UTIC
Ci sono momenti topici, in cui la vita ti passa davanti agli occhi come la pellicola di un film. Naturalmente è un modo di dire se hai pochi istanti di tempo nell’imminenza, per esempio, di un evento grave ed irreparabile che sta per accaderti, mentre si fa sempre più reale, il ‘rewind’, quanto più si prolunga la fase agonica ma cosciente che precede l’accadimento estremo. Specie se ti lascia anche la possibilità di poterne scrivere.
Ho passato 14 giorni in Utic all’ospedale di Cosenza, e la mia vita me la sono rivista fotogramma per fotogramma, compreso di popcorn e bevanda gassata.
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Sono entrato l’8 luglio con diagnosi di embolia massiva all’arteria polmonare. Non respiravo, aprivo la bocca e inghiottivo famelicamente aria, ma inutilmente.
Erminia aveva scambiato la crisi per panico da congestione delle prime vie aeree e aveva chiamato Mariella, il nostro medico, cercando di far decantare il momento con un Bentelan, per evitare di passare dal pronto soccorso.
Per fortuna era presente Gianpaolo, internista dell’ospedale e marito di Mariella che, registrata la mia pressione ad 80/60, la FC a 130 e la saturazione sotto i 90, non voleva sentire ragioni e pretendeva la chiamata al 118.
E così, sopraggiunta un’ambulanza, sono arrivato al Pronto Soccorso in codice rosso, con crisi respiratoria persistente nonostante la somministrazione di ossigeno in atto.
Per similitudine di sintomi ed eventi, una sorta di crisi pre-covid, compresa di quarantena.
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Ricordo tutto con estrema chiarezza, non ho mai perso conoscenza né concentrazione, rispondevo alle domande in modo pertinente, mi concentravo sugli sviluppi possibili.
Solo una parte del mio cervello – in multitasking – ripeteva ossessivamente: voglio respirare, non voglio altro.
Cassano, nella stanzetta, mi accarezzava e gli chiedevo se poteva piegarmi le gambe perché i piedi urtavano alla sbarra e mi facevano male.
Ricordo Gianpaolo che andava e veniva dalla mia barella – mi dirà poi Erminia che dopo l’elettrocardiogramma chiedeva di visionarne un altro fatto in precedenza, reperito in Neurologia, e formulava la diagnosi di embolia polmonare – e i medici che mi gestivano, con altri tre pazienti in codice rosso e l’esasperazione crescente di un altro numero indefinibile di codici verdi, gialli, bianchi.
Dopo circa tre ore arrivava Enzo, mi chiedeva come stavo e di cosa avessi bisogno e gli dicevo che in sala Tac mi aspettavano, ma che non c’era nessuno che mi portasse fin lì.
A quel punto si scatenava il guerrigliero, cominciava a gridare nei corridoi, minacciando che mi avrebbe portato lui. E così, come d’incanto, comparvero due Oss e finalmente raggiunsi la mia destinazione.
La mia Tac durava 2 minuti, il tempo perché i radiologi impallidissero al cospetto di due massicci trombi ‘a cavaliere’ in arteria polmonare e disponessero d’urgenza il trasferimento in rianimazione o, a scelta, in Utic.
Sempre vigile e concentrato a non perdermi nemmeno un atomo di ossigeno, venivo portato in reparto, dove mi accoglievano con un incoraggiante “non si preoccupi, è nel posto giusto, ora ci pensiamo noi, vedrà che ci prenderemo cura di lei”.
Nemmeno il tempo di accomodarmi – come usa dire – e inserivano una flebo di eparina in vena, prelievi a raffica, elettrodi sparsi su addome e torace, saturimetro al dito – che si anchilosava – e immancabile mascherina, il cui flusso generava un rumore assordante.
Così inizia la mia prima lunga notte in Utic, immobile, con schienale letto rialzato e il resto del corpo, soprattutto bacino e gambe, in configurazione resilienza, quando vorresti che te li muovessero in continuazione ma sai che, se resisti al fastidio e poi al torpore e poi al dolore, arriva un momento in cui non senti più niente.
In compenso mi aspettavano tante riflessioni, un lungo tunnel di mezzi articolati in processione, di cui era impossibile vedere lo sbocco.
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Il reparto di terapia intensiva coronarica dell’Ospedale di Cosenza rientra a pieno titolo tra i “non luoghi”, quegli spazi costruiti per un fine ben specifico, solitamente di trasporto, transito, commercio, tempo libero e svago: un aeroporto, un’aquapark, un centro commerciale.
Sono tutti uguali, ovunque si trovino, tanto da non essere distinguibili l’uno dall’altro.
Così come anonimo, impersonale rimane il rapporto che viene a crearsi fra gli individui e quegli spazi.
Il termine francese fu introdotto dall’antropologo francese Marc Augé nel 1992, nel suo libro “Non-lieux”.
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Corpi difettosi entrano ed escono di continuo, tutti in condizioni critiche, prossime al fine vita, per patologie relative alla funzionalità cardiaca, respiratoria e, in genere, molto gravi.
I corpi vengono denudati, volendo si può tenere uno slip o un pannolone, vengono muniti di accesso venoso di default e catetere vescicale e riempiti di elettrodi da connettere ad un monitor che misura di continuo i parametri vitali, h 24.
A quel punto ha inizio una routine prioritaria quasi uguale per tutti: raccolta anamnesi, compilazione riquadri diagnosi, raccolta dati in tempo reale, somministrazioni terapie, esami obiettivi e rivalutazioni mediche aggiornate.
Seguono le procedure di secondo livello: cambio biancheria, pulizia corpo e igiene intima, fornitura supporti per le evacuazioni e conseguente pulizia, somministrazioni pasti di qualità organolettiche incomprensibili e incommentabili, gestione e contingentamento visita parenti: un’ora, due volte al giorno, uno per volta.
Non mancano scambi relazionali brevi con i pazienti, saluti, sorrisi, domande, risposte. Tutti codificati, standard, ripetitivi, professionali, impeccabili.
Medici, infermieri, Oss si alternano in tre turni nelle 24 ore, in un ciclo continuo nel quale sembra che non se ne vadano mai, semplicemente si assentano per un tempo indefinito, ma puntualmente ricompaiono, in composizione e assortimento diversi.
Tutti parlano la stessa lingua, con competenze molto simili sui dati raccolti, sulle terapie da somministrare, sui protocolli di intervento in caso di emergenza.
Tutti rodati e perfettamente connessi l’uno all’altro, tanto da sembrare un unico organismo che opera in perfetta sincronia. Tutto scandito da un ordine e un rigore non comune, tutti con spiccata empatia per la condizione di difficoltà umana di corpi che non funzionano e che non funzioneranno più. Nella migliore ipotesi, non più come prima.
Meccanismo perfetto.
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La mia prima notte è passata insonne: la posizione immutabile e immutata, il rumore dell’ossigeno costretto nella mascherina che mi ronza nelle orecchie a ritmo di una lavatrice, fame d’aria insaziabile.
Non ho mai perso lucidità, ho sempre avuto consapevolezza della diagnosi di embolia massiva e delle sue terribili conseguenze – studiate ripetutamente in almeno 5 processi penali – ho pensato che il mio decesso potesse ancora arrivare, durante la notte o alle prime luci dell’alba.
Nessun panico, anzi anche un po’ di distacco.
Qualche pensiero generico sulle occasioni perse a causa delle afflizioni della mia condizione, sull’incertezza e sulla paura per il futuro di Erminia e dei figli, qualche rammarico sul fatto di non potermene più occupare, nella certezza che, come ogni preoccupazione, nemmeno queste avrebbero potuto far parte del bagaglio per il prossimo viaggio.
Per quanto possiamo immaginare che senza di noi potrebbero venire meno le condizioni minime di sopravvivenza per le persone che amiamo, o anche solo per stare bene, chi resta avrà senz’altro risorse per superare gli ostacoli e andare avanti.
Tutto, per definizione, sopravvive a chi muore, per un tempo indefinito, anche se finito.
Per quanto lungo lo si possa immaginare questo tempo, infatti, resta meno di un attimo rispetto all’eternità.
E allora perché rammaricarsi di precedere i propri conterranei di qualche anno.
Siamo vasi comunicanti, programmati per pensarci in connessione con i nostri affetti, le nostre relazioni.
Ci pensiamo necessari, a volte indispensabili, perché nel caso venga meno, inopinatamente, il nostro amor proprio, il nostro spirito di conservazione, che è il fine ultimo della nostra esistenza, sopravvenga il piano B, per conservare le condizioni di sopravvivenza del corpo che ci è stato assegnato e cioè l’alibi che la nostra sopravvivenza a qualunque costo sia indispensabile per quella dei nostri cari.
È mattina.
Ancora ci sono.
Respiro meglio.
Pressione, fce, saturimetria sono stabilizzate verso valori rassicuranti.
Non ho dormito ma non sono stanco. Ogni tanto riesco anche a fare un respiro lungo, di quelli che ti riempiono i polmoni e ti soddisfano, finalmente. E allora ho il tempo mentale di ripensare alla mia condizione, alla possibilità di averla sfangata. Sono ancora nudo sotto le lenzuola, dentro e fuori, ma riprendo percezione dello spazio che occupo su questa terra e recupero un po’ del tempo indefinito che mi resta da vivere.
Guardo il cellulare che Erminia mi ha lasciato a portata di mano e gli occhiali. L’unico mezzo che mi riconnette al resto del mondo di fuori. Trovo una quantità non misurabile di messaggi whatsapp che mi aspettano.
Tantissimi lo hanno saputo, tutti vogliono testimoniarmi vicinanza, affetto, incoraggiamento.
La chat dello studio, che normalmente ...