Non ci sono verità apparenti
«Lo sforzo umano non possiede una vera casa
esso ha l’odore del proprio lavoro
ed è intaccato ai polmoni
il suo salario è magro
e così i suoi figli.»
Jacques Prévert, Lo sforzo umano
L’aroma del caffè aveva invaso la piccola stanza. Era il segnale che bisognava alzarsi: erano le sei di mattina e un’altra giornata torrida di lavoro stava per cominciare.
«Il caffè è pronto, Ioan, alzati.»
Se anche Ioan non avesse sentito l’aroma, la voce di Dragos non poteva ignorarla, tanto era profonda.
«Arrivo», aveva risposto, ancora assonnato.
Dragos Vacareanu e Ioan Puscasu erano cognati. Entrambi erano arrivati in Italia dal villaggio di Costești, uno dei tre che compone il comune di Răchiţi, poco meno di 5000 abitanti in tutto, a 440 chilometri a nordest di Bucarest. Zona di emigranti, quella. Muratori, carpentieri, contadini, gli uomini. Badanti in Italia e Svizzera, le donne.
Ioan era abituato a vivere fuori casa. Classe 1968, era il più grande di cinque fratelli. Il padre era morto giovane, per un cancro allo stomaco, quando lui aveva diciotto anni. Lavorava già, perché a studiare ci aveva provato, ma si era arreso senza neppure aver finito il primo anno di liceo. Era andato a lavorare in un allevamento intensivo di galline, poi in un mattatoio.
La madre si arrangiava come poteva, lavorando per una cooperativa, in campagna. Era una specie di collettivo: una parte dello stipendio in lei (la moneta romena), una parte in prodotti della terra. E così, tra quello stipendio e quanto portava a casa Ioan, la famiglia si arrangiava.
Nel 1990 la caduta di Ceaușescu sorprese Ioan quando si trovava sotto le armi, in un paesino ai confini con l’Ungheria. Tornò a casa a fine dicembre e subito dopo decise di partire per la Turchia. All’epoca molti romeni venivano impiegati dai turchi nelle miniere di carbone. Anche perché, per andarci, bastava il passaporto, mentre per gli altri Paesi europei, come l’Italia, serviva il visto. Il periodo immediatamente successivo alla caduta di Ceaușescu fu di grande miseria in Romania. Molti cercavano di espatriare e così fece anche Ioan. Per molto tempo la famiglia non seppe più nulla di lui. Soltanto nell’agosto del 2003, dopo quasi dodici anni, decise di tornare in Romania.
Non era tipo di molte parole, il passato preferiva lasciarselo alle spalle per buttarsi sul futuro. E proprio pensando al futuro aveva iniziato a costruirsi una casa a Costești.
Due stanze al piano terra, cucina e bagno. Ma i soldi guadagnati in Turchia non bastavano. La sorella Micaela era in Italia da qualche anno. Faceva la badante nella zona di Carmagnola, nel torinese. Aveva conosciuto Renato Gambino e Aldo Lazzarino, omoni dai modi spicci, che non andavano troppo per il sottile e badavano a due sole cose: lavorare e guadagnare. Renato aveva preso in affitto una parte dei terreni di Aldo e aveva costruito una serie di serre per la coltivazione di ortaggi. Non pensate alle serre industriali, questi sono cunicoli circolari alti, nel punto massimo, due metri e mezzo e larghi alla base quattro metri e mezzo. Lì sotto si coltivava, tra le altre cose, l’oro rosso e giallo di questo territorio: i peperoni di Carmagnola, pregiatissimi ortaggi che qui sono il prodotto tipico. Aldo invece era il proprietario dei terreni, che coltivava a mais, grano o a erba, senza tralasciare fagiolini, insalata, spinaci, zucchine, carote e bietole. In mezzo a questi campi sterminati, da cui spuntano di tanto in tanto i tralicci degli elettrodotti, Aldo ha una vecchia cascina, che qui chiamano tutti Pret, dal nome della strada di sabbia e ghiaino che si insinua tra i campi. Una corte centrale, attorno alla quale sono cresciuti, in modo irregolare, granai, stalle e magazzini, l’unica traccia di vita su quella tabula rasa di campi.
Dal 2006 Ioan faceva il bracciante agricolo nelle serre di Renato Gambino e con il cognato Dragos viveva al Pret, dove Aldo Lazzarino aveva messo loro a disposizione una stanza con bagno. Ioan ci passava più o meno i mesi da fine febbraio a novembre. Poi tornava a casa, in Romania, fino alla primavera successiva.
In cambio dell’ospitalità Ioan e Dragos dovevano badare agli animali quando Aldo non c’era, specie di domenica, quando lui se ne andava in città a giocare a bocce con gli amici. Ma per Ioan e Dragos era un’incombenza da nulla badare ai vitelli della stalla di Aldo.
Il Pret poi era un mondo e la sera, dopo la giornata di duro lavoro nei campi, era bello sedersi nel cortile tra birre ghiacciate, sigarette e i racconti delle estati a Costești. Insieme a Ioan e Dragos c’erano anche Lucica e Gabriel. Anche loro erano di Costești. Anche loro erano arrivati in Italia a cercare fortuna. Anche loro avevano una casa da finire e avevano bisogno di soldi. Gabriel era in grado di fare di tutto e costava poco, per questo una ditta di autotrasporti lo aveva scelto, preferendolo ad alcuni italiani: lui guidava, caricava e scaricava, sempre senza battere ciglio e lamentarsi.
Lui e Lucica erano arrivati prima in Puglia, a Leverano, ed era stato proprio Ioan a dire loro di raggiungerli a Carmagnola, che di lavoro ce n’era un sacco e si guadagnava pure di più. Per qualche tempo avevano vissuto con Ioan e Dragos in quella stanza al Pret. Potete immaginare in quali condizioni, visto che l’alloggio era già piccolo per due. Ma appena avevano potuto, si erano affittati un piccolo alloggio a Carmagnola.
Al Pret viveva anche Aurelio, un uomo di mezza età, che dopo la separazione dalla moglie si era trasferito lì, prendendo in affitto un appartamento ricavato dalla vecchia stalla.
Lui e Ioan erano diventati amici. Ecco, lì nella campagna del Pret, seduti in cerchio nelle torride sere d’estate, con gli zampironi tutt’attorno a creare una specie di corazza contro le gigantesche zanzare della campagna torinese, ci sono tutti i protagonisti della nostra storia: Ioan e suo cognato Dragos, Lucica e il marito Gabriel e Aurelio, l’amico italiano di Ioan.
Dragos e Ioan. Li avevamo lasciati che erano le sei di mattina di venerdì 17 luglio 2015, quando la moka aveva iniziato a gorgogliare, il caffè era venuto su, l’aroma si era diffuso nella piccola stanza piena di luce.
«Vado io a badare ai vitelli stamattina, tu intanto vai nelle serre, poi ti raggiungo», aveva detto Dragos.
Ioan aveva indossato gli abiti che di solito metteva per lavorare: una maglietta a maniche corte, dei pantaloni e un paio di vecchie scarpe. Faceva già molto caldo: al Pret il sole non lasciava scampo e quella giornata non faceva eccezione. I due cognati avevano iniziato il lavoro nei campi. Si erano riposati a metà giornata, avevano mangiato un boccone e nel pomeriggio erano tornati nelle serre.
Si erano fatte le cinque quando entrarono tutti e due nella serra dei pomodori.
«C’è un sacco di lavoro da fare, guarda quanti germogli da togliere», aveva detto Dragos.
«Non ti preoccupare, in meno di due ore facciamo tutto», aveva risposto il cognato chinandosi sui pomodori per togliere i primi germogli. Si erano messi di buona lena, il lavoro non era facile, specie sotto le serre e con quel caldo.
«È da qualche giorno che ho male ai piedi, quando cammino per un po’ sento molto dolore», gli aveva detto Ioan.
«Vai dal medico la prossima settimana, magari è una cazzata, ma è meglio se ti fai vedere», gli aveva risposto Dragos.
Alle 18:45 tutti i germogli che dovevano essere rimossi nella serra dei pomodori erano stati tolti.
«Io vado nelle serre qui a fianco, se hai bisogno sono lì, dopo vado a casa e tu, Ioan?», gli aveva urlato Dragos dall’estremità opposta della serra.
«Va bene, io mi sposto nella 4, ci sono i fagiolini da sistemare e poi torno anche io.»
I due cognati si allontanarono uno in una direzione, l’altro nell’altra, senza sapere che quella, purtroppo, sarebbe stata l’ultima volta. Perché, finito il suo lavoro, Dragos era entrato in casa, pensando di trovare Ioan già lì o sul punto di raggiungerlo. Invece a raggiungerlo fu il padrone delle serre.
Erano le 20:20 – forse le 20:25 – del 17 luglio.
«Dragos, vieni! Ioan sta male», aveva sentito gridare e aveva riconosciuto la voce di Renato, il proprietario delle serre.
Si era precipitato fuori: «Come sta male? Ma se l’ho lasciato poco fa e stava bene, cosa gli è successo?».
Insieme, Renato e Dragos, andarono alle serre e lì, a terra, c’era il corpo di Ioan, la mano chiusa a pugno nell’atto di stringere l’erba.
Dragos, dopo aver visto che il cognato non rispondeva, corse di nuovo a casa a prendere una brocca d’acqua.
Una corsa abbastanza vana, visto che l’uomo non dava alcun segno di vita. E infatti la manovra per tentare di fare bere l’acqua a Ioan si rivelò inutile. Nel frattempo Renato aveva ricevuto una telefonata da Aldo, il padrone dei campi, che si era preoccupato vedendo Dragos correre tutto trafelato e voleva sapere cosa fosse successo.
Appena seppe che Ioan si era sentito male accanto alle serre, si precipitò in auto per raggiungerlo. C’erano Dragos, Renato e la madre di lui, la signora Vincenzina, che da queste parti chiamano tutti Censina. Ai loro piedi, il corpo di Ioan.
La morte di Ioan Puscasu ha un prima e un dopo. Un prima fatto di menzogne, di mezze verità, quando va bene. Un dopo fatto di paziente ricerca, di ricostruzione meticolosa, di tenace lavoro per disseppellire la verità, appunto, dalle macerie che le erano state fatte cadere addosso.
Entriamo dunque nelle ultime ore di vita di Ioan Puscasu, così come ce le raccontano i verbali resi ai carabinieri, all’ASL e all’autorità giudiziaria dai protagonisti della vicenda.
La prima ambulanza arriva al Pret alle 21:45, ovvero un’ora e venti minuti dopo che Renato aveva avvisato Dragos che Ioan si era sentito male.
Uno dei volontari in servizio sul mezzo racconta cosa ha visto appena arrivato.
«Siamo stati chiamati per un codice verde dalla Centrale 118 verso le 21:30. La persona da soccorrere era al di sotto di una tettoia, sull’ingresso di un locale di sgombero, seduto su una sedia. Dietro di lui c’era una persona che gli poggiava le mani sulle spalle. Alla mia domanda su cosa fosse successo, questa persona, presumibilmente non italiana, mi ha detto di aver trovato Puscasu a terra, vicino alla sedia. Ho subito notato che Puscasu era incosciente e non respirava. L’abbiamo disteso a terra ed era in arresto cardiaco, ed era già freddo, con gli arti piuttosto rigidi. Abbiamo subito avvertito il 118 per un’ambulanza medicalizzata e abbiamo continuato a massaggiare sin quando è arrivato il soccorso avanzato.»
Già in questa prima testimonianza balzano agli occhi alcuni particolari importanti. Per prima cosa potremmo chiederci chi fosse la persona, «presumibilmente non italiana», che poggiava le mani sulle spalle di Ioan. E con ragionevole certezza potremmo dire che quella persona era il cognato Dragos, il quale però, al volontario dell’ambulanza, risponde di aver trovato Ioan a terra, vicino alla sedia.
Perché mai Dragos, il cognato di Ioan, la persona a lui più vicina, mente? Perché non dice che lui e Renato Gambino lo hanno trovato riverso a terra nello spazio che corre tra le due serre, sempre di proprietà di Renato? E ancora: perché chi ha chiamato il 118, di fronte a un uomo privo di coscienza e disteso a terra (a questo punto non è più importante dove, se vicino alle serre o ai piedi di una sedia, sotto il pergolato) ha evidentemente minimizzato la situazione, tanto che l’operatore telefonico decide di assegnare un codice verde?
Al Pret però, quella sera, arriva anche la pattuglia dei carabinieri. Alle 21:15 qualcuno, una donna con accento straniero, aveva chiamato il 112 e in un italiano stentato aveva chiesto che venissero subito nelle campagne di Carmagnola, località Cochi, via Pret. Nel frattempo, alle 22:26, arriva anche la seconda ambulanza, con medico a bordo. Ecco la testimonianza del dottor Claudio R., giunto sul posto.
«Abbiamo trovato un uomo disteso a terra sotto l’ingresso di una rimessa. Era supino e i colleghi dell’ambulanza di base effettuavano la rianimazione cardio-polmonare. Alla prima valutazione mi rendevo conto che il paziente era in rigor mortis, con rigidità della mascella e degli arti superiori. Ho interrotto la rianimazione, constatando il decesso.»
A quel punto, anche per i protocolli medici e della burocrazia, Ioan Puscasu, 47 anni, bracciante agricolo romeno che da quasi nove anni, per nove mesi l’anno, lavorava nelle serre di Renato Gambino poste sui terreni di Aldo Lazzarino, che lo ospitava insieme al cognato Dragos in una stanza con bagno al Pret, era ufficialmente morto.
Il maresciallo dei carabinieri, giunto sul posto, vuole vederci chiaro in quella strana morte. Tocca quindi a Renato Gambino, proprietario delle serre, rispondere alle domande del maresciallo. Ecco la sua prima versione.
«In data odierna alle ore 20:30 circa percorrevo a bordo della mia auto via Pret, procedendo in direzione della cascina Pret. Improvvisamente notavo, disteso a terra su un fianco, il signor Puscasu Ioan, che conoscevo esclusivamente di vista. Soccorrevo lo stesso notando che non rispondeva alle mie richieste, non respirava e non muoveva alcun arto. Pertanto lo stendevo sul sedile posteriore della mia auto e lo portavo nella cascina Pret, adagiandolo al suolo nella posizione in cui l’avete trovato. Dopo circa mezz’ora alcuni presenti chiamavano il 118, chiedendo aiuto.»
Al maresciallo viene spontaneo chiedere a Renato Gambino come mai avesse atteso mezz’ora per chiamare i soccorsi.
«Non ci siamo resi conto della gravità del fatto ed abbiamo chiamato i soccorsi non appena certi delle gravi condizioni dello stesso. Non avevo avuto il sospetto che lo stesso fosse deceduto. Pensavo stesse solo male», risponde Renato.
È impossibile non notare le incongruenze di questa versione.
Come può essere che, di fronte al corpo di un uomo disteso a terra che «non rispondeva alle richieste, non respirava e non muoveva alcun arto», come dichiarato, Renato dica di non aver chiamato subito i soccorsi perché «non ci siamo resi conto della gravità del fatto. Non avevo avuto il sospetto che lo stesso fosse deceduto»?
Di fronte a un uomo che non respira e non si muove il sospetto dovrebbe diventare quasi subito certezza. Motivo che, almeno in condizioni normali, spingerebbe chiunque a chiamare immediatamente i soccorsi. Chiunque ma non, a quanto pare, Renato Ga...