Anni luce
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Anni luce

  1. 160 pagine
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Anni luce

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Informazioni sul libro

Anni luce è un romanzo di formazione, e i Pearl Jam sono la colonna sonora di uno spazio di luce e di ombre che ha affascinato una generazione.«Ten, il primo disco dei Pearl Jam, uscito nel 1991 fu un treno che travolse la mia giovinezza. Venticinque anni dopo, decisi di scriverci un pezzo, la ricorrenza lo meritava. Il treno passò di nuovo sopra le mie rovine trascinandosi dietro tutto ciò che si metteva in moto quando dalle casse dello stereo fluiva una loro canzone, il vortice di angosce, divertimenti, memorie, furori, gioie, inquietudini che si incanalava attraverso la loro musica. Anni luce riguarda, certo, i Pearl Jam. Ma non solo. È la storia di un'amicizia, di chi mi fece conoscere i Pearl Jam: il compagno di sbronze, l'amico, il viaggiatore, il chitarrista geniale, il folle, il saggio, l'esagerato, l'imprevedibile, il lunatico Q.»Andrea Pomella racconta di una passione e di un'età incerta e la sua voce conserva in sé le tracce di un'altra voce, quella di Eddie Vedder, il cantante dei Pearl Jam. Questa è la storia di un viaggio al crepuscolo del secolo, una spedizione da vagabondi sulle strade d'Europa per esorcizzare la paura della vita adulta che bussa alle porte.«C'era una volta il mondo. Nel mondo, c'era una città in cui pioveva trecento giorni l'anno. La città si chiamava Seattle, estremo occidente degli Stati Uniti d'America. In questa città arrivò un surfista che veniva da San Diego, un fan scatenato degli Who e dei Ramones. In questo surfista, c'era un'anima. In quest'anima, c'era lo spirito di un'epoca… Se fosse una favola inizierebbe così.»

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788867831937

1 | C’era una volta il mondo

È un assolato pomeriggio di giugno. Guardo una foto di Herb Greene che ritrae i Led Zeppelin. Nella foto si vede Jimmy Page che indossa un cappotto magnifico. Un cappotto del tipo che vorrei possedere per il prossimo inverno e per gli inverni a venire. C’è Robert Plant, con i capelli ancora un po’ corti, che guarda giù dalla finestra con aria preoccupata. Anche John Bonham sembra preoccupato, però lui se ne sta con le mani ficcate in fondo alle tasche, come un detective che studia un cadavere fresco di giornata. E infine c’è John Paul Jones, che qui assomiglia vagamente a Mick Jagger, forse perché ha lo stesso taglio di capelli. Tutti e quattro fissano il vuoto oltre la finestra, mentre un raggio di sole radente incide il parquet di questa stanza desolata. La questione è: cosa guardano i Led Zeppelin da quella finestra? Forse la scena di un incidente stradale, o una rissa tra fan, o stanno semplicemente in posa perché gliel’ha chiesto Herb Greene: “Ragazzi, fatemi il santo piacere di guardare giù in strada come se aveste appena visto la madonna che vende i giornali al semaforo”. La foto risale al 1969.
Quando avevo vent’anni, ossia nel 1993, guardare una foto del genere avrebbe significato per me fare un salto nella preistoria. Da rockettaro qual ero, ascoltavo ossessivamente i Led Zeppelin. In un paio d’anni avevo consumato Remasters, il famoso greatest hits con il crop circle in copertina uscito nell’ottobre del 1990. I Led Zeppelin si erano sciolti appena tredici anni prima. Ma tredici anni erano allora un tempo per me insostenibile. La mia memoria non era ancora in grado di elaborare questo dato. I Led Zeppelin appartenevano a un’era sconosciuta, una sorta d’âge d’or della musica, giorni e mondi soffusi di una luce flebile e lontana. Nella mia vita non c’era nulla che fosse in contatto con quell’epoca, a parte i racconti che mi faceva mia madre quando rievocava gli anni Sessanta vissuti dalla sua prospettiva di ragazza di provincia.
Poi c’è stato un giorno, più o meno nella primavera dello scorso anno, in cui mi sono ricordato di un anniversario: il 2016 sarebbe stato il venticinquennale della pubblicazione del primo disco dei Pearl Jam. Ten. Il treno che travolse la mia giovinezza. Decisi perciò di scriverci un pezzo, la ricorrenza lo meritava. E bastò quello perché il treno passasse di nuovo sopra le mie rovine di ultraquarantenne, stavolta trascinandosi dietro un oceano di ricordi.
Al principio non fu tanto un fatto di nostalgia. Piuttosto una questione puramente aritmetica. Il pensiero era questo. Venticinque anni erano passati, grosso modo lo stesso tempo che separava il me ventenne dalla foto di Herb Greene. Eoni di spazio-tempo. Unità geocronologiche inconcepibili per la mia piccola mente umana. Eppure Ten, a differenza dell’intera discografia dei Led Zeppelin, è ancora così presente in me, così vivo.
Quand’ero un giovane grunge, John “Bonzo” Bonham, il mitico batterista dei Led Zeppelin morto nel 1980, era per me reale come il Cristo dei rotoli del Mar Morto. Un essere umano la cui esistenza era documentata, ma solo attraverso notizie agiografiche di decima mano. Mentre Kurt Cobain, morto suicida nel 1994, mi sembra ancora di vederlo suonare in sottana e aggirarsi strafatto tra le rovine del Colosseo intento a rubare un marmo imperiale per la sua amata Courtney.
Il fatto è che ho vissuto in pieno l’epoca grunge. E, com’è naturale, tutta la prospettiva cronologica che ho della seconda metà del Novecento è viziata da questa mia appartenenza anagrafica. Eppure, mentre scrivevo il pezzo su Ten, e mentre ripercorrevo un aneddoto importante della mia gioventù legato a una canzone di quell’album, ho riflettuto sul fatto che un ventenne di oggi pensa a Ten come io, nel 1993, pensavo a Electric Ladyland di Jimy Hendrix, o al White Album dei Beatles, o – per capirci meglio – ad Azzurro di Adriano Celentano. Qualcosa di incommensurabilmente lontano.
Ecco, con buona approssimazione ho allora compreso cos’è il tiro completo della vita, l’accumulo, il grano messo via nel corso delle stagioni. “Venticinque anni e sembra ieri”, come dicono i malati di nostalgia, e come ovviamente non dirò io.
C’era una volta il mondo. Nel mondo, c’era una città in cui pioveva trecento giorni l’anno. La città si chiamava Seattle, estremo occidente degli Stati Uniti d’America. In questa città arrivò un surfista che veniva da San Diego, un fan scatenato degli Who e dei Ramones. In questo surfista, c’era un’anima. In quest’anima, c’era lo spirito di un’epoca…
Se fosse una favola inizierebbe così. Ma la storia che voglio raccontare non è una favola. Eddie Vedder (il surfista) non è Hänsel chiuso in gabbia e messo all’ingrasso dalla strega. La storia che voglio raccontare non rientra neppure nel genere “memorie di un fan”, non essendo io mai stato fan di niente e di nessuno.
È la storia di un’amicizia, e riguarda, certo, anche i Pearl Jam. Ma non solo i Pearl Jam. Riguarda tutto ciò che si metteva in moto quando dalle casse dello stereo usciva una loro canzone, il vortice di angosce, divertimenti, memorie, furori, gioie, inquietudini che si incanalava attraverso la loro musica. Non solo i Pearl Jam, perché non si possono raccontare i Pearl Jam senza accennare a cos’è stato il grunge, e quindi senza allargare il cerchio a quelle band di Seattle che, tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, sconvolsero il mondo della musica scatenando l’ultima, grande fluttuazione della storia del rock, prima dell’attuale glaciazione. Quello che voglio raccontare riguarda la storia di un viaggio al crepuscolo del secolo, una spedizione da vagabondi sulle strade d’Europa cui partecipai per esorcizzare la paura della vita adulta che bussava alle porte. E riguarda colui che mi fece conoscere i Pearl Jam. Ossia il compagno di sbronze, l’amico, il viaggiatore, il chitarrista geniale, il folle, il saggio, l’esagerato, l’imprevedibile, il lunatico Q.
«Ciao, è un sollievo dopo tanto tempo. Magari alla soglia dei cinquanta ci incontriamo. Ti seguo, scrivi di più, sono un tuo lettore. A presto.»
Lui si è rifatto vivo solo di recente, dopo un silenzio durato oltre vent’anni, per dirmi questo.
Allora ti prendo in parola, amico mio. E scrivo.

2 | Dalla parte di Q

Erano le otto di sera, settembre, gli ultimi scampoli dell’estate, quando per la prima volta lo incontrai.
Il sole tramontava ancora tardi, la città aveva da poco ripreso ad animarsi dopo le ferie d’agosto. La luce macchiava i palazzi-alveare di piazza della Radio, nel quartiere Marconi, una delle zone più cupe e trafficate di Roma. Il Timba si trovava in via del Fornetto, una stradina alle spalle della stazione Trastevere. C’era da attraversare uno stretto arco che si incuneava sotto la ferrovia, salire per pochi metri, camminando rasenti al muro, per non rischiare di essere travolti dalle macchine che giungevano a tutta velocità. L’ingresso della sala prove era sulla sinistra, una piccola rampa di scale immetteva in un giardinetto dissestato – erba vetriola cresciuta sui muri, radici scoperte attorcigliate come serpenti – dove spesso i musicisti in attesa improvvisavano furiose session di djembè.
Il Timba era una scuola di percussioni. Prendeva il nome da un particolare ritmo caraibico. Con gli altri della band ci eravamo dati appuntamento per la prima prova dopo l’estate, ma in quel lasso di tempo in cui eravamo stati separati, qualcosa era cambiato. Il vecchio chitarrista aveva cominciato un viaggio in India della durata di sei mesi, e il batterista si era quindi messo alla ricerca di un sostituto. Aveva scovato un tizio che suonava la chitarra da dio. Così eravamo molto curiosi, perché tra noi non c’era mai stato qualcuno che suonasse il proprio strumento in un modo che potesse definirsi “da dio”. Quella sera, quando imboccai via del Fornetto, Q era di spalle, fumava una sigaretta chiacchierando tranquillo con il resto della band.
Sulle prime lo scambiai per una ragazza, per via dei lunghi capelli ricci legati in un modo così folle e fastoso da ricordare un’acconciatura nuziale. Aveva occhi enormi, scuri e vigili, truccati con il mascara, dentro ai quali lasciava affiorare i pensieri, per poi annegarli rapidamente sobillato dal terrore. Aveva le orecchie invase dai piercing, anelli alle dita e bracciali rigidi ai polsi. Indossava una giacca di pelle dal taglio anni Settanta, jeans strappati a zampa d’elefante e anfibi. La sua estetica rock mi piacque subito, ma mentre tentavo di spiegargli quale fosse il nostro genere musicale, lui dava l’impressione di non ascoltarmi, era come se passeggiasse sui campi di una genialità scontrosa e solitaria, nella vastità di una sua personale chimera.
Fu una lunga serata, così calma, così bella. Suonammo per due ore. E quando uscimmo, le cicale frinivano in giardino e la luna brillava sul vecchio frontone della ferrovia. Q non si rivelò un virtuoso dello strumento, non era un discepolo della religione degli iper-tecnici emersa nella seconda metà degli anni Ottanta, gente come Allan Holdsworth, Greg Howe, Tony MacAlpine, e prima ancora Eddie Van Halen, velocisti senz’anima. Ma aveva un gran gusto, un tocco personale, ruvido e dolce al tempo stesso. Era un figlio del grunge: pochi effetti, suoni distorti, assoli rabbiosi costruiti su poche note lancinanti. Possedeva un’imitazione della Gibson Flying V, la chitarra “a coda di rondine”, un must dei chitarristi metal. Io, oltre a essere la voce del gruppo, suonavo una Fender Stratocaster 2 tone sunburst, lo stesso modello usato da uno dei miei miti chitarristici: Stevie Ray Vaughan. Allora scrivevo canzoni piene della più ansiosa tristezza in cui ricorrevano scenari tenebrosi, regine della notte, strade invase da fuochi intorno ai quali si consumavano quelle che Benedetto Croce avrebbe chiamato “benefiche malinconie giovanili dello scetticismo e del pessimismo”. Lo stile di Q si sposava alla perfezione con quel genere di cose. Mi sembrò subito chiaro che fosse il chitarrista che faceva al caso nostro.
Poche settimane dopo lasciammo il Timba per trasferirci in una sala prove a Pietralata. Il proprietario era un tipo di poche parole, capelli unti legati in un codino, un’aria da irredimibile sconfitta, indossava sempre lo stesso maglione peruviano impregnato dell’odore di hashish. Ci aiutò a registrare un demo con cinque pezzi e con questi iniziammo a proporci ai locali e ai club di Roma. Decidemmo che la nuova formazione si sarebbe chiamata Sinki’s Sauna, dal titolo di un racconto di William Burroughs.
Il resto dei Sinki’s Sauna era formato dalla classica sezione ritmica: basso e batteria. Il bassista viveva in un appartamento in via Gregorio VII con vista sulla cupola di San Pietro. Il batterista studiava allo Chateaubriand – il liceo francese frequentato dai figli dei diplomatici e dai rampolli dell’alta borghesia romana – ed era fidanzato con la discendente di una famiglia aristocratica proprietaria di un intero palazzo in via del Babuino. Q invece era cresciuto nel quartiere proletario di Casal Bertone e lavorava come benzinaio. Sebbene le differenti condizioni sociali non influissero nelle dinamiche che animavano la vita del gruppo, a me che venivo dall’ultraperiferia venne naturale scegliere di stare dalla parte di Q.
Ma stare dalla parte di Q significava rinunciare a guardare le cose con acume, raziocinio, sentimento di giustizia e rettitudine. Perché Q non era coinvolto nelle dispute cruciali del mondo, non aveva sentimenti politici, non si affannava a stabilire cos’è giusto e cos’è sbagliato. Viveva in un campo mentale di completa anarchia. Non c’era nulla che lo interessasse; non il cinema, non la letteratura, né la televisione. Se ne infischiava delle questioni sociali, lo annoiavano i discorsi sul futuro. Semplicemente non si sentiva parte di nulla e per questo era l’essere umano più libero che avessi mai conosciuto.
Lavorava in un distributore sulla via Olimpica con vista sui campi sportivi dell’Acqua Acetosa, dove passava le giornate a infilare la pompa nei serbatoi delle macchine dirette al Foro Italico. Canticchiava spesso una canzone di Vasco Rossi: «Corri e fottitene dell’orgoglio, ne ha rovinati più lui che il petrolio». Il petrolio, per mestiere, lui lo iniettava nel culo del mondo. Nelle automobili, negli scooter, nei furgoni. A vent’anni si trovava esattamente nel cuore del problema del capitalismo contemporaneo. E quando veniva sera, saltava sul motorino e se la squagliava lungo la Tangenziale est, percorrendo la sopraelevata che trasvolava sullo scalo merci di San Lorenzo, accelerando a un metro dalle finestre dei palazzi umbertini del Prenestino anneriti dallo smog. Da lassù scrutava il tramonto su una Roma da archeologia industriale. E forse dentro di sé pregustava il culmine imminente della giornata, il momento in cui si sarebbe tappato in casa, avrebbe infilato il jack della chitarra nell’amplificatore, e avrebbe attaccato il riff di Smells Like Teen Spirit – il primo estratto da Nevermind, probabilmente il singolo più famoso dei Nirvana – così forte da incrinare i muri.
Tenemmo i nostri primi concerti nei locali alle pendici del Monte dei Cocci di Testaccio, in quella che all’inizio degli anni Novanta stava diventando una delle zone più frequentate della Roma notturna. Eravamo quasi sempre ubriachi, e non ce ne importava nulla della qualità dello spettacolo, della precisione dei pezzi e della pulizia del suono. Una sera Q si presentò sul palco dopo aver tracannato uno dopo l’altro otto Negroni. Al termine della prima canzone cadde svenuto, come un tronco all’ultimo colpo di scure, trascinando dietro di sé la chitarra e l’amplificatore. Passai il resto del concerto a suonare le mie parti e le sue, cercando in ogni modo di sorreggerlo, con il risultato di sembrare un ridicolo ventriloquo che si affannava ad animare un pupazzo senza vita.
Dovette però passare del tempo prima che tra noi fiorisse un vero sentimento di amicizia. Ci studiammo a lungo, consapevoli che quando imbracciavamo le chitarre quella sintonia aveva la vita di una scintilla che non fa in tempo a mostrarsi ed è già svanita. Da parte mia mi sentivo attratto e al tempo stesso respinto dalla sua schizofrenia, dai suoi fulminei attacchi d’ira, dal cinismo, dal distacco pazzo e totale che manteneva nei confronti della gente, dal riso di scherno ottuso e continuo di cui si serviva per marcare la distanza. A quel tempo uscivo poco di casa. I poeti della beat generation accompagnavano i pomeriggi dei miei vent’anni, quando a primavera, seduto in giardino, sottovento il profumo delle prime rose di maggio, mi lasciavo scorrere dentro agli occhi la vita degli hipster, di quegli innocenti dal cuore aperto che correvano da un bar all’altro, da una città all’altra, da una donna all’altra, alla ricerca della beatitudine. E con loro accadeva qualcosa che non ho mai più provato con altri narratori o poeti, con loro si annullava la distanza tra me e le pagine che leggevo. Era come se Kerouac mi invitasse al bancone del bar, e con la scusa di bere mi raccontasse di sé, di sua moglie, del fratellino Gerard morto all’età di quattro anni, dei campi e delle banchine sui fiumi solenni d’America. Ed è per questo che trovavo così assurdo che arrivasse quell’ora della sera, quando il sole si inabissava al tramonto e l’arrivo delle zanzare mi persuadeva a deporre nella libreria l’atlante su cui scribacchiavo le rotte descritte in On the Road, così come mi sembrava assurdo che Dean Moriarty non fosse lì ad aspettarmi, oltre la ringhiera del mio giardino, con una valigia logora e una croce al collo, pronto a partire per chissà dove.
Q intersecò la mia vita come fece Dean Moriarty con quella di Sal Paradise. E gran parte della solida, sbilenca, acida amicizia che stringemmo ebbe origine da un gesto che lui compì una sera di primavera, la prima di centinaia di sere tutte uguali che avremmo trascorso sotto i piloni della Tangenziale est, dove eravamo soliti rintanarci per qualche ora a sorbire scotch e merendine, ascoltando in macchina i dischi dell’ondata grunge, e aspettando che il sole al tramonto si ritraesse dietro le cime dolenti dei palazzi di Roma. Quella sera Q disse: «Devi sentire questa», estraendo dal vano del cruscotto una cassetta dalla copertina rosa su cui campeggiavano cinque braccia protese verso l’alto. La infilò nell’autoradio, e poco dopo partì un lento interludio strumentale. L’intro, fluttuante e misteriosa, precedeva una sventagliata di chitarre e batteria da cui prendeva avvio la cupa confessione di un serial killer intonata da una voce roca e febbrile.
Venivano da Seattle, si chiamavano Pearl Jam, e quelle erano le prime parole di Once, l’incipit di Ten, il loro album d’esordio:
«I admit it, what’s to say…».
Seguivo quelli che sarebbero diventati i Pearl Jam già prima di Ten. Nel 1991 andavo a scuola ogni mattina ascoltando nelle cuffie del mio walkman i Temple of the Dog. La scuola si trovava a trenta chilometri dal mio quartiere. Immaginate una mappa di Roma, considerate il cerchio del GRA e fateci sopra un bel taglio che solchi la città per tre quarti, da nord a sud. Ripetevo questa laparotomia verticale due volte al giorno, mattina e sera, prima in un verso poi nell’altro. Passavo le ore con la faccia incollata ai finestrini degli autobus e delle metropolitane, con le diverse forme di paralisi emotiva che ne possono conseguire a quell’età. La mia cura era la musica che scaturiva dalle cuffie di spugna del walkman.
I Temple of the Dog erano un sublime animale mitologico, una chimera formata da Soundgarden e futuri membri dei Pearl Jam. Incisero un solo, incredibile album. Nel singolo Hunger Strike le urla viscerali di Chris Cornell si mischiavano ai bassi vibranti di un altro cantante dalla voce baritonale. Guardavo scorrere le gallerie nere della linea B della metropolitana di Roma con la frase del ritornello che m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. 1. C’era una volta il mondo
  3. 2. Dalla parte di Q
  4. 3. Anni luce
  5. Note al testo
  6. Ringraziamenti