Decontaminare le memorie
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Decontaminare le memorie

Luoghi, libri, sogni

  1. 156 pagine
  2. Italian
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Decontaminare le memorie

Luoghi, libri, sogni

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Ci dicono che il paesaggio è il grande malato, preda di speculatori: basta affacciarsi alla finestra per vedere i condomini e le villette a schiera là dove c'erano pinete e prati. Ma la Storia non ha inferto al paesaggio danni altrettanto irreparabili? Si parte da un concetto logorato dall'uso, quello di memoria, cui si attaccano gli altrettanto logorati «giorni» della memoria. In un percorso tra luoghi e paesaggi carichi della violenza della storia, aiutato da libri e da sogni, Alberto Cavaglion suggerisce di usare uno sguardo libero, che scavi e insieme costruisca un percorso di rigenerazione.«Sulle rovine della grande selva del Novecento», dove la terra reca visibili i segni di contaminazioni, tutti – nelle stazioni ferroviarie, lungo le frontiere, su ponti crollati, negli stadi di calcio, nelle scuole – dovremo riscoprire l'inventiva della vita e della letteratura.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788867833290
Argomento
Historia

II.
LIBRI CON LUOGHI

Un libro è come la semente, da un granello trovato in una piramide egiziaca potrebbe anche oggi rinascere una fiorente messe biondeggiante al nuovo sole. Un germoglio portato da un paese all’altro può quivi far prosperare una nuova pianta che prima si era spenta si chiami erba medica o libero pensiero.
Angelo Fortunato Formiggini, 1909

Giannina a Cerveteri

Compito di chi vuole incidere sulla realtà non è lamentarsi, ma chiedersi perché siamo giunti a un tale stato di degrado. Perché tanto fastidio, tanta insofferenza verso una questione come quella della memoria, della consapevolezza del passato, che è centrale nella formazione di un libero cittadino in libere istituzioni? Le strade da imboccare direi che sono due: individuare gli errori commessi e indicare qualche via di uscita.
Partiamo dall’autocritica, dalla fatidica frase «Mi sono sbagliato». Si è sbagliato moltissimo nei decenni scorsi, se è vero, come è vero, che i nostri laboratori sulla memoria non hanno impedito la diffusione di parole irripetibili contro le minoranze etniche, contro i neri, contro i rom, contro gli ebrei, contro i migranti, contro le donne. Chi ha lavorato nel mondo della scuola, chi si è occupato di didattica della Storia nelle istituzioni e negli assessorati dovrebbe fermarsi un attimo e ragionare sul perché ciò sia potuto accadere. Nessuno è innocente, nessuno può tirarsi indietro fingendo di non vedere. Chiedere e sperare che le cose si possano aggiustare con un processo moralistico ai Guardiani della Memoria o con la richiesta di un’ora in più nei curricula o la rassicurazione che la traccia di storia tornerà a essere reinserita nei temi per l’Esame di Stato – come è capitato di leggere in un recente appello di studiosi e docenti universitari – è un proposito ingenuo, che fa quasi sorridere se si pensa alla gravità degli errori commessi, su cui invece si sorvola.
Nel compiere questo esercizio critico, i libri possono darci una mano. Sono loro i mnemagoghi, i grandi suscitatori di memorie, che possono sostituire la voce dei testimoni. O per essere più precisi: sono i luoghi descritti in certi libri che ci aiutano a rivalorizzare i paesaggi della memoria. Passando attraverso i libri ci risulta più facile scoprire quali errori abbiamo commesso in passato e come guardare oltre.
A vestire i panni di Margherita, a formulare poche Gretchenfrage, semplici ma cruciali, è ancora il personaggio di un libro di Bassani. Giannina, la bambina che in compagnia dei genitori visita nel 1957 la necropoli etrusca di Cerveteri. È la scintilla che dà origine al Giardino dei Finzi-Contini, capolavoro di uno scrittore tanto impegnato nella scrittura, quanto nella difesa del paesaggio da diventare, nel 1955, uno dei fondatori dell’associazione Italia Nostra.
Al protagonista del libro le tombe etrusche fanno venire alla mente il mausoleo, la tomba dei Finzi-Contini, rimasta vuota, dal momento che tutti i componenti della famiglia furono sterminati ad Auschwitz. A suggerirgli il raffronto è Giannina, che domanda con il candore della sua età: «Perché le tombe antiche fanno meno malinconia di quelle più nuove?».
Il padre le fa notare che vogliamo più bene a quanti, morti da poco, sono vicini a noi, mentre gli Etruschi, morti da moltissimo tempo, è come se non fossero mai vissuti, come fossero stati sempre morti. Giannina non si convince e dopo lunga pausa replica con dolcezza: «Però, adesso che dici così, mi fa pensare che anche gli Etruschi sono vissuti, invece, e voglio bene anche a loro come a tutti gli altri». Presi come siamo stati dai ragionamenti teorici sul tramonto dell’era del testimone, ci siamo trovati impreparati a rispondere a questa domanda. A Micòl dovremmo continuare a volere bene anche quando sarà lontana nel tempo come le ombre di Cerveteri.
Facile a dirsi, ma come fare quando si parla ai ragazzi, quando si scrivono libri su quel periodo? Prendere atto di un ritardo nel considerare il divenire del tempo sarebbe già un buon punto di partenza. Ammetterlo aiuterebbe a riconoscere gli errori che ne sono derivati. Chi insiste sui ricorrenti abusi (la banalizzazione, che induce a ricordare eventi grandiosi senza rendersi conto della gravità; la sacralizzazione, che ha fatto del testimone un oggetto di culto; infine la commercializzazione, che ha trasformato le persecuzioni razziali in un consolidato genere cinematografico) prende di mira, non a torto, una funzione della memoria impositiva, moralistico-pedagogica, che ci impedisce di amare Micòl già adesso che non è passato nemmeno un secolo dalla sua scomparsa. Lo scempio di Anne Frank, avvenuto poco tempo fa in seguito agli oltraggi dei tifosi di una squadra di calcio, fa riflettere: che ne sarà di lei quando dalla sua morte ci separeranno i secoli e non i decenni?
Della complessità del problema era consapevole Levi, quando accosta alla «fanciulla d’Olanda» murata tra quattro mura la bambina di Pompei:
Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
Che ti sei stretta convulsamente a tua madre
Quasi volessi ripenetrare in lei
Quando al meriggio il cielo si è fatto nero.
Invano, perché l’aria volta in veleno
È filtrata a cercarti per le finestre serrate
Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
Lieta già del tuo canto e del tuo timido riso.
La liturgia del «dovere della memoria», con le sue parole d’ordine si è sviluppata in modo unidimensionale, ripetitivo, confidando sul principio di autorità, sull’insegnamento ex cathedra che vieta ogni sforzo di immaginazione, un imperativo sancito dalle circolari ministeriali, da una legge dello Stato non maturata dal basso, in presenza di una società civile che per troppo tempo ha ignorato l’esistenza del problema.
Il primo a farne le spese è stato lo stesso Levi. Quante volte abbiamo ripetuto non la poesia sulla bambina di Pompei o il testo scritto per il Memoriale italiano di Auschwitz, ma frasi avulse dal contesto per il quale erano state scritte? Scagli la prima pietra chi non si è sentito offeso vedendo scolpite nel marmo parole come queste che assomigliano a slogan prima che a pensieri pensati: «Se comprendere è impossibile conoscere è necessario»; «Io so che cosa vuol dire non tornare»; «Proviamo a fare in modo che non accada mai più». Perduta la speranza, ci siamo lasciati aggredire di nuovo dalla paura, consentendo alla memoria di tramutarsi in una cerimonia soddisfatta di sé.
A rendere più annacquato il discorso sul Male, a far perdere di vista la questione del divenire del tempo, un ruolo non trascurabile lo ha avuto l’uso pubblico della Storia e i condizionamenti della politica, che hanno assorbito ogni nostra discussione sul recente passato della storia d’Italia. Se non vi fosse stata l’ascesa al potere di Berlusconi, lo sdoganamento dei neofascisti, non credo che l’interesse spasmodico degli storici per le leggi razziali avrebbe conosciuto così vaste dimensioni. Oggi la paura tiene in vita lo stesso agitarsi, con gli effetti desolanti che conosciamo. Non ci sfiora il dubbio di aver commesso un errore, di aver coltivato una memoria sbagliata? Una memoria critica non dovrebbe curarsi delle lotte politiche contingenti, anzi dovrebbe rafforzarsi in contrasto con il conformismo, un po’ come fanno i poeti. Volendo preservarsi nel tempo, oltre lo spazio di un mattino, la memoria, invece che diventare strumento di lotta politica, non farebbe meglio a imitare la poesia, che aspira all’eternità?
Di qui la nostra prima modesta proposta, che si fonda sui libri. Alla memoria rituale, sottomessa agli ondeggiamenti della lotta politica, proponiamo di sostituire la «memoria obliqua» di alcuni autori che riteniamo indispensabili.
L’espressione (la mémoire et l’oblique) è stata coniata da un grande studioso francese, Philippe Lejeune, che l’ha adoperata affrontando l’opera di colui che noi, Giardinieri (o Bibliotecari) della Memoria, reputiamo il Sommo Padre: Georges Perec.
Obliqua è la memoria che evita la frontalità del ricordo imposto dall’alto, che si prende gioco delle regole della retorica classica, che viene coltivata in solitudine o in piccoli gruppi e non in celebrazioni di massa, dentro un’aula magna di un istituto scolastico, in un teatro o un palazzetto dello sport. La memoria va coltivata nell’intimità, deve essere il prodotto di una voluta deviazione, se vogliamo di un itinerario della mente nell’oscurità; la memoria che gli antichi nel Medioevo chiamavano il ductus obliquus, tipico di chi, per pudore, ma anche per volontà consapevole della grandezza delle cose che ha da trasmettere, sa che i ricordi gravosi non vanno mai presi di punta, non li si impone per legge, non li si urla ad alta voce, ma vanno cercati nel cuore di una narrazione diagonale.
Sempre messa ai margini, la memoria obliqua continua a essere una risorsa non inquinante, poiché non ama il palcoscenico, il do di petto, il monologo, il divismo. L’astuzia del testimone (e del narratore) obliquo consiste in un meccanismo di autodifesa, nella necessità di difendersi dalla perfidia della ripetizione e dall’eccesso di autobiografismo.
La memoria obliqua non è una prerogativa del solo Perec. I libri “obliqui” aiutano a guardare il paesaggio con occhi diversi. Prima che sopraggiungessero Art Spiegelman con Maus e la tecnica del graphic novel, la memoria obliqua aveva già lasciato qualche traccia. Quando venne liberato, nell’aprile 1945, non sapendo che dei suoi genitori solo il padre era sopravvissuto, con poche matite colorate, il tredicenne Thomas Geve decide di raccontare il Male servendosi del retro dei moduli e dei formulari delle SS. La profondità della ferita viene resa mediante l’alterazione delle misure, in Geve l’enormità dello sterminio è miniaturizzata. Piccolo e grande spesso si toccano, insegna Giobbe (3, 19). Per capire si deve rimpicciolire, non ingrandire. L’urlo non è parte di questa forma di testimonianza.
Geve affida la sua memoria a una settantina di scene simboliche, spinto da una forza interiore simile a quella che spingeva testimoni-superstiti più anziani di lui a tenere un diario o a scrivere una memoria disomogenea, oscura, non rubricabile. In primo luogo è circoscritto il “dove”: la dislocazione degli spazi e la posizione delle figure umane nel termitaio-Auschwitz. L’attenzione si concentra su alcuni ambiti tematici: il cibo, il dolore, le malattie, il linguaggio dei prigionieri e degli aguzzini, la morte. Nella mappa del campo di Buchenwald, dentro una minuscola torretta indicata con la lettera Τ, il bambino Geve ha disegnato un piccolissimo occhio. Si fatica quasi a vederlo, ma si capisce che non è un mero dettaglio decorativo. È un invito a guardare con occhio diverso la realtà del Male. Attraverso quell’occhio surreale, l’infermeria, lo spiazzo dell’appello, le baracche diventano giganteschi mano a mano che il nostro occhio di osservatori adulti si volge a contemplare l’enormità del torto subito.
La “memoria obliqua” si trova in scrittori che hanno narrato altre forme del Male, non solo l’antisemitismo: obliqua è la memoria di cui si serve Boris Pahor per denunciare la slavofobia dei fascisti italiani; obliqua è la memoria con cui Gustaw Herling in Un mondo a parte e nei suoi racconti onirici denuncia lo stalinismo e le sue aberrazioni.
La memoria obliqua non è nemmeno una scoperta del XX secolo: discende della letteratura essoterica, che nascondeva sotto una superficie edificante e trasparente una seconda lettura più segreta, allegorica, celata fra le righe. La memoria obliqua, secondo Perec, nasce dall’incrocio di percorsi multipli: la sua bellezza, per essere riportata alla luce, richiede un lavoro di scavo, uno sforzo da parte del lettore. I discorsi che scaturiscono dalla memoria obliqua non hanno mai un bell’aspetto, ma nascondono al loro interno il senso dell’autenticità. Un’intera rete, un labirinto di fantasie, ricordi d’infanzia, inventari quotidiani, descrizioni di luoghi, esplorazioni della memoria collettiva. Soprattutto, la memoria obliqua si fonda su un principio che di solito gli scrittori-testimoni accettano malvolentieri: il principio dell’autolimitazione, quella che Perec chiamava la scrittura à contrainte. Testimoniare si deve, ma per evitare i mali dei personalismi, per frenare la retorica del Mai più, bisogna fissare in anticipo limiti rigorosi al proprio dire, autoimporsi dei vincoli.
Il romanzo La scomparsa fu portato a termine senza fare uso della vocale “e”, la più ricorrente nella lingua francese. Di fronte al vuoto causato dalla perdita dei genitori deportati, Perec amputa l’alfabeto. Se la scrittura non può esprimere il vuoto, può almeno identificarlo, segnarlo. Diventa impossibile dire io (je) e loro (eux, i genitori), la contrainte provoca l’annientamento e l’esclusione del nome di chi parla, abolisce il segno del femminile, rimandando il lettore, in modo obliquo, alla perdita della madre, al silenzio sulla sua storia personale.
Riflettendo come stiamo facendo noi sul paesaggio, in particolare su quello agrario della Bassa Padana, su come sia stato torturato durante il secondo conflitto mondiale, dovremmo procedere allo stesso modo, esplorare una via mediana che non si soffermi solo sulla bellezza esteriore, ma nemmeno esorti a spargere lacrime. Dovremmo scavare a mani nude nella terra cretacea di Fossoli come archeologi della memoria: assolveremmo al primo dovere dell’educatore, che consiste nel rendere consapevole chi ci accompagna che il faticoso lavoro, se compiuto con rigore, potrà donarci la quiete dell’animo.

Soli loci

Formulata così, la definizione di “memoria obliqua” rischia forse di apparire generica. Conviene fare qualche esempio e richiamare in maniera diretta alcuni testi dello scrittore francese.
In una famosa lettera a Maurice Nadeau del 7 luglio del 1969, Perec mette in pratica la sua teoria, esponendo il progetto di un vasto insieme autobiografico articolato in quattro libri. Di quell’ambizioso programma soltanto W o il ricordo d’infanzia vedrà la luce: uno dei tre progetti non realizzati attira la nostra attenzione. Esso prevedeva tempi di attesa lunghissimi, un libro da concludersi nell’arco di dodici anni, un’idea «piuttosto mostruosa, ma anche esaltante», un gioco sull’invecchiamento dei luoghi, l’invecchiamento della scrittura, l’invecchiamento dei ricordi. Esattamente la spiaggia su cui si è arenata la nostra riflessione sui luoghi di memoria.
Vale la pena riassumere le tappe del progetto incompiuto. A conferma della complessità di questo viaggio si noterà che non è la prima volta che ci troviamo davanti a opere o quadri incompiuti. Non è detto che la perfezione di un’opera pienamente realizzata sia raccomandabile. Perec aveva scelto dodici luoghi – anonime vie, piazze di Parigi – legati a ricordi e avvenimenti importanti della sua vita. Ogni mese si proponeva di recarsi in due di questi luoghi e descriverli in momenti successivi: una prima volta sul posto (in un caffè o per strada), una descrizione neutra, dove si enumerano i negozi, qualche particolare architettonico, qualche microavvenimento (il camion dei pompieri che passa, un trasloco, i manifesti); la seconda descrizione viene messa su carta più tardi, in un posto qualsiasi, e il luogo sarà descritto a memoria, rievocando i ricordi legati a quel luogo particolare, la gente conosciuta, i microavvenimenti. Questi testi, qualche riga o più pagine, una volta terminati, dovevano essere chiusi in una busta sigillata con ceralacca.
In un anno ognuno di quei dodici luoghi veniva descritto due volte, tutto questo per dodici anni permutando le coppie di luoghi secondo una tabella (bi-quadrato ortogonale di ordine 12) fornita da un matematico indù che lavorava negli Stati Uniti. Iniziando nel gennaio 1969, nelle intenzioni dell’autore il lavoro sarebbe dovuto finire nel dicembre 1980, con l’apertura delle 288 buste sigillate: rileggere i testi e ricopiarli facendo gli indici necessari era il successivo passaggio. Il progetto non fu portato a termine, ci rimane solo questa traccia e il titolo che era stato scelto: Loci soli (o Soli loci), un gioco di parole con “soliloquio”, una strizzatina d’occhio a un libro di Raymond Roussel, Locus solus.
Ricordo di aver letto questa lettera-piano di lavoro una decina di anni dopo la data che Perec aveva fissato per aprire le sue buste, nel 1992. In Italia le politiche della memoria erano a una svolta o meglio sarebbe dire alla vigilia di un’ennesima, stupefacente capriola. Dopo anni di cupo silenzio si era nel pieno di una fase di transizione che va dal crollo del muro di Berlino all’ascesa del primo governo Berlusconi. La cultura del nostro Paese si accorgeva improvvisamente, si potrebbe dire dalla sera alla mattina, dei campi di internamento italiani, dell’esistenza del campo di Fossoli e della Risiera di San Sabba, di Formiggini e del suo clamoroso gesto di protesta, dei ragazzi salvati a Villa Emma. Si acquisiva dimestichezza con una parola ebraica sconosciuta ai più: Shoah. Il punto apicale di quella fase sarà l’uscita in sala del film di Roberto Benigni La vita è bella (1997).
Davanti a un simile, repentino voltafaccia mi rammaricai di non aver applicato a luoghi per me familiari, rimasti soli per decenni, lo schema delle buste sigillate. L’idea piuttosto mostruosa ma anche esaltante si adattava alla perfezione a Fossoli, a Modena, a Nonantola, luoghi abbandonati per decenni. Loci soli, appunto. Avrei potuto – sarebbe stato utile innanzitutto per me – sigillare in busta chiusa i miei passaggi inconsapevoli sopra il Binario 21 a Milano, oppure, in disordinato ordine, avrei fatto bene a mettere su carta i miei doppi ricordi, visivi e memoriali, dei campi di internamento italiani (non solo Fossoli, ma anche Ferramonti, Borgo San Dalmazzo, Bolzano Gries, la Risiera a Trieste). Gli ex campi erano luoghi abbandonati, dove nella peggiore delle ipotesi (Bolzano) trovavi in piedi solo qualche brandello di muro, nella migliore delle ipotesi (Borgo San Dalmazzo) incontravi una parete di un edificio destinato a diventare sede della locale ASL colorata dai ragazzi di una classe guidata da un coraggioso professore di educazione artistica delle scuole medie.
Luoghi soli erano le stazioni ferroviarie che, per la storia e la memoria della deportazione, sono luoghi altrettanto importanti da salvaguardare. Sopra il Binario 21 a Milano sarò passato decine e decine di volte negli anni in cui Perec sigillava con la ceralacca le sue buste. Non era stato ancora avviato quel restauro esemplare che oggi si può visitare scendendo sotto la Stazione Centrale. Anche per questa vicenda, per questo luogo, viene ut...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Introduzione
  5. I. LUOGHI CON LIBRI
  6. II. LIBRI CON LUOGHI
  7. III. SOGNI DI LUOGHI E DI LIBRI
  8. Note bibliografiche
  9. Ringraziamenti