Le Messe
di Giovanni Bietti
Questo saggio prende in esame un corpus ricco e complesso, uno dei più straordinari nell’intera storia della musica occidentale, e non solo in ambito sacro: le diciotto Messe di Josquin Desprez.
L’intento è quello di unire il carattere divulgativo all’approfondimento musicale, un’operazione di per sé complessa che rappresenta però, su un argomento tanto specifico, una vera e propria sfida. Le Messe di Josquin infatti sono brani musicali meravigliosi, ma sono state composte più di cinquecento anni fa. Una distanza immensa che, a prima vista, può sembrarci incolmabile: lo stile musicale è difficile da penetrare, mancano i punti d’appoggio a cui siamo più abituati come la tonalità moderna, la divisione tra melodia e accompagnamento, la scansione ritmica regolare e ben definita.
È questo il motivo per cui si è ritenuto necessario inserire nel saggio un paio di paragrafi specificamente didattici, spiegando per esempio quali sono le caratteristiche principali della Messa rinascimentale, e mettendo in evidenza alcuni aspetti ricorrenti, alcune costanti stilistiche della musica di Josquin che possono orientare l’ascoltatore nell’esplorazione dell’universo sonoro, vastissimo, delle Messe.
Queste composizioni si rivolgevano a un pubblico molto diverso rispetto a quello odierno, da tutti i punti di vista. Josquin muore, per l’appunto, cinquecento anni fa, nel 1521: Lutero aveva affisso sul portone del castello di Wittemberg le sue famose 95 Tesi solo da quattro anni. I primi ascoltatori delle Messe non avevano idea di ciò che sarebbe successo di lì a poco, non potevano immaginare la Riforma, i conflitti religiosi, il sacco di Roma, Enrico VIII, la Dieta di Augusta e il Cuius regio, eius religio. Il mondo a cui si rivolgono le Messe di Josquin è il mondo della Cristianità tout court, un mondo unitario che non conosce divisioni12, non mette – almeno, ufficialmente – in discussione il culto mariano o l’autorità del papa.
E le Messe non vogliono semplicemente soddisfare le esigenze musicali del mondo cristiano di prima della Riforma: come tutte le grandi opere d’arte, esse intendono allo stesso tempo rappresentarlo, renderne un’immagine ideale attraverso i suoni. Ecco perché l’ascolto delle composizioni di Josquin ci dà una sensazione di armonia, di controllo dello spazio e del tempo che è stata – forse – eguagliata da pochissimi altri musicisti dopo la sua morte: perché esse ci offrono l’immagine sonora del mondo rinascimentale al suo apogeo, prima delle grandi crisi religiose e politiche. Un mondo in cui, per citare solo un paio di aspetti, sacro e profano possono – ancora – serenamente convivere all’interno di un brano di musica, e in cui allo stesso tempo l’originalità e il talento creativo sono – già – pienamente riconosciuti come doti artistiche di un singolo individuo (Leonardo e Raffaello muoiono subito prima del nostro compositore, rispettivamente nel 1519 e nel 1520). Josquin è il primo “genio” della storia della musica, colui del quale i contemporanei riconoscevano la superiorità rispetto a ogni altro musicista: come disse lo stesso Lutero, Josquin era «padrone delle note», mentre gli altri compositori dovevano «obbedire alle note».
Josquin e la stampa musicale
Tra i fattori che contribuiscono allo sviluppo della nuova concezione umanistica e rinascimentale dell’individuo c’è la nascita della stampa, un argomento troppo ampio e specifico per affrontarlo in questo saggio. Qui basterà dire che la stampa musicale nacque circa mezzo secolo dopo la pubblicazione dei primi libri stampati: nel 1501, a Venezia, nella bottega di un intraprendente marchigiano di Fossombrone, Ottaviano Petrucci13. In quell’anno cruciale Petrucci pubblicò un prezioso volumetto, il cosiddetto Odecathon A, che conteneva composizioni polifoniche di diversi musicisti, in gran parte appartenenti alla cosiddetta scuola franco-fiamminga: tra questi Josquin, Okeghem, Busnoys, Compère, Brumel, Obrecht, Isaac, de La Rue. L’anno successivo, 1502, Petrucci proponeva una pubblicazione ben più ambiziosa, un volume di Messe scritte da un unico compositore, naturalmente il più celebrato dell’epoca: Misse Josquin, il primo libro monografico della storia della musica. La ricezione josquiniana si intrecciò quindi con il nuovo mezzo della stampa, e con le maggiori possibilità di diffusione che esso offriva: un fatto che – insieme alla qualità della musica, ovviamente – si rivelò decisivo per l’eccezionale fortuna critica del nostro compositore, e per la creazione del “mito Josquin”. Negli anni successivi Petrucci pubblicherà altre raccolte di Messe di un singolo musicista (Obrecht, Brumel, Pierre de La Rue e altri), ma la richiesta di opere di Josquin doveva essere maggiore, tanto che al primo volume del 1502 fecero seguito un Missarum Josquin liber secundus nel 1505 e un Missarum Josquin liber tertius nel 1514. Tre volumi che nell’insieme comprendono diciassette Messe, in pratica l’intero corpus oggi considerato autentico (manca solo la Missa Pange lingua). Elenchiamole, volume per volume14.
– Misse Josquin (1502): Missa L’homme armé super voces musicales, Missa La sol fa re mi, Missa Gaudeamus, Missa Fortuna desperata, Missa L’homme armé sexti toni;
– Missarum Josquin liber secundus (1505): Missa Ave maris stella, Missa Hercules dux Ferrariae, Missa Malheur me bat, Missa L’ami Baudichon, Missa Una musque de Buscaya, Missa D’ung aultre amer;
– Missarum Josquin liber tertius (1514): Missa Mater patris, Missa Faysans regres, Missa Ad fugam, Missa Di dadi, Missa De beata Virgine, Missa Sine nomine.
A queste, come detto, va aggiunta la Missa Pange lingua, quasi sicuramente scritta dopo il 1514, negli ultimissimi anni di vita del musicista.
Più sotto esaminerò in dettaglio le diciotto composizioni. Per ora limitiamoci a osservare la sorprendente varietà dei titoli15, che accostano alla parola “Missa” il riferimento a melodie sacre gregoriane (Gaudeamus, Ave maris stella, Pange lingua), canzoni popolari profane (L’homme armé, L’ami Baudichon, Una musque de Buscaya), mottetti polifonici sacri (Mater patris), chansons polifoniche profane, in diverse lingue (Fortuna desperata, Malheur me bat, D’ung aultre amer, Faysans regres), nomi di note (La sol fa re mi), forme musicali (Ad fugam), giochi (Di dadi), perfino nomi di persone (Hercules dux Ferrariae, Ercole d’Este). Le ultime due Messe del terzo libro hanno titoli più generici: una è dedicata “alla beata Vergine”, l’altra è proprio “senza nome”. Una varietà di riferimenti sbalorditiva, che come vedremo corrisponde alla profonda differenza tra le diciotto Messe, tanto nel tono complessivo quanto nelle tecniche compositive adottate.
A seguito delle più recenti ricerche, il corpus non pone ormai grandi problemi di attribuzione. Solo occasionalmente qualche studioso mette in dubbio l’autografia di una particolare Messa, per esempio la Una musque de Buscaya, sulla base di considerazioni stilistiche, di qualche idiosincrasia nella scrittura o nella distribuzione delle voci16.
La cronologia, invece, resta controversa e incerta per la maggior parte delle Messe. Sembra certo che l’ordine di pubblicazione di Petrucci non rispecchi un ordine cronologico di composizione, anche perché nel primo libro lo stampatore veneziano aveva certamente inserito molti dei brani più celebri e più ambiziosi, come le due Messe su L’homme armé che infatti aprono e chiudono la pubblicazione. I tentativi di stabilire una cronologia delle Messe sono stati e continuano a essere numerosi, e a volte in contraddizione tra loro. Essi si basano soprattutto su considerazioni stilistiche, o sulla presenza di una composizione nelle fonti manoscritte: il problema in quest’ultimo caso è che non sempre un manoscritto si può a sua volta datare con precisione. Per quanto riguarda l’analisi stilistica, la faccenda è altrettanto complessa, soprattutto perché Josquin ama fondere tra loro elementi arcaici e moderni, che spesso convivono armoniosamente nella stessa composizione, uno accanto all’altro. In qualche singolo caso l’ipotesi di datazione può appoggiarsi, sempre con cautela, su aspetti legati al contesto e alle fasi conosciute della carriera di Josquin, per esempio l’ambiente milanese nel caso della Missa D’ung aultre amer, o l’impiego presso la corte di Ferrara per la Hercules dux (entrambe le datazioni sono tutt’altro che certe). Allo stato attuale delle conoscenze gli studiosi si limitano di solito a dire che Messe come L’ami Baudichon o Una musque appartengono molto probabilmente alla fase giovanile della carriera josquiniana, mentre altre come la Sine nomine, la Mater patris, la De beata Virgine e la Pange lingua sono quasi sicuramente composizioni tarde. Per la maggior parte delle altre Messe gli addetti ai lavori tendono a dare indicazioni prudenti e piuttosto generiche come «composta negli ultimi anni del Quattrocento» oppure «composta prima del 1502 (o 1505, o 1514)».
La Messa ciclica
Per comprendere le Messe di Josquin dobbiamo prima di tutto esaminare brevemente il contesto musicale in cui nascono. Nella storia della musica occidentale, infatti, pochi eventi sono fondamentali – e imprevedibili – come lo sviluppo del genere della Messa nel corso del Quattrocento. All’inizio del secolo l’idea di una Messa unitaria, una singola composizione in più parti collegate tra loro, è del tutto sconosciuta17. A fine secolo (e per tutto il successivo), la Messa è invece il genere musicale più importante e prestigioso, la pietra di paragone con la quale devono confrontarsi tutti i compositori; e non a caso, come si è visto, le prime pubblicazioni monografiche in campo musicale saranno dedicate proprio a questo genere.
La Messa rinascimentale è scritta per sole voci, senza strumenti: è “a cappella”, come diremmo oggi. In qualche caso una delle voci, o più d’una, poteva essere sostituita da uno strumento; ma la polifonia di questo periodo è comunque pensata per la voce umana, considerata come la fonte sonora più pura e più nobile esistente in natura.
Una Messa polifonica dell’epoca di Josquin è sempre divisa in cinque parti, cinque diversi movimenti, che appartengono al cosiddetto Ordinarium missae. È la parte “ordinaria” della liturgia, quella che rientra nella celebrazione liturgica per l’intero anno, a Pasqua come a Natale, in Avvento come in Quaresima18. I cinque movimenti sono il Kyrie, il Gloria, il Credo, il Sanctus e l’Agnus Dei. A parte il Kyrie eleison (“Signore, pietà”), che è addirittura in greco, gli altri quattro sono cantati in latino. Non possiamo osservare in dettaglio le caratteristiche dei cinque testi liturgici; qui basterà dire che due di essi, Kyrie e Agnus, sono basati su una tripartizione interna (Kyrie/Christe/Kyrie; Agnus I: Miserere nobis/Agnus II: Miserere nobis/Agnus III: Dona nobis pacem), e che il Credo è il più esteso, oltre che il più ricco di immagini verbali. Ma è importante sottolineare che le cinque parti dell’ordinario sono piuttosto eterogenee tra loro: hanno origini e funzioni diverse, due sono preghiere, due sono acclamazioni, il Credo è una “professione di fede”. I cinque testi non potrebbero essere più differenti, e vengono recitati in momenti diversi della liturgia. E infatti nei secoli precedenti essi erano stati in genere musicati indipendentemente l’uno dall’altro19.
A partire dalla prima metà del Quattrocento si sviluppa – probabilmente dapprima in Inghilterra, e subito dopo nel continente – l’idea di collegare tra loro i cinque movimenti attraverso un singolo materiale melodico ricorrente. Tecnicamente, possiamo dire che tale melodia viene utilizzata come un cantus firmus: il canto fermo, l’elemento musicale che dà coesione e stabilità all’edificio polifonico. Per gran parte del secolo il cantus firmus verrà affidato a una singola voce, il cosiddetto tenor (la voce, per l’appunto, che “tiene” la melodia); intorno a questa le restanti voci intessono altre linee melodiche20. Il tenor canta la stessa melodia nel Kyrie, nel Gloria, nel Credo, nel Sanctus e nell’Agnus, mentre le altre voci eseguono linee di volta in volta differenti21. In una Messa polifonica, le cinque parti dell’ordinario diventano quindi un “ciclo”, sono collegate tra loro attraverso il ricorrere di un unico materiale musicale. Nelle prime Messe cicliche si tratta di una melodia liturgica, ma a partire dalla seconda metà del secolo troviamo anche, e sempre più spesso, Messe basate su melodie profane (la più celebre di tali melodie, utilizzata da decine di compositori tra i quali Josquin, è L’homme armé).
Come mai i compositori quattrocenteschi sentono il bisogno di unificare le cinque parti dell’ordinario, di costruire una Messa ciclica? Difficile rispondere in modo univoco. Senza dubbio, l’uso di una singola melodia funziona come un “segnale”, un richiamo sonoro nel corso della celebrazione: non bisogna dimenticare che durante la funzione il Kyrie e l’Agnus possono essere cantati anche a un’ora di distanza l’uno dall’altro, visto che tra le due preghiere ci sono salmi, altre preghiere, le letture, l’omelia, l’offertorio. Oggi tendiamo ad ascoltare una Messa rinascimentale come se si trattasse di un brano da camera dell’Ottocento, i cinque movimenti eseguiti uno dopo l’altro e separati solo da una breve pausa; ...