Da vittime a eroi
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Da vittime a eroi

La costruzione di una memoria visuale dei caduti della Grande Guerra 1915-1918

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Da vittime a eroi

La costruzione di una memoria visuale dei caduti della Grande Guerra 1915-1918

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Subito dopo l’intervento dell’Italia in guerra, il 1° agosto 1915, Paolo Boselli, nella sua veste di Presidente del Comitato Nazionale per la Storia del Risorgimento, promosse una vasta e sistematica opera di raccolta di documentazione, anche fotografica, relativa al primo conflitto mondiale.
Il volume intende ricostruire questa singolare operazione di elaborazione collettiva del lutto analizzando come il progetto tentò di riassorbire il sacrificio di centinaia di migliaia di giovani morti nella guerra di massa e industrializzata entro le coordinate “eroiche” dell’epopea risorgimentale.
Al centro dell’analisi i ritratti fotografici dei caduti, studiati sia come espressione di autorappresentazione dei soldati, sia come strumento connesso alla dimensione più privata del lutto e delle pratiche familiari del ricordo. Raffaella Biscioni è RTD/B presso l’Università di Bologna, dove insegna Storia e Tecnica della fotografia e degli audiovisivi. Storica contemporaneista, specializzata in storia della fotografia, è membro del consiglio direttivo della Società italiana per lo studio della fotografia (SISF). Fra le sue pubblicazioni recenti Rovine di guerra. Distruzioni, rappre- sentazioni e memorie fotografiche del patrimonio culturale italiano durante la prima guerra mondiale (Pacini Editore, Pisa, 2021).

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788869959431
Argomento
Storia

II. I FASCICOLI PERSONALI DEI CADUTI FRA RAPPRESENTAZIONE FOTOGRAFICA E MEMORIA

In questa seconda parte del lavoro presenteremo i risultati di un’indagine su un campione di circa 7.000 fascicoli del Fondo Caduti conservato presso il Museo Centrale del Risorgimento di Roma che rappresenta un corpus di notevole interesse per lo studio delle pratiche fotografiche legate all’elaborazione del lutto e della memoria del primo conflitto mondiale. La specificità del corpus documentario del Fondo Caduti del Museo Centrale del Risorgimento risiede certamente nel suo tentativo di orientare l’elaborazione pubblica del lutto collettivo per la morte di massa verso la retorica del mito dei combattenti, per mezzo della costituzione di un “monumento archivistico” ai caduti, basato però, e qui sta la novità, soprattutto su un documento visivo, sulle immagini fotografiche. D’altra parte questo monumento visuale è in realtà una costruzione articolata e complessa, in quanto è strutturato nell’archivio in base al ricorso sistematico alla documentazione amministrativa e burocratica di anagrafi civili e militari; inoltre ospita spesso documentazione molto varia, anche di tipo personale del soldato stesso, offrendo quindi una visione più ricca e articolata della figura dei caduti, arricchita a volte del racconto delle loro vicende di vita e del loro modo di affrontare il pericolo della morte.
Questo aspetto è molto importante da sottolineare, perché qualora si volessero “leggere” queste foto dei caduti della grande guerra nel loro puro aspetto iconografico, a prescindere quindi dal complesso apparato cultural-burocratico-politico che era stato costruito attorno e su di esse, una constatazione banale si imporrebbe.
Il fatto è che noi le chiamiamo e le consideriamo fotografie dei caduti; ma nel momento in cui erano state scattate, cioè nel momento in cui si formava il loro contenuto iconografico, esse non erano affatto fotografie di caduti, ma fotografie di giovani nel pieno del loro vigore e della loro vitalità.
Da qui dunque un’avvertenza metodologica: per quanto tutta l’operazione che ha portato alla individuazione, selezione e conservazione del corpus archivistico sia ispirata al tema delle onoranze ai giovani eroi morti per la patria, a dare sollievo ed espressione socialmente accettata e condivisa al lutto dei parenti, tuttavia non dovremmo poter trovare niente di tutto ciò nell’immagine fotografica, dato che ovviamente nell’universo di tutte le fotografie dei soldati della prima guerra mondiale, quelle dei caduti sono individuabili solo a posteriori, e de facto, senza che sia possibile stabilire una relazione significativa fra un certo tipo di rappresentazione iconografica e il destino mortale del soldato rappresentato.
Ricompare qui una caratteristica della fotografia che abbiamo cercato di evidenziare nella prima parte: da un lato essa è traccia, impronta diretta e non mediata linguisticamente, di un passato “è stato” che torna identico ai nostri occhi. Ha quindi un valore insostituibile, per usare il termine di Roland Barthes, “magico” come addensatore delle ritualità del dolore privato dei familiari; ma allo stesso tempo ha proprio per questo una rigidità denotativa e documentativa che non le consente direttamente quella flessibilità e molteplicità di significazioni che possono essere raggiunte facilmente con l’immagine manuale. Da qui la necessità e l’importanza di elementi di connotazione, anche esterni alla fotografia stessa.
Torneremo su questo punto quando tenteremo specificamente una lettura iconografica di questi ritratti, ma è importante segnalare che nel Fondo Caduti sono messe a confronto e conservate insieme tipologie estremamente diverse di fonti che permettono anche diverse letture. Da una parte è possibile leggere i ritratti dei caduti secondo le coordinate dell’immaginario bellico tradotto in immagine, attraverso cui, nella ripetizione di volti e pose ordinate e fiere, di corpi integri e sani si ha un’attestazione del valore della loro esistenza, in modo che risulti evidente l’entità del sacrificio e quindi più facile il processo di eroicizzazione. Nello stesso tempo però la serie di documenti ulteriori presenti nei fascicoli, ma anche lo stesso modo con cui vengono selezionate, trattate, connotate le immagini, sono essenziali per capire il modo in cui passano da testimonianze di vita a simulacri del morto.
In questo senso è molto interessante vedere come la funzione della fotografia diventi una volta arrivata nell’archivio del Fondo Caduti quella di “commento” alla morte dei combattenti, perdendo quel carattere di reliquia privata che fino a quel momento l’aveva probabilmente caratterizzata per diventare un oggetto del racconto di un rito “sacrificale” che assolve a una funzione di coesione sociale per tutta la comunità. Questo passaggio di statuto è evidente anche da un’analisi dei supporti fotografici che dopo la morte del soldato si arricchiscono di una serie di elementi e segni che stanno proprio ad indicare la costruzione del profilo di un eroe della patria.
L’organizzazione dei materiali per fascicoli personali dei caduti favorisce notevolmente un tipo di narrazione biografica che quando inserita in un contesto come quello predisposto dal CNSR, già saldamente basato sulla valorizzazione delle glorie risorgimentali, facilmente si presta a creare una sorta di agiografia dei combattenti, trasformando i caduti in martiri laici1.
Questa risemantizzazione dei ritratti in chiave eroica e mitizzata diventa così un potente veicolo di propaganda a favore del conflitto, perché la funzione dell’immagine da addensatore di pratiche private di elaborazione del dolore e del lutto passa a una condivisione pubblica, all’ostensione e per così dire all’illustrazione del lutto, al suo racconto carico di pathos.

1. Ritratto fotografico e memoria familiare

“Davanti all’obbiettivo, io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere,
quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia,
e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte”
(Roland Barthes)
Durante il conflitto divenne sempre più diffuso lo scambio di immagini fotografiche fra fronte e retrovie; era prassi comune infatti che insieme alle lettere, i soldati scambiassero con la famiglia anche propri ritratti fotografici come forma di rassicurazione sulle proprie condizioni di salute e come dono ai parenti. L’immagine si configurava anche come sostituto virtuale del soldato, un oggetto di grande valore simbolico in grado di annullare, anche solo illusoriamente, la distanza che separava militare e famiglia, funzione di primaria importanza se, a maggior ragione, il soldato fosse morto in guerra.
Questa pratica del ricordo, che legava insieme ritratto fotografico ed elaborazione del lutto trovava i suoi precedenti nel legame che sin dalla sua nascita la fotografia aveva stretto con il tema della testimonianza di sé. In particolare, con la nascita della carte de visite, il biglietto da visita fotografico inventato a metà Ottocento da André Adolphe Eugène Disdéri2, nascerà un vero culto della propria effige stampata su cartoncino, da scambiare o conservare in album. Gli studi di storia dell’arte peraltro connettono l’origine del ritratto all’arte funeraria:
È il caso dei bellissimi ritratti del Fayyum nell’Egitto romano (I sec. a.C.-IV sec. d.C.). Si tratta, come ricorda Bailly, di una sorta di “apostrofe muta”, in cui i morti si affacciano come vivi dai loro sarcofagi, quasi in una incantata e laica negazione della morte. Una tipologia che, attraverso i secoli e con modalità e intenti diversi, è arrivata fino ai giorni nostri, in cui ogni tomba, ogni lapide mostra, più o meno sorridente, la foto del caro estinto –piccolo e privato monumento alla memoria3.
Questo nesso fra fotografia e morte, era stato già osservato da Roland Barthes ne La Camera chiara, quando si riferiva al “ritorno del morto” come l’aspetto più spaventoso di ogni fotografia: «Per quanto viva ci si sforzi di immaginarla (e questa smania di “rendere vivo” non può essere che la negazione mitica di un’ansia di morte), la Foto è come un teatro primitivo, come un Quadro Vivente: la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti»4. Barthes lega la sua analisi proprio a partire dal ritratto fotografico, considerato il genere per eccellenza dove si condensa il tema dell’identità e la sua rappresentazione. Una rappresentazione messa in immagine dal fotografo, plasmata dai suoi sforzi di render “vivo” il soggetto “immortalato”, sottrarlo alla inevitabile esperienza di “micro di morte” in cui incappa divenendo oggetto della fotografia.
D’altro canto, paradossalmente, il congelamento del tempo, la possibilità di fissare su una matrice impressionabile dalla luce un particolare momento, certificarlo e renderlo testimonianza di ciò che è stato5, rappresenta il motivo principale dell’uso dell’immagine fotografica nelle pratiche del ricordo così capillarmente diffuse a livello sociale e alla base di buona parte della fotografia di famiglia e vernacolare.

1.1. La pratica del ritratto

La pratica del ritratto fotografico si afferma da subito come uno dei generi favoriti della fotografia rispondendo ad una crescente domanda delle classi più agiate, in particolare della borghesia, e giocando un ruolo di grande importanza nella costruzione della sua identità e memoria. L’introduzione della fotografia non rappresentò una vera e propria rottura in termini di corsa al ritratto poiché almeno dalla fine del XVIII secolo si diffuse una grande passione che riguardava questo genere; oltre ai ritratti ad olio, che riprendevano il soggetto fino al busto, iniziarono a diffondersi i disegni alla silhouette, ottenuti con l’ausilio di un sistema ottico-meccanico chiamato physionotrace, una tecnica prefotografica che permetteva di riprendere con esattezza il soggetto di profilo, collegato anche con la moda della miniatura, un genere di ritratto pittorico caratterizzato dalle piccole dimensioni, molto spesso su avorio.
L’avvento della fotografia trovò dunque un fertile terreno e un mercato fiorente pronto per reclutarla come strumento privilegiato di rappresentazione: il nuovo ritrovato di Daguerre offriva una serie di vantaggi rispetto alle tecniche tradizionali come il tempo di posa più breve mantenendo al contempo la precisione e il carattere prezioso e intimo delle miniature. I primi dagherrotipi si aggiravano su un costo fra i 50 e i 300 franchi nel 1840 – dunque un prezzo relativamente alto, ma comunque accessibile per le classi agiate6.
La nuova tecnica del collodio e la successiva nascita della carte de visite dalla metà degli anni ’50 del XIX secolo allargherà ulteriormente il mercato portando ad una vera e propria rivoluzione in termini di consumi nel campo fotografico e dando avvio a quella che il giornalista Victor Fournel definì una “deplorevole epidemia” una sorta di “portraituromanie” che aveva colto la popolazione di Parigi7.
Gisèle Freund ricorda come la fotografia fosse una tecnica congeniale alla borghesia, quella che meglio poteva raccontarla e alla quale i nuovi ceti emergenti si rivolsero per ottenere legittimazione sociale. Certamente l’introduzione della “photo-carte de visite” sarà una svolta nella possibilità tecnica e di riproduzione fotografica, introducendo sul mercato un prodotto che per una ventina di franchi dava la possibilità di ottenere dalle otto alle dodici fotografie quando fino a quel momento un ritratto al dagherrotipo sarebbe costato in media sui cento franchi: «[…] Disdéri aveva creato una vera moda che di colpo coinvolgeva tutti. Anche di più: rovesciando la proporzione economica valida sino ad allora e cioè dando infinitamente di più per infinitamente meno, egli rendeva definitivamente popolare la fotografia»8. Queste immagini di piccolo formato (6x9cm), stampate in serie e incollate su cartoncino divennero ben presto il biglietto da visita di una intera classe sociale, quella borghese. Da questo momento la fotografia, svolgendo una funzione sociale così importante e legata all’identità non solo individuale ma di classe, si troverà ad essere al centro di un crocevia fra dimensione privata e pubblica che non lascerà più. Infatti se i dagherrotipi erano oggetti riservati ad una circolazione intima e ad una visione individuale (anche perché occorreva osservarli da una determinata angolazione incidente con la luce), la carte de visite divenne un oggetto da collezionare e scambiare, che conquistò piano piano la vita mondana, arrivando anche nelle corti reali e imperiali di tutta Europa.
Un riscontro molto interessante sull’uso delle carte de visite da parte del pubblico, viene dato dalla analisi di una delle più importanti collezioni di album al mondo, conservata presso gli archivi Alinari, dove il grande numero di esemplari documenta la pratica di raccogliere in album miscellanei immagini di personaggi pubblici e famosi, politici, capi militari, ma anche intellettuali, scrittori, artisti, attori9.
I ritratti in carte de visite inizieranno in breve tempo anche ad essere raccolti e conservati in portfolio e album fotografici personali, dove immagini familiari e immagini di personaggi famosi verranno mescolate insieme, sancendo legami reali e immaginari, un modo per dotare la propria famiglia, almeno da un punto di vista fotografico, di origini “nobili” e importanti.
Questa tipologia era particolarmente frequente negli album di ambiente aristocratico o alto borghese che raccoglievano la produzione di carte de visite serializzate (riconoscibili dal fatto che il nome del personaggio ritratto e stampato sul supporto in cartoncino, mentre per le carte de visite normali tale indicazione è di norma a penna) di personaggi famosi. La diffusione di carte de visite fu dunque davvero molto ampia nel corso della seconda metà dell’Ottocento: non si hanno su questo dati precisi però risulta che i principali fotografi poterono contare sulla carte de visite come uno dei prodotti di punta dei loro atelier, che garantiva ingenti entrate economiche.
Anche i grandi fotografi editori Alinari, specializzati nella fotoriproduzione del patrimonio culturale, nel 1863 pubblicarono il loro primo catalogo in forma di volume, nel quale le carte de visite e le stereoscopie avevano grande importanza10.
Altri fotografi, come il livornese Bernoud, che pubblicava un’opera a fascicoli intitolata “L’Italia contemporanea”11 dedicata alle “celebrità artistiche, letterarie, diplomatiche, politiche e militari” del nuovo Regno, avevano un ricchissimo catalogo di personaggi del tempo, al quale il pubblico poteva attingere per creare propri album personalizzati.

1.2. I caratteri del ritratto in carte de visite

L’interesse verso il foto-ritratto era talmente grande che nel tempo iniziarono a diffondersi guide apposite che cercavano di consigliare sull’uso e la circolazione di queste immagini, come ad esempio l’avere diverse copie di propri ritratti da poter scambiare perché in base al destinatario si sarebbe potuta scegliere l’immagine più consona e che più si addiceva alla sua personalità.
In poco tempo si susseguirono aperture di atelier fotografici in ogni città, privilegiando le zone più vicine ai luoghi mondani, dove era più facile intercettare una clientela interessata ad acquistare un proprio ritratto. Gli studi iniziarono ad essere allestiti nel modo più sontuoso, arredati con mobili e tappeti lussuosi, velluti, sculture, quadri ed una serie di oggetti curiosi ed esotici che avrebbero potuto, su richiesta del cliente, ambientare lo scatto fotografico su uno sfondo lontano dalla realtà della vita e del lavoro. Addirittura, negli studi più importanti, come quello di Disdéri in Boulevard des Italiens le sale d’attesa diventavano spazi di intrattenimento, dove il cliente poteva suonare il pianoforte, leggere giornali o giocare a biliardo e ammirare i ritratti di personaggi famosi passati prima di loro da quello stesso Atelier.
Nel tempo si sviluppò anche un li...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. I. La mobilitazione della società civile per la guerra e il progetto per la costruzione di una memoria fotografica dei caduti
  7. II. I fascicoli personali dei caduti fra rappresentazione fotografica e memoria
  8. Epilogo