1.
Dalla Rivoluzione francese all’Olocausto:
plus ça change, plus c’est la même chose
È alquanto improbabile che ai giorni nostri un lettore del romanzo di Anatole France Les dieux ont soif, pubblicato originariamente nel 1912, non resti al tempo stesso sconcertato ed estasiato. Con ogni verosimiglianza, sarà sopraffatto dall’ammirazione, come è accaduto a me, per un autore che non soltanto, come ha scritto Milan Kundera, è riuscito a «strappare il sipario delle preinterpretazioni», «il sipario calato di fronte al mondo», con l’intento di liberare «i grandi conflitti umani da interpretazioni ingenue come la lotta fra il bene e il male, comprendendoli invece alla luce della tragedia» (Kundera, 2005) (secondo Kundera è proprio questa la vocazione dei romanzieri e il compito di chiunque scriva romanzi), ma che ha anche ideato e sperimentato, a beneficio dei suoi lettori allora non ancora venuti al mondo, gli strumenti che occorrono per tagliare e squarciare i sipari non ancora intessuti, ma che per certo sarebbero stati appassionatamente cuciti e appesi «di fronte al mondo» molto tempo dopo che il suo romanzo fosse stato concluso, e ancor più febbrilmente dopo la sua morte.
Nel momento in cui Anatole France depose la penna e diede l’ultima occhiata al suo romanzo terminato, non c’erano ancora parole come «bolscevismo», «fascismo», e neppure «totalitarismo» negli elenchi dei dizionari, né in quello francese né in quelli delle altre lingue; né comparivano in qualsivoglia testo di storia nomi come quelli di Stalin o Hitler.
Lo sguardo di Anatole France si appuntò su Evarist Gamelin, un giovane principiante che si muoveva nel mondo delle belle arti, un giovanotto di grande talento, molto promettente, che tuttavia provava disgusto per Watteau, Boucher, Fragonard e altri dittatori del gusto popolare — il cui «cattivo gusto, brutti disegni, pessima ideazione», «la totale assenza di uno stile chiaro e di un tratto definito», «una totale inconsapevolezza della natura e della verità», con un’inclinazione per «maschere, bambole e fronzoli, per le stupidaggini infantili» egli spiegava con la loro sollecita propensione a «lavorare per i tiranni e per gli schiavi».
Gamelin era certo che «fra cent’anni tutti i dipinti di Watteau saranno finiti a marcire nelle soffitte», e prediceva che «nel 1893 gli studenti di arte copriranno le tele di Boucher con i loro schizzi rudimentali». La Repubblica francese, che era ancora una tenera, instabile e fragile figlia della Rivoluzione, sarebbe cresciuta tagliando, l’una dopo l’altra, le molte teste dell’idra della tirannia e della schiavitù, compresa questa. Nessuna pietà per chi cospira contro la Repubblica, nessuna libertà per i nemici della libertà, né la minima tolleranza per i nemici della tolleranza. Ai dubbi sollevati dalla sua incredula madre, Gamelin rispose senza esitazione: «Dobbiamo riporre la nostra fiducia in Robespierre; lui è incorruttibile. Ma, soprattutto, dobbiamo credere in Marat. È lui che ama sul serio il popolo, che realizza i suoi veri interessi e che lo serve. È sempre stato il primo a smascherare i traditori e a sventare i complotti».
In uno dei suoi rarissimi interventi autoriali, Anatole France spiega/stigmatizza i pensieri e le gesta del suo eroe e di coloro che gli somigliano con queste parole: era il «sereno fanatismo» di «piccoli uomini che avevano demolito lo stesso trono e avevano rovesciato il vecchio ordine delle cose».
Nel suo percorso dalla posizione di giovane fascista romeno a quella di adulto filosofo francese, Emil Cioran delinea e accomuna l’identità e il destino dei giovani dell’era di Robespierre e Marat e di quelli del tempo di Stalin e Hitler: «Il loro destino è la cattiva fortuna. Sono loro a dar voce alla dottrina dell’intolleranza, e sono ancora loro che traducono in pratica quella dottrina. Sono loro a essere assetati di sangue, tumulto, barbarie» (Cioran, 1996). Be’, tutti i giovani? E soltanto i giovani? Ed esclusivamente nelle ere di Robespierre e Stalin?
2.
Il rispetto e la benevolenza
Secondo Kant, il rispetto e la benevolenza per gli altri costituiscono un imperativo della ragione; il che significa che se un essere umano, una creatura dotata da Dio o dalla Natura della ragione, riflette sul ragionamento di Kant, riconoscerà e accetterà sicuramente il carattere categorico di quell’imperativo e lo adotterà come un precetto della sua condotta. Nella sua essenza, l’imperativo categorico in questione si riassume nel comandamento di trattare gli altri così come si vorrebbe essere trattati da loro; in altre parole, in un’altra versione dell’ingiunzione biblica di amare il prossimo come se stessi — con la differenza che, nel caso di Kant, l’ingiunzione è fondata su una serie elaborata e raffinata di argomentazioni logiche, invocando in tal modo l’autorità della ragione umana capace di giudicare quel che è necessario e non può che essere, invece della volontà di Dio che stabilisce quel che deve essere fatto.
In una simile trasposizione dal linguaggio sacro a quello secolare qualcosa del potere persuasivo del comandamento è andato però perduto. La volontà di Dio, quello spudorato «decisionista», può infondere un potere apodittico e incontestabile alla presunzione di una essenziale, preordinata e inaggirabile simmetria delle relazioni umane, una presunzione indispensabile sia per la versione sacra sia per quella secolare; laddove invece la ragione si ritroverebbe nei guai se volesse dimostrare la veridicità di quella presunzione. L’asserzione della simmetria delle relazioni interumane appartiene, dopotutto, all’universo delle credenze, delle cose date per scontate e delle convenzioni (e potrebbe perciò essere accettata sulla base del «se fosse meglio, se…» o del «dobbiamo obbedienza alla volontà di Dio»); ma non ha diritto di cittadinanza nell’universo della conoscenza verificabile empiricamente — che è il dominio, o piuttosto l’habitat naturale, della ragione. Che i difensori dei poteri legislativi della ragione facciano riferimento all’infallibilità della stessa nella sua ricerca della verità («come le cose sono sul serio e non possono che essere»), o ai suoi meriti utilitaristici (la sua capacità di separare le intenzioni realistiche, praticabili e plausibili dai meri sogni a occhi aperti), troveranno difficile argomentare in modo convincente la realtà della simmetria, e ancora più arduo provare l’utilità di praticarla.
Il problema è la scarsità, a dir poco, dell’evidenza empirica a sostegno della presunzione di cui si parla, mentre la ragione reclama l’ultima parola sulla controversia basando i suoi giudizi proprio su quel tipo di evidenza, destituendo di qualsivoglia validità tutti gli argomenti che le si contrappongono. Un altro problema, pur strettamente connesso, è la profusione di evidenze contrarie: vale a dire che quando si sostiene l’efficacia delle imprese umane e della capacità umana di raggiungere gli obiettivi prefissi, la ragione si applica a liberare i suoi detentori dalle costrizioni imposte sulle loro scelte dalla simmetria, dalla reciprocità, dalla reversibilità di azioni e obbligazioni; in altre parole, creando situazioni in cui i detentori della ragione possono tranquillamente depennare dall’elenco di fattori rilevanti per le loro scelte il timore che il corso di azione che hanno intrapreso possa avere ripercussioni sgradite — o, per dirla brutalmente, che il male possa avere un effetto boomerang su chi lo compie. Contrariamente alla speranza di Kant, sembra proprio che la ragione comune impieghi la maggior parte del suo tempo e della sua energia nel disarmare e disabilitare le richieste e le pressioni del sedicente imperativo categorico. Secondo i precetti della ragione, i principi dell’azione più ragionevoli e meritevoli di attenzione sono quelli che mandano a vuoto o aboliscono la simmetria fra gli attori e gli obiettivi delle loro azioni; o perlomeno quelli che riducono al minimo le possibilità di recipro...