Cosa fare delle nostre ferite?
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Cosa fare delle nostre ferite?

La fiducia e l'accettazione dell'altro

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Cosa fare delle nostre ferite?

La fiducia e l'accettazione dell'altro

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Le nostre ferite — le faglie, le fratture, le mancanze del nostro essere — sono sempre più spesso messe al bando dalla società «performante», tanto che ci rassegniamo a considerarle gravi errori e a trattarle come pattume da nascondere sotto il tappeto della nostra consapevolezza. Si produce così un cortocircuito fra la nostra parte «accettabile», con cui ci identifichiamo, e la parte di noi più vulnerabile e spaventata, che finiamo per giudicare «impresentabile». È indispensabile invece fare i conti con le proprie fragilità, riconoscerle, per conquistare un piccolo ma saldo spazio interiore di certezza che possa permetterci di rimanere in piedi quand'anche arrivassero le immancabili delusioni.La fiducia ci espone al rischio del tradimento, ma se non si accetta di correre questo rischio si resta murati nei ruoli malinconici dello spettatore e dell'antagonista, ovvero di chi si limita a osservare la vita e a difendersi da essa.

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Informazioni

Editore
Il Margine
Anno
2021
ISBN
9791259820518

1.

Fare i conti con le nostre ferite

Dici che la sofferenza non serve a niente. Ma non è vero. La sofferenza serve a far urlare. Per farci avvedere dell’insensatezza. Per permetterci di notare il disordine. Per scorgere la frattura del mondo. Dici che la sofferenza non serve a niente. Ma non è vero. Serve a dare testimonianza del corpo spezzato.
jeanne hyvrard, La meurtritude (1977)
Cosa fare delle nostre ferite? Non potrei rispondere a questa domanda senza iniziare dalla mia esperienza personale, senza raccontarvi alcune delle ragioni che mi hanno spinta a occuparmi della vulnerabilità e della fragilità della condizione umana. Essendo una filosofa, in effetti, ho scelto di consacrarmi a un ambito particolare della filosofia, ovvero all’etica. L’ho fatto dopo aver ricevuto una formazione in filosofia analitica e dopo essermi focalizzata, per anni, su questioni di logica, sull’analisi del linguaggio morale, sul problema del rapporto tra fatti e valori, essere e dover essere, proprietà intrinseche e valore intrinseco… Per dirla in modo semplice, la filosofia analitica è basata su un’antropologia filosofica di cui ho cominciato a cogliere i limiti soltanto allorché io stessa mi sono dovuta confrontare con la sofferenza. È questo che mi ha indotta a modificare radicalmente il mio modo di riflettere sulla filosofia morale e a fare della necessità di «contrastare l’estrema fragilità della condizione umana», come direbbe Habermas, il solo scopo dei miei lavori.
Il punto di partenza di gran parte della filosofia analitica è in effetti una concezione dell’uomo che considero ormai estremamente riduttiva: l’essere umano sarebbe infatti, per la maggior parte dei filosofi analitici, un agente razionale, un essere sempre capace, in quanto agente, di «dire», di «fare» e di assumersi la «responsabilità» delle sue azioni e delle conseguenze che ne derivano. Ma si può sul serio ridurre una persona a una «somma» di «competenze» più o meno sviluppate? Si può sul serio comprendere l’essere umano senza prendere in considerazione la sua fragilità e le sue ferite? Cosa vuol dire interrogarsi sulla portata etica di una pratica e di una condotta se ci si limita all’economia della sofferenza e dei fallimenti?
Se dovessi «riassumere» la mia vita in una frase, per lo meno così come è stata fino a una ventina d’anni fa, direi che si è trattato della storia di una «riuscita». Ero riuscita in «tutto». Per lo meno da un punto di vista sociale… ero stata la «prima della classe». Ero stata una ragazza obbediente e «perfetta». L’orgoglio dei miei genitori e dei miei insegnanti. Ero stata accolta alla Normale di Pisa. Avevo portato brillantemente a compimento il mio percorso universitario. Ero stata «programmata» per diventare un «animale da concorso» ed ero riuscita a diventarlo… Poi, in modo inaspettato (per tutti: genitori, insegnanti, amici, me stessa), si verificò la caduta… la disperazione… la traversata dell’inferno… La prova vivente di quel che un giorno aveva detto Georges Canguilhem sottolineando che nella vita, sovente, «le riuscite sono fallimenti ritardati» (Canguilhem, 2003, p. 206). Senza alcuna ragione apparente, dall’oggi al domani, ero «caduta» nell’incubo dell’anoressia. Senza rendermene conto, mi ero rinchiusa da sola dentro una «gabbia dorata», senza riuscire più ad andare avanti. Prigioniera del mio sintomo, avevo la sensazione che ormai nulla fosse più possibile, che la mia vita non valesse più la pena di essere vissuta, che non mi restasse altro che aspettare di lasciare questo mondo in cui per me non c’era più posto.
A poco a poco, sono stata risucchiata dal vuoto. Un vuoto sterile e intransigente. Un vuoto che avevo l’illusione di riempire con il cibo e di combattere con il vomito. Fino a che il mio corpo, cancellato dalla violenza di tali gesti, non provasse più nulla. Desideravo diventare uno scheletro, consumare la mia carne, vomitare il mondo. Non volevo occupare lo spazio e cercavo di divenire trasparente per poter finalmente «essere». Al di là delle aspettative altrui, al di là del loro desiderio. Al di là dei ruoli che avevo sempre rivestito. Ma il mio corpo mi teneva perpetuamente prigioniera. Era solo materia che immagazzinava il dolore. Calmare compulsivamente la fame, riempirmi, svuotarmi erano per me un modo di sottrarmi alla mia ferita interna, di conferirmi una pienezza immaginaria. Ero abitata da una dialettica forsennata. L’immediatezza di un capovolgimento continuo tra vuoto e pieno, pieno e vuoto. Ma si trattava soltanto di una soluzione illusoria. Poiché il cibo che attraversava il mio corpo non poteva bruciare la mia sofferenza se non per un tempo limitato. Non poteva colmare il mio vuoto se non per un istante. Il tempo di passare dalla cucina al bagno. Il tempo di ficcarmi le dita in gola. Il tempo di ritrovare la mia lacerazione dopo il vomito. Ciò di cui mancavo era un’immagine unitaria di me stessa; ciò di cui avevo bisogno era la certezza di essere viva e di occupare un posto nel mondo; ciò di cui soffrivo, era la perdita di uno sguardo d’amore che avrebbe potuto (e dovuto) insegnarmi a essere materna per me stessa, a darmi il diritto di esistere nonostante le mie debolezze.
Non posso raccontarvi in dettaglio tutto quel che ho dovuto fare per uscirne a poco a poco. Per ricominciare a vivere dopo aver attraversato l’inferno. Per diventare quella che sono adesso, qui, nel momento in cui scrivo… Nel frattempo ho lasciato il mio Paese, sono andata a stabilirmi in Francia, ho imparato una lingua straniera, mi sono sottoposta a una lunghissima psicoanalisi… Per scoprire a poco a poco che, dietro l’immagine della mia infanzia idilliaca che tante volte era stata indicata come un modello, vi erano in realtà relazioni complesse, alimentate dall’ansia dei miei genitori. Ciò che contava, ai miei occhi, per molto tempo era stato essere «performante», «perfetta» e «irreprensibile», per rassicurare i miei genitori e far loro piacere a scapito del legame con i miei affetti… Ed è solo quando ho iniziato ad accettarmi per quella che sono, con le mie debolezze e le mie imperfezioni, che ho potuto cominciare finalmente a vivere. A essere oggi fra la gente. Posso d’altronde assicurarvi che è proprio «grazie» alle mie ferite — che sono sempre là e non «guariranno» mai, e con cui dovrò sempre «fare i conti» — che posso darvi alcune piste di riflessione filosofica riguardo appunto alla questione: cosa fare delle nostre ferite?
Ma, per riuscirvi, devo fare una deviazione. Si tratta stavolta di una «deviazione teorica», vale a dire una breve descrizione dell’ideologia dominante nella nostra società. Che spiega, almeno in parte, il rifiuto contemporaneo di qualunque tipo di fragilità e di ferita. In quale società viviamo oggi? Perché risulta tanto difficile accettare la vulnerabilità degli esseri umani? Perché è così difficile riuscire a «fare qualcosa» delle nostre ferite?

«Controllo» e «padronanza»

Tradizionalmente, i filosofi hanno spesso preferito riflettere sull’anima e le sue passioni, condurre indagini sull’intelletto umano, criticare la ragione teorica pura e pratica piuttosto che sporgersi con lo sguardo sulla realtà del corpo e sulla finitudine della condizione umana. La qual cosa ha comportato che il corpo sia stato spesso trattato come un corpo/prigione, un corpo/gabbia, un corpo/macchina, un corpo/estensione… Per secoli il pensiero filosofico si è costruito attorno a un dualismo ontologico fra l’anima e il corpo, riducendo quest’ultimo a un’entità materiale da cui era necessario a tutti i costi allontanarsi. E quel dualismo è ancora presente, benché venga concettualizzato in maniera diversa, e continua a influenzare l’ideologia contemporanea.
Certo, oggi sono rari coloro i quali continuano a contrapporre il corpo mortale all’anima eterna. Ma il corpo resta irrimediabilmente concepito come ciò che rimanda inevitabilmente ai limiti e alle debolezze dell’essere umano. Il rifiuto del corpo non si effettua più in nome della verità o della virtù, bensì in nome del potere e della libertà: vivere in un mondo in cui il corpo non esiste più significa non essere più assoggettati alle sue costrizioni, non essere più obbligati ad assumere le sue debolezze, significa uscire, finalmente, dalla finitudine.
Il solo corpo oggi accettabile sembra essere un corpo perfettamente padroneggiato. Dalle immagini pubblicitarie fino ai videoclip, siamo costretti a confrontarci d’altronde con un numero sempre maggiore di rappresentazioni che rimandano tutte, in un modo o nell’altro, all’idea di «controllo»: esibire un corpo ben padroneggiato sembra la prova più evidente della capacità di un individuo di assicurare un controllo sulla sua vita. Da qui la necessità, per le donne come per gli uomini, di «proteggersi» dai segni del tempo e di rimodellare il proprio aspetto esteriore seguendo una dieta, praticando attività fisica e sottoponendosi alla chirurgia estetica. Ogni persona che voglia «valorizzarlo» deve prendersi una «cura estrema» del proprio corpo ponendolo al riparo dalle minacce più pericolose: l’eruzione cutanea, la giovinezza che si allontana, le dissimmetrie.
È l’immagine corporea che seduce o sciocca, che alletta o disgusta. Ecco perché la chirurgia estetica, le diete e l’allenamento fisico sono grandemente valorizzati in quanto mezzi per liberarsi dal peso corporeo in eccesso e prendere finalmente in mano la propria vita. È attraverso la magrezza e tutte le altre forme di cura del corpo che si può dare prova del controllo e della padronanza di sé, mentre la corpulenza e la scarsa attenzione al proprio aspetto fisico denunciano la propria debolezza. Il corpo curato rappresenta, così, non soltanto il simbolo della bellezza fisica, ma anche la quintessenza della riuscita sociale, della felicità e della perfezione. Quanto alla bellezza, divenuta un valore in sé, conferisce qualità che trascendono l’aspetto fisico come il fascino, la competenza, l’energia e l’autocontrollo. La retorica contemporanea è ormai perfezionata. Ogni individuo dev’essere libero di scegliere la vita che più gli si attaglia: deve poter «essere se stesso». Ma, per conseguire lo scopo, non gli basta semplicemente «essere». La bellezza e la magrezza devono essere coltivate. Il corpo dev’essere controllato. In nome della libertà, il corpo deve «seguire», senza posa, alcune regole: ancor prima di essere ciò attraverso cui un individuo è al mondo e manifesta il proprio desiderio, è ciò che lo conforma alle leggi del saper vivere che, oggigiorno, gli impongono di essere bello, magro, sano, desiderabile, sexy. Dietro la pretesa libertà di determinare la propria vita, si nasconde una vera e propria ideologia che strumentalizza il concetto di autonomia personale, riducendo l’autonomia...

Indice dei contenuti

  1. 1. Fare i conti con le nostre ferite
  2. 2. L’accettazione dell’altro
  3. 3. Che cos’è la fiducia?
  4. 4. Lavorare insieme: una questione di fiducia
  5. Bibliografia