A cena con Nerone
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A cena con Nerone

Viaggio nella cucina dell'antica Roma

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A cena con Nerone

Viaggio nella cucina dell'antica Roma

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La televisione e le librerie pullulano di trasmissioni e di volumi di ricette; il lockdown ci ha trasformati tutti in provetti pasticcieri e panificatori. Ma possiamo immaginare una cucina senza cioccolato, senza cacao, senza pomodori né patate? Che cosa mangiavano e come cucinavano duemila anni a i nostri maiores Romani? A cena con Nerone propone un'immersione nella cucina repubblicana e imperiale, sia con una scelta di passi letterari, sia con autentiche ricette ricavate dalle opere di Catone, Columella, e, soprattutto, da Apicio, sotto il cui nome ci è giunto il più famoso corpus gastronomico. Ma la cucina romana non è soltanto cene luculliane alla Trimalchione o alla Nasidieno: scopriremo tante preparazioni meno note, meno indigeste, realizzate con ingredienti meno esotici (niente pavoni o lingue di fenicotteri), e, qualche volta, persino replicabili ancora oggi.

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Informazioni

Editore
Ares
Anno
2021
ISBN
9788892981461

Capitolo 1

Quando si parla di cibo

Dunque, di che cosa si parla quando si parla di cibo, e, nello specifico, di cibo nell’antichità? Trent’anni fa, un fortunato e competente autore di volumi di rigorosa divulgazione, Cesare Marchi, diede alle stampe un divertente e documentato libro, Quando siamo a tavola6, dal sottotitolo eloquente: Viaggio sentimentale con l’acquolina in bocca da Omero al fast-food. Non era ancora giunta l’epoca del trionfo mediatico del cibo e dei cuochi, acclamati come star; il volume era una raccolta di mini-reportage, «dal nostro invitato speciale», alla scoperta di pietanze e bevande celebri (dalla milanese o viennese agli strozzapreti, dal tartufo alla grappa), con una ricostruzione della loro storia, spesso fornita da ristoratori stessi.
L’ormai trito motto di Ludwig Feuerbach, «l’uomo è ciò che mangia», viene spesso citato senza la consapevolezza della concezione filosofica in esso condensata. Tuttavia la centralità del cibo, del mangiare e del bere nelle nostre vite è innegabile: esso è talmente importante che, ricordiamolo, nell’Antico Testamento c’è chi ha rinunciato a enormi privilegi per esso: mi riferisco al celeberrimo episodio della Genesi:
Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra; Esaù arrivò dalla campagna ed era sfinito. Disse a Giacobbe: «Lasciami mangiare un po’ di questa minestra rossa, perché io sono sfinito». Per questo fu chiamato Edom. Giacobbe disse: «Vendimi subito la tua primogenitura». Rispose Esaù: «Ecco, sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?». Giacobbe allora disse: «Giuramelo subito». Quegli lo giurò e vendette la primogenitura a Giacobbe. Giacobbe diede a Esaù il pane e la minestra di lenticchie; questi mangiò e bevve, poi si alzò e se ne andò. A tal punto Esaù aveva disprezzato la primogenitura.
(Gn 25, 29-24)7
Ci verrebbe spontaneo dire: «Caspita! Doveva essere davvero eccezionale quella minestra di lenticchie! Vorrei averne la ricetta». Ma, ovviamente, l’autore biblico non voleva che ci soffermassimo sulla preparazione della pietanza, ma sul significato simbolico, morale e allegorico dell’episodio.
A Roma spesso si parla di cibo con un sottofondo moralistico, per stigmatizzare il lusso, considerato un puro spreco: il catonismo è una tendenza di lungo corso, sempre presente nella mentalità romana. Ancora uno storico tardo come Ammiano Marcellino, vissuto nel IV secolo d.C., nelle Storie afferma lapidario: Magna cura cibi, magna virtutis incuria, ovvero «Dove è grande la cura del cibo, è grande l’incuria della virtù» (16, 5, 2); poco dopo, un padre della Chiesa come Girolamo scriverà: Pinguis venter non gignit sensum tenuem, ovvero «grasso ventre non fa sottile intelletto» (ep. 52, 11). In certi casi, pagani e cristiani la pensavano allo stesso modo!
Il mangiare e il bere sono sempre stati considerati naturali alleati dei piaceri amorosi: dice Terenzio che «senza banchetti e vini l’amore si raffredda» (Eun. 732); e Cicerone, nel Cato maior de senectute, ci ammonisce affermando che «il diletto dei conviti non si deve misurare più dai piaceri del corpo che dall’adunanza degli amici e dai loro discorsi» (13, 45). Ma come non cedere, spesso, alle seduzioni della gola? È certamente il più confessabile dei vizi: in fondo, danneggia solo il goloso, perché i suoi eccessi ricadono solo su chi lo pratica; e in quest’ottica, anche Dante collocò i golosi sulla penultima cornice del Purgatorio (mentre i lussuriosi si trovano nella cornice ancora superiore).
Sicuramente, se dovessimo istituire un confronto fra i Romani e noi, vedremmo che, al di là dei cibi che essi non conoscevano, perché sarebbero giunti in Europa con le grandi scoperte geografiche dell’età moderna o sarebbero stati messi a punto successivamente (per cui, proviamo a immaginare una tavola senza patate, pomodori, caffè, tè, cacao e cioccolato, ananas e gran parte della frutta esotica ormai diventata di normale consumo; senza burro per condire, senza spumante o champagne, solo per citare alcune pietanze sconosciute ai nostri maiores), il cibo in quanto status symbol a Roma non doveva essere soltanto ricercato, raro, costoso, ma doveva essere anche esibito in larghissime quantità. Ciò è quanto di più lontano dalle pretese di molti blasonati chef, che preparano pietanze elaboratissime, ma in dosi risicate. Al contrario, l’aggettivo «trimalcionico», riferito appunto al personaggio petroniano, si applica a cene copiose, con quantità inimmaginabili di cibo da cui grondano condimento e, diremmo oggi, colesterolo a volontà: basti pensare a uno dei piatti fatti servire da Trimalchione, consistente in un maiale servito tutto intero su un gigantesco vassoio, e il cui ventre si rivela pieno di salsicce su cui gli invitati si gettano felici.
I Romani, inoltre, non erano ancora posseduti dall’efficientismo che ha viziato le nostre giornate. Un contemplativo proverbio orientale recita: «Perché stare in piedi quando si può stare seduti? E perché stare seduti quando si può stare sdraiati?». Ora, al di là del fatto che, come tutti sappiamo, i Romani per le loro cene adottavano la posizione semireclina, essi non concepivano queste occasioni come un frettoloso ingoiare qualcosa; se cena doveva essere, doveva anche implicare il giusto tempo per essere consumata.
Se, negli ultimi decenni, sembrava che per l’uomo occidentale il tempo passato a tavola fosse tempo perso, per fortuna ora la tendenza sembra essersi invertita ed è in corso una rivalutazione della lentezza e di tutto ciò che è tradizionale, biologico, non artefatto (a volte, sino a scadere negli eccessi opposti).

La cena è convivio

Date queste premesse, ci possiamo chiedere: quali principi ispiravano i nostri progenitori quando sedevano, o meglio, quando si sdraiavano a tavola? Cominciamo con qualche cenno storico che prende le mosse dallo statuto del banchetto nel mondo greco: nell’Odissea, per esempio, che, di fatto, secondo la definizione di Francesco Citti, è «nel suo complesso un trattato sull’etica del banchetto e dell’ospitalità»8, alla cena smodata e irriguardosa dei Proci si oppone il banchetto dei Feaci alla corte di Alcinoo, presentato come il convivio ideale (Od. 7, 133-185): mentre principi e capi stanno libando, Odisseo si prostra di fronte al re Alcinoo e alla sua consorte Arete, sedendo nella cenere del focolare. Da lì viene fatto alzare, e fatto accomodare su un trono, mentre un’ancella gli porta un bacile d’argento con acqua per lavarsi, e gli mette davanti una mensa pulita, imbandendogliela di molti cibi perché si rifocilli. Quindi, su invito del re, viene mescolato miele al vino nel cratere, e se ne riempiono poi le coppe di tutti gli invitati. Il garbo, la misura, l’attenzione all’ospite, la raffinatezza nell’accoglierlo, sono tutti elementi che rendono ideale questa scena.
Il simposio greco è essenzialmente euphrosyne, provocata dal piacere del canto e di tutto ciò che fa da contorno all’occasione conviviale, più ancora che dal cibo e dal vino. Il banchetto è essenzialmente condivisione, non soltanto dei piatti, ma anche della conversazione, del divertimento, di quella cortesia dalla quale si genera la simpatia. Nel mondo greco «il simposio è innanzitutto un rito, di natura insieme religiosa e sociale, provvisto, come ogni rito che si rispetti, di un preciso codice di comportamento»9: a segnare il suo inizio è una libagione alla divinità, seguita da un brindisi fra i partecipanti, e poi da un sorso di vino puro. Quindi si sceglie per sorteggio il simposiarca, il «capo» del simposio, che ne detta le modalità: la proporzione fra acqua e vino (che si beveva diluito), l’intervallo fra una bevuta e l’altra, la quantità di vino da bere e l’argomento della conversazione che accompagnerà la serata. Nessuno può astenersi, né dal vino né dalla partecipazione alla conversazione, che costituiscono un binomio inscindibile: non si presenzia al simposio da spettatori.
In effetti, come ebbe a scrivere Cicerone, il fine non è la voluptas, ovvero il piacere puro e semplice, ma quella piacevolezza più sottile, la delectatio, che nasce dalla communitas vitae et victus, dalla «comunanza della vita e del cibo», dalla conversazione piacevole e amicale e dalla rilassatezza: Plutarco (50-125 d.C. circa) nelle Questioni conviviali (660b) annoterà che la principale finalità del simposio è il rafforzamento del vincolo di philia, «amicizia», tra i partecipanti; e come i lottatori usano la sabbia per avere migliore presa sul loro avversario, così i partecipanti al simposio devono affidarsi al vino e alle parole per rafforzare la loro presa sugli altri convitati. Chi non lo fa, partecipa al simposio solo per bere, e non per arricchire l’anima.
Se torniamo al mondo latino, il già citato passo del Cato Maior (13, 45) di Cicerone afferma che «il diletto dei conviti non si deve misurare più dai piaceri del corpo che dall’adunanza degli amici e dai loro discorsi», e aggiunge: «Bene i nostri maiores chiamarono il prendere posto a tavola con gli amici “convivio”, perché comporta una condivisione di vita, meglio dei Greci, i quali lo definiscono ora “bere insieme” (compotatio), ora “mangiare insieme” (concenatio), tanto che sembra che essi apprezzino massimamente ciò che in tale genere di incontri è la cosa di minor valore in assoluto». La definizione viene ripresa in età più tarda da Nonio (p. 42,8 - 11 M = 62 L.) e poi da Isidoro di Siviglia (Orig. 20, 1, 3): quest’ultimo precisa che il convivium trae il nome «dalla molteplicità di quanti mangiano insieme» (convivium a multudine convescentium), riconnettendo la parola latina per indicare la cena al greco koinon, «comune», mentre una privata mensa è victus, non un convivium: ovvero, il mangiare insieme ha un aspetto di comunione che è regolato da leggi ben definite, mentre, al contrario, mangiare da soli è una dimostrazione di ferinità, o, quantomeno, di esclusione. I Romani, infatti, sono avidi di inviti e, in generale, di socialità.
Del resto, la parola stessa cena rimanderebbe a una idea di socialità, se guardiamo alla sua etimologia: il latino cēna dovrebbe venire ricondotto, secondo il grammatico Festo, a cesna, che sarebbe la forma più antica della parola. Altre lingue dell’Italia antica ci forniscono forme ancora più arcaiche: per esempio, l’osco (la lingua degli abitanti dell’Italia meridionale) conosceva una forma kernsu.
Il rimando va a una radice indoeuropea che appare nella forma *kert- (o anche *skert- o *ker-) e che contiene l’idea del «tagliare» in tutti i suoi vari aspetti. Da questa base viene una grande quantità di derivazioni: in latino corium, il cuoio; caro, la carne; cortex, la corteccia. In India troviamo il sanscrito carman, «pelle», nel mondo germanico il tedesco scheren, «tagliare», e nel mondo baltico il lituano skirsti, «dividere». Da questa radice vengono poi, in molte lingue, parole che indicano attrezzi vari che servono per tagliare e scorticare, o per tosare, o che indicano l’atto di cogliere, come il latino carpere, «cogliere, strappare», e il greco karpos, «frutto».
L’etimologia ci spiega quindi che in latino la cena è, in origine, il momento in cui si fanno le porzioni e, nello specifico, quello in cui si taglia la carne, che non sempre, notiamo en passant, era presente nel menu degli antichi. Quanto alla collocazione nella giornata, il termine cena designava il pasto principale. Dapprima quello di mezzogiorno, poi, abbastanza presto, quello serale (che precedentemente prendeva il nome di vesperna). A ogni modo, come vedremo, la classica cena romana iniziava verso le ore 15, mentre al pasto di mezzogiorno si dava il nome di di prandium e la colazione mattutina era lo ientaculum10.
Questa l’etimologia corretta. Ma noi sappiamo che gli antichi amavano molto quelle che noi chiamiamo oggi paraetimologie, non scientificamente esatte, ma espressive di contenuti e significati importanti, talora caricate di valenze didattiche o morali. Anche per la parola cena esiste un’etimologia popolare: quando i vecchi dittonghi ae, oe persero la loro pronunzia originaria ae, oe, contraendosi nel suono e e confondendosi quindi con la ē originaria (una confusione già attestata nel latino parlato dal popolo nel I secolo a.C. e poi via via sempre più comune, sino a filtrare anche nella lingua letteraria), si è diffusa, per ipercorrettismo, la grafia coena in luogo di cena. Non è stata la sola parola a subire fenomeni di questo tipo (ricordiamo anche scena/scaena, «scena»; cepa/caepa, «cipolla»), ma l’intento molto probabilmente in tal caso era quello di accostare la parola latina cēna al greco koiné, femminile dell’aggettivo «comune» (come se la coena fosse una koiné trapeza, ovvero una «tavola comune»): la cena, pertanto, è il momento in cui persone che hanno legami di familiarità e di amicizia si ritrovano per condividere un pasto comune attorno a una tavola. Gli antichi avevano ben presente questo collegamento di coena con la parola greca: ancora il già citato Plutarco, sempre nelle Questioni conviviali (8, 6, 5, 726 e), afferma che i Romani «chiamano cena [koiné] il pasto principale per via della comunanza [koinōnia]: infatti i Romani di una volta mangiavano insieme con gli amici». Questo collegamento, su base, abbiamo visto, paraetimologica, si consolida nella cultura cristiana, in cui la cena per eccellenza è quella in cui i fedeli condividono e si nutrono del corpo e del sangue di Cristo: pertanto, la grafia glottologicamente scorretta, ma portatrice di importanti significati, si impone; così, Egidio Forcellini (sacerdote padovano vissuto nel XVIII secolo), autore di quello che è stato per secoli il più completo dizionario di latino, il Lexicon totius Latinitatis, registrava coena e non cena.
Il banchetto, o meglio, il simposio, in Grecia venne presto regolamentato per contenere l’eccesso (la hybris) che poteva verificarsi: così accadde nella Atene di Solone11; e lo stesso accadde a Roma, secondo il solito Plutarco che così dice nella biografia di Catone (Cat. Ma. 16,2). Infatti, a partire dal III secolo, quando Roma, con le grandi conquiste, estese la sua area di influenza al Mediterraneo e intensificò i contatti con la Grecia, si consolidò la richiesta, per l’élite, di beni di lusso, si diffuse il gusto per i cibi e i vini ricercati, si importò il vino greco, in contrapposizione con quello locale, riservato al culto. Anche la consuetudine di banchettare sdraiati, e non più da seduti, che in Grecia era giunta dall’Oriente e che a Roma si diffuse per il tramite degli Etruschi, agì sulla struttura del convito, che diventò molto selettivo socialmente; il banchetto, così concepito, divenne un momento, in Roma, per stringere alleanze politiche, formare e consolidare gruppi clientelari12. Esso viene pertanto regolamentato da una serie di leggi suntuarie13; come vedremo, Cicerone, in una lettera (fam. 7, 26), ricorda di avere partecipato a una ricca cena, che, per aggirare i divieti vigenti, era quasi esclusivamente a base di verdure: il risultato però fu un brutto problema di stomaco. Le leggi suntuarie erano certo ispirate dagli ideali del mos maiorum, ma avevano anche una finalità politica: preservare la classe senatoria, mettendo al riparo dalla rovina i patrimoni del patriziato che deteneva tradizionalmente il potere, e limitare l’ascesa sociale dei nuovi ricchi, che fondavano la loro prosperità sui commerci.
Ma i tempi cambiano, ovviamente, e ben presto, non ci saranno più limiti al dispiego di lussi e stravaganze durante i banchetti. Quelli pubblici, fra l’altro, erano fortemente classisti, e prevedevano addirittura mense separate...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Capitolo 1
  3. Capitolo 2
  4. Capitolo 3
  5. Capitolo 4
  6. Capitolo 5
  7. Capitolo 6
  8. Capitolo 7
  9. Capitolo 8
  10. Capitolo 9
  11. Capitolo 10
  12. Capitolo 11
  13. Capitolo 12
  14. Capitolo 13
  15. Capitolo 14
  16. Capitolo 15
  17. Capitolo 16
  18. Capitolo 17
  19. Capitolo 18
  20. Capitolo 19
  21. Capitolo 20
  22. Appendice
  23. Note
  24. Ringraziamenti
  25. Bibliografia essenziale
  26. Indice