Pensare altrimenti
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Antropologia in 10 parole

  1. 128 pagine
  2. Italian
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Pensare altrimenti

Antropologia in 10 parole

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Un viaggio nel mondo dell'antropologia attraverso dieci parole – essere, convivere, comunicare, dove e quando, crescere, specchiarsi, rappresentarsi, donare, credere, nutrirsi –, per avvicinarsi a una disciplina che può aiutarci a interpretare il rimescolamento sempre più rapido della realtà cui stiamo assistendo e comprendere meglio ciò che accade nelle nostre città, strade e vite. L'antropologia culturale, nata come studio delle culture dei popoli lontani dall'Occidente, oggi ha allargato il suo campo di azione fino a occuparsi del qui e ora: al centro del suo sguardo c'è l'essere umano, al contempo fenomeno biologico, comportamentale, psicologico, sociale ed economico, osservato come individuo nella comunità. Raccontandoci diverse concezioni del mondo Marco Aime, ci mostra che il nostro modo di vivere è uno dei molti possibili, né migliore né peggiore di altri.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788867832972
Categoria
Anthropology

1. Essere (umani)

Dove si cerca di spiegare che cos’è la cultura, perché ci sono così tante differenze al mondo e perché, nonostante questo, la cultura è ciò che accomuna tutti noi umani.
Chi non ricorda la fiaba del brutto anatroccolo, dileggiato da tutti, che alla fine diventa un bellissimo cigno? Bene, cigni (in senso metaforico) noi umani non lo siamo diventati, almeno non tutti.
Non possiamo dire di essere la specie più bella della Terra, ma certo siamo la più invadente, quella che ha preso il sopravvento sul pianeta e che con non poca presunzione si è autodenominata sapiens, anzi, sapiens sapiens. Brutti anatroccoli invece un po’ lo siamo, nel senso che partiamo male, veniamo al mondo incompleti. Unici tra gli animali che, così come nascono, nella versione base senza optional, non funzionano, tanto è vero che mentre un cucciolo di qualunque altra specie in poche settimane impara tutto ciò che gli serve per sopravvivere, noi impieghiamo anni ad apprendere come stare al mondo. Mentre gli uccelli sono dotati di ossa cave, ali con penne e piume per volare, i pesci di pinne, squame e branchie per stare nell’acqua, i carnivori di zanne e artigli, gli erbivori di uno stomaco particolare e di una velocità (non sempre, ma talvolta) sufficiente a sfuggire ai carnivori, noi umani alla nascita non siamo predisposti ad alcuna attività in particolare. Non siamo dotati di pellicce per il freddo, di zanne o di artigli per difenderci, non nuotiamo se non dopo un adeguato corso in piscina, se escludiamo Usain Bolt e pochi altri suoi avversari non siamo particolarmente veloci nella corsa… Insomma, visti così non sembriamo un granché come progetto.
Qui sta il paradosso. Se è vero che una specializzazione favorisce l’esistenza in certe condizioni, è altrettanto vero che la limita a quelle condizioni: per il dromedario sarebbe dura vivere in Groenlandia, ma anche l’orso polare se la passerebbe male a Tamanrasset. Ecco allora che quell’umana incompletezza iniziale si trasforma in risorsa perché, adeguatamente colmata con opzioni diverse, ci consente di essere molto più adattabili, tanto è vero che riusciamo a sopravvivere in Groenlandia, ma anche a Tamanrasset, sugli altipiani andini di oltre 4000 metri e nelle foreste tropicali, al gelo siberiano e al calore equatoriale. Tutto grazie a ciò che chiamiamo cultura, che in fondo è quella parte di natura che spetta a noi realizzare.
Nel vocabolario italiano il termine cultura ha diverse accezioni. È sinonimo di erudizione, una persona “di cultura” è qualcuno che ha appreso un sapere attraverso lo studio, cui ha dedicato la vita. Declinato al plurale, culture, indica le attitudini specifiche di un popolo, di una comunità, di un gruppo, quelli che in passato venivano definiti “usi e costumi”. La terza accezione, infine, indica la particolare capacità che tutti gli esseri umani hanno di elaborare un pensiero grazie al quale possono mettere in atto strategie finalizzate alla sopravvivenza e non solo.
Lo aveva intuito con grande lucidità Sir Edward Tylor, uno dei padri fondatori dell’antropologia culturale, quando nel 1871 scriveva:
«La cultura […] presa nel suo significato etnografico più ampio, è quell’insieme che include conoscenze, credenze, arte, morale, legge, costume e ogni altra capacità e usanza acquisita dall’uomo come appartenente a una società».
Questa frase, la cui disarmante semplicità è solo apparente, ha due passaggi importanti. Dicendo «acquisita dall’uomo», Tylor sottolinea come la cultura sia il prodotto di un’educazione spesso prolungata e di un articolato processo di costruzione, non un dato ascritto, né un’eredità genetica, con buona pace dei sostenitori delle teorie razziali. Il secondo passaggio, quel «come appartenente a una società», mette in luce che la cultura non è l’esclusiva di una persona sola, ma il frutto di relazioni tra individui. È dal dialogo, dallo scambio, dall’incontro che nasce ogni cultura. Non a caso l’antropologia culturale si pone come disciplina di frontiera. Potremmo dire che le culture stanno nelle relazioni, in quello spazio tra le persone che deve essere riempito con forme di comunicazione e di comportamento condivisi. In fondo l’antropologia culturale, nonostante con un po’ di presunzione si definisca «lo studio dell’uomo», in realtà fa parte di un corposo gruppo di discipline che dell’essere umano hanno fatto il loro oggetto di studio (e non solo le discipline cosiddette “umanistiche”, anche la medicina si occupa di noi, per fortuna). Quello che la contraddistingue è l’occuparsi in modo particolare di ciò che sta tra gli individui, di come gli umani costruiscono le relazioni tra loro e con l’ambiente in cui vivono.
Quindi, mentre la prima definizione riguarda una specifica parte dell’umanità – gli eruditi, gli “intellettuali” –, le altre due ci vedono tutti coinvolti, perché non esiste individuo privo di cultura. Da animali sociali quali siamo, per necessità, abbiamo elaborato via via codici verbali (e non solo) comuni, tessuto reti di simboli e di significati condivisi: così la cultura, strumento potenziale che caratterizza ogni essere umano, viene forgiata dalla società in cui vive sulla base di elementi storici, ambientali e a volte casuali e declinata in varie forme (o culture). Trasmessa di generazione in generazione, ciascuna di queste culture, «acquisita dall’uomo come appartenente a una società», diventa un patrimonio collettivo cui attingere, che col tempo finisce per influenzare i propri membri. Un processo sintetizzato in modo esemplare dalle parole di Clifford Geertz, uno dei più importanti antropologi contemporanei, per cui «l’uomo è un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto».
È attraverso questi modelli ordinati di simboli significanti che l’uomo interpreta e dà un senso agli avvenimenti che vive e al mondo che abita. Le culture, infatti, sono strumenti che servono alle società umane per classificare il mondo che le circonda, per ricollocare, secondo i loro parametri, ciò che apparentemente non ha un ordine, o meglio non ha un ordine “umano”.
La differenza culturale è nata grazie allo spostamento, al cammino dei nostri più remoti antenati che, passo dopo passo, incontravano ambienti nuovi, problemi nuovi da risolvere, nuove situazioni da affrontare, ma il processo di costruzione non si è fermato con la colonizzazione del pianeta. Migrazioni, viaggi, commerci, invenzioni, eventi naturali hanno continuamente messo alla prova le diverse società umane, che si sono continuamente arricchite di elementi venuti dall’esterno. Essendo una specie camminante, i nostri piedi prima, il web oggi, hanno sempre permesso a idee, concetti e invenzioni di circolare, alle culture di influenzarsi l’una con l’altra e di contrarre debiti e crediti a vicenda. Le idee circolano e a volte lo fanno con grande velocità, ciascuno prende dagli altri ciò che reputa utile o bello: noi occidentali contiamo con i numeri arabi, beviamo tè asiatico, guardiamo attraverso lenti inventate dai cinesi, le nostre lingue sono piene di termini che arrivano da Paesi stranieri, talvolta preghiamo divinità mediorientali e così via. «Tutte le civiltà sono prodotti misti. Solo la barbarie è semplice, monadica e non mescolata», dice Tagore.
Nessuno è mai rimasto totalmente isolato e possiamo affermare che ogni cultura è di per sé multiculturale, se ne facciano una ragione i fanatici della purezza. Non solo: è anche un sistema in perpetua trasformazione. La ragnatela viene fatta, disfatta e rifatta in un continuo conflitto tra conservazione e innovazione. Non pensiamo quindi alle culture come meccanismi di orologio, precisi e ripetitivi, ma piuttosto come certi vecchi motorini, che spesso funzionano anche con pezzi presi da altre moto. Per dirla con Claude Lévi-Strauss, sono il prodotto di un «bricolage» o ancora, citando Clyde Kluckhohn, «un insieme di pezze, cocci e stracci».
Sul fatto che apparteniamo al regno animale non ci sono dubbi, e certi nostri simili fanno di tutto per ricordarcelo, ma a distinguerci dagli altri animali è appunto la cultura. Senza cultura non saremmo una delle tante specie viventi, neppure scimpanzé (i nostri cugini più prossimi), semplicemente non esisteremmo.
Perché la cultura fa parte della nostra natura, la completa. È la nostra seconda natura, la parte di natura che noi realizziamo, e per questo ha una differenza sostanziale rispetto all’ambito del “naturale”. Se per quanto attiene alla biologia non abbiamo facoltà di scelta, perché non possiamo decidere la nostra altezza, il colore della nostra pelle o dei nostri occhi, quando ci spostiamo sul terreno della cultura possiamo scegliere se essere europei e buddhisti, ascoltare musica africana, vestirci all’orientale, amare la cucina giapponese eccetera.
Apprendiamo modi di vita diversi perché cresciamo in comunità diverse, ma il semplice fatto che possiamo imparare comportamenti diversi, fare nostri quelli di altri, ci dice che esiste una predisposizione comune a tutti noi umani: è questo che chiamiamo cultura.
Tante, troppe volte nella storia si è sviluppata la tendenza a giudicare alcune culture inferiori alle altre. Basti pensare a definizioni come: popoli senza storia, senza Stato, senza scrittura, fondate sempre su quel senza, su una mancanza rispetto a noi, quando anche noi potremmo essere definiti senza qualcosa, visti con occhi altrui. Purtroppo l’etnocentrismo, la tendenza a giudicare il mondo basandosi sul proprio metro, è una “malattia” diffusa in tutto il genere umano e spesso porta una società a pensarsi superiore alle altre.
Una superiorità presunta che talvolta conduce a pensare come inferiori le culture altrui, confondendo i parametri. Nessuno può negare che gli Stati Uniti siano la più grande potenza militare del pianeta, ma questo non significa che la loro cultura sia superiore alle altre. Alcune società orientali hanno sviluppato una conoscenza della mente umana più profonda di quella dell’Occidente e, nella gestione degli individui, molte società tradizionali africane hanno ottenuto risultati eccellenti. Meglio fare nostre le parole di Lévi-Strauss, quando scrive: «Nessuna società è profondamente buona, ma nessuna è assolutamente cattiva; offrono tutte certi vantaggi ai loro membri. Ogni cultura è una delle tante varianti di un progetto umano universale, che di comune ha, in fondo, solo una finalità: sopravvivere».
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Americani al cento per cento

I decenni immediatamente seguenti la Seconda guerra mondiale videro una generazione di giovani che aspirava alla pace e – forse per la prima volta – pensava che i problemi degli altri fossero anche i suoi. La pace raggiunta, la fine del colonialismo, le nuove aspirazioni alimentavano un certo vento di universalismo. Dopo il crollo del Muro di Berlino (1989) quel vento è cambiato e stiamo assistendo a una pericolosa rinascita di confini, di muri e di barriere, fisiche e culturali. Di fronte all’idea che le culture siano unità uniche, separate e incompatibili tra di loro, vale la pena di ricordare la provocazione che l’antropologo americano Ralph Linton (1893-1953) era solito proporre ai suoi studenti nella prima lezione di antropologia culturale.
«La diffusione di idee, di modelli di comportamento o uno scambio di oggetti materiali è sempre un atto a doppio senso tra diverse società. Gli americani spesso pensano che sia un processo a senso unico - altri credono le nostre abitudini e la tecnologia “superiori”, ma non è così. Gli americani hanno ricevuto tanto quanto hanno dato ad altri popoli. La nostra rapida assimilazione di nuovi articoli e il nostro orgoglio per l’autosufficienza potrebbe impedirci di vedere cosa è successo. […] Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell’India; o di lino, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente domesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente. Si infila i mocassini inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est, e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane, entrambe di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egiziani.
Tornato in camera da letto, prende i suoi vestiti da una sedia il cui modello è stato elaborato nell’Europa meridionale e si veste. Indossa indumenti la cui forma derivò in origine dai vestiti di pelle dei nomadi delle steppe dell’Asia, si infila le scarpe fatte di pelle tinta secondo un procedimento inventato nell’antico Egitto, tagliate secondo un modello derivato dalle civiltà classiche del Mediterraneo; si mette intorno al collo una striscia dai colori brillanti che è un vestigio sopravvissuto degli scialli che tenevano sulle spalle i croati del XVII secolo. […]
Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia. Al ristorante viene a contatto con tutta una nuova serie di elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del Sud, la forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’originale romano. Prende il caffè, pianta abissina, con panna e zucchero. Sia l’idea di allevare mucche che quella di mungerle ha avuto origine nel vicino Oriente, mentre lo zucchero fu estratto in India per la prima volta. Dopo la frutta e il caffè, mangerà le cialde, dolci fatti, secondo una tecnica scandinava, con il frumento, originario dell’Asia minore. […]
Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America, consumando la pianta addomesticata in Brasile o fumando la pipa, derivata dagli indiani della Virginia o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille, attraverso la Spagna. Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano.»
Testo di riferimento: R. Linton, Lo studio dell’uomo, il Mulino, Bologna 1973.

2. Convivere

Dove si cerca di capire in quanti e quali modi gli umani possano organizzarsi per riuscire a stare insieme pacificamente e anche di come, a volte, alcuni di questi modi diventino insostenibili e debbano essere, giustamente, demoliti.
Libertà, che bella parola! Chi non la desidera? Quante donne e quanti uomini hanno lottato, sofferto e hanno persino dato la vita in suo nome? «La mia libertà finisce dove inizia la vostra», scriveva Voltaire, avvertendoci di quanto questa bella aspirazione potrebbe diventare pericolosa, se non fosse limitata da convenzioni condivise, quelle che in genere chiamiamo “regole”. Per fortuna non siamo “liberi” di eliminare chiunque ci stia antipatico o in qualche modo sia nostro rivale. Ecco perché per convivere (vivere con, insieme agli altri) occorre stabilire dei limiti alle nostre azioni, per tutelare l’esistenza di tutti. Con buona pace di Margaret Thatcher, che affermava: «La società non esiste: esistono individui, uomini, donne e famiglie», in realtà noi umani viviamo di relazioni, più o meno ampie, più o meno complesse, ma comunque indispensabili per poter sopravvivere.
«Non ci sono norme. Tutti gli uomini sono eccezioni a una regola che non esiste» ha scritto Fernando Pessoa, ma lui era un poeta, uno dei più grandi, e l’arte, si sa, spesso è tale perché spezza la consuetudine. Per noi individui “comuni” sono invece proprio le regole a costituire le fondamenta di ogni comunità o società. Regole che non esistono in natura, ma vanno create e possibilmente rispettate.
Il primo passo per edificare questa casa comune sta nel costruire rapporti stabili tra donna e uomo, per tutelare i figli, perché, come abbiamo visto, a differenza di altri animali i cuccioli umani necessitano di un lungo periodo di apprendistato e di educazione. Perciò occorre che la coppia di genitori li accompagni il più a lungo possibile. A questo serve l’istituzione del matrimonio, qualunque forma esso assuma (monogamico, poliginico, poliandrico, endogamico, esogamico…): a determinare socialmente il padre dei figli di una donna e la madre dei figli di un uomo; a regolamentare le prestazioni sessuali dei coniugi; a controllare che le loro capacità lavorative siano finalizzate al bene della famiglia; ad assegnare a ciascuno dei coniugi il controllo sui beni dell’altro e a determinarne lo stanziamento congiunto per i figli e infine a creare un legame socialmente significativo tra i gruppi domestici del marito e della moglie.
Questo ultimo punto è particolarmente significativo. Infatti, grazie all’istituzione del matrimonio, i rapporti tra individui consanguinei si estendono a quelli di un altro gruppo, quello del coniuge. Se la riproduzione è un dato naturale, il legame è un fatto culturale e pertanto specificatamente umano: nessun gatto ha mai avuto un cognato, né un cavallo ha avuto la percezione di essere zio di un puledro. Si può dire che, stabilendo un’alleanza tra due gruppi diversi per discendenza, si coniughino la cultura e la natura: al legame che noi chiamiamo “di sa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. Brevi divagazioni di antropologia
  6. 1. ESSERE (UMANI)
  7. 2. CONVIVERE
  8. 3. COMUNICARE
  9. 4. DOVE E QUANDO?
  10. 5. CRESCERE
  11. 6. SPECCHIARSI
  12. 7. RAPPRESENTARSI
  13. 8. SCAMBIARE, DONARE
  14. 9. CREDERE
  15. 10. NUTRIRSI
  16. Per chi vuole approfondire