Tuttavia la gloria era antica, e i capelli si erano diradati. Le amarezze della lunga vita di ragazza, per cui non era nata, le avevano lasciato due pieghe aspre agli angoli della bocca, e un che di torbido negli occhi che rivelava un’anima malcontenta. Il fondo era rimasto buono, con questo; ma l’umore irritabile e mutevole lo guastava. Essa aveva fatto amicizia con la Pedani fin da quando questa era entrata nella sua sezione municipale, presa subito da una simpatia di sorella maggiore per quella bella ragazzona incurante di sé e delle cose domestiche, con la quale aveva in comune l’entusiasmo per la ginnastica. In secondo luogo le si era stretta anche meglio per soffocare con l’affetto un principio di gelosia e d’invidia che sentiva per la sua opulenta bellezza. Per questo, anzi, le aveva proposto di far casa fra due, e vivevano insieme da due anni. Ma col crescere della familiarità s’era pres...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Prefazione di Stefano Massini
  5. Amore e ginnastica
  6. Nota editoriale