Da Tripoli al Messak racconti di viaggio e di scoperta
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Da Tripoli al Messak racconti di viaggio e di scoperta

  1. 205 pagine
  2. Italian
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Da Tripoli al Messak racconti di viaggio e di scoperta

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La Libia è un Paese che non si concede ai distratti. Ma si svela a chi cerca con passione. Ogni storia ne contiene un'altra. Dalla sconfitta di Sciara Sciat nell'oasi di Tripoli (la battaglia che cambiò per sempre le relazioni tra Italia e Libia), ai "ventimila di Balbo", all'epoca d'oro dei pirati del Seicento, alle incisioni rupestri del Messak. Un viaggio pieno di sorprese nella Libia minore, tra deserti, villaggi scomparsi ed eroi. Un lungo racconto che accende sensi che forse abbiamo dimenticato di avere.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788861899940
Categoria
Viaggi
Il leone del deserto
Mi trovo da qualche parte nella Marmarica orientale, oltre Tobruk, poco lontano dalla frontiera con l’Egitto. Questa strada scende veloce e diritta verso il mare, attraverso un paesaggio ormai non più familiare. Un immenso tavolato rossiccio, leggermente inclinato verso la costa, costellato di piccoli cespugli e privo di tracce di insediamenti. Non è la vegetazione mediterranea che ho conosciuto in Cirenaica, non è nemmeno quella steppa sabbiosa e già predesertica che accompagna lunghi tratti delle coste libiche. Nessun albero all’orizzonte. Poche irregolarità del suolo. Sarà forse l’effetto della natura calcarea della terra, e del vento che batte implacabile queste coste.
A intervalli che sembrano regolari, la strada scende verso il fondo dei wadi, che in questa zona sono poco più che larghi avvallamenti, per poi risalire in modo quasi impercettibile. Nei wadi la vegetazione è più ricca, appaiono chiazze di erba e i colori sparsi di qualche fiore, si indovinano alcuni appezzamenti coltivati dalla mano di uomini che non si vedono e che non hanno casa nelle vicinanze. Ma risalendo sul tavolato roccioso, questo piccolo mondo scompare, e il paesaggio torna ad aprirsi in una vastità orizzontale dominata da piccoli cespugli inclinati tutti nella stessa direzione. Una flora essenziale, aspra, quasi aggrappata al suolo.
Poco prima di giungere al mare, la strada piega verso est, poi attraversa una serie di piccoli villaggi costieri, nulla più che qualche casa, e risale nuovamente lungo il bordo di un alveo fluviale. All’improvviso appare un alto pinnacolo di cemento scolorito, che sembra contrassegnare un luogo speciale. È al centro di un piccolo piazzale ed è circondato da un recinto di rete metallica. Lascio la macchina in un parcheggio deserto ed entro per un cancello aperto a metà, dal quale pende un vecchio lucchetto arrugginito.
Il monumento è stato costruito sul bordo roccioso del wadi. Da questo punto rialzato, il paesaggio è suggestivo: un fondovalle rigoglioso, segnato da una geometria di piccoli appezzamenti coltivati a grano. Le spighe, in quest’inizio di primavera, sono già alte, di un verde ancora giovane. Dall’altra parte, oltre il versante opposto del wadi, si riconosce il profilo di un minareto e della vicina moschea, il villaggio di Janzur. Grandi nuvole scure attraversano il cielo, aprendo di quando in quando larghi spazi alla luce del sole. La guida che mi accompagna, che è di questa regione, osserva queste nubi con grande rispetto, quasi temendo che possano allontanarsi verso l’Egitto senza lasciare acqua alla sua terra.
Dal monumento, imbocchiamo un sentiero che scende verso un piccolo muro circolare, una vera di pozzo che si apre su una grotta sottostante. L’entrata è poco più giù, un sapiente arrangiamento di pietre ne indica l’accesso. La grotta è piuttosto ampia, ci si sta comodamente in piedi. Il pavimento è liscio e sabbioso e lungo le pareti si aprono piccoli spazi riparati, che possono offrire un po’ di intimità. Cavità di questo tipo, racconta il mio accompagnatore, hanno rappresentato per secoli la dimora tradizionale delle famiglie nomadi di queste terre.
Mi guardo attorno con occhi disincantati. In un certo senso, questo posto non ha nulla di rilevante. Ma non sono arrivato qui per caso, perché questa grotta asciutta e silenziosa è uno dei santuari della Libia odierna. Qui, quasi 150 anni fa, ha avuto inizio la storia di Omar al Mukhtar, il leggendario guerrigliero che per oltre vent’anni fu a capo della resistenza all’occupazione italiana, l’eroe nazionale della moderna Jamahiria. E per me, questa grotta segna l’inizio di un percorso che mi condurrà attraverso alcuni dei luoghi simbolici di questo Paese, ripercorrendo i fatti della vita di un uomo straordinario.
* * *
Omar al Mukhtar era nato attorno al 1860 da una povera famiglia beduina. Della sua giovinezza si sa poco, ma sembra che il padre, in punto di morte, ne avesse raccomandato le sorti a un notabile di Bengasi, ottenendo che il figlio fosse mandato a studiare presso la scuola coranica dell’oasi di Giarabub. All’epoca Giarabub era il centro spirituale della Senussia, una Confraternita fondata nel 1837 che predicava un ritorno alla purezza dell’islamismo originale, in aperta opposizione al misticismo delle pratiche sufi già allora diffuse in tutto il Nord Africa. La Senussia aveva fondato ovunque un gran numero di scuole coraniche, dette zavie, che rappresentavano il centro religioso e sociale delle comunità della regione.
Gli anni di Giarabub furono fondamentali per la formazione spirituale del giovane Omar al Mukhtar, che conservò sempre un forte attaccamento agli ideali e alle pratiche della Senussia. Il suo carattere duro e orgoglioso, marcatamente beduino, sembrava fatto per accogliere le convinzioni politiche della Confraternita, che predicava la guerra santa e si opponeva alle infiltrazioni che le nazioni europee stavano mettendo in atto attraverso le società geografiche.
L’ascesa di Omar al Mukhtar comincia verso la fine del secolo, quando viene scelto per accompagnare la Confraternita nel suo trasferimento nell’oasi di Kufra, qualche centinaio di chilometri più a sud. Qui ha modo di farsi apprezzare da Saied el Mahdi, il Gran Senusso in persona, e di lì a poco viene nominato maestro nella scuola coranica della località di Gsur, nel Gebel al Akdhar, la montagna verde della Cirenaica.
Qualche anno dopo è lo stesso Gran Senusso che ne sollecita il ritorno a Kufra, per capeggiare la rivolta delle tribù del Fezzan orientale contro le truppe francesi. Per quasi due anni, Omar al Mukhtar combatte una guerra di resistenza che lo porterà a percorrere tutte le oasi meridionali, fino al Sudan, in difesa di genti che non conosce. È in questo periodo che comincia a nascere la leggenda di colui che diventerà, per tutte le tribù di quelle terre, il “leone del deserto”. Mohamed Asad, inviato della confraternita che lo incontra in quegli anni, ne lascia chiara testimonianza: “Pareva cosciente in ogni fibra del proprio corpo del fatto che ogni uomo reca in sé il proprio destino, ovunque egli vada e qualunque cosa faccia ...”.
Tornata la calma nelle oasi del Sud, Omar al Mukhtar chiede di rientrare nella zavia di Gsur, per riprendere la sua attività di insegnante. Sono i primi anni del secolo, gli ultimi della dominazione ottomana: le tribù nomadi della Cirenaica manifestano apertamente la loro ostilità nei confronti di quei funzionari sconosciuti e spesso corrotti che si presentano nei villaggi solo per riscuotere le decime. E i turchi, che conoscono l’orgoglio di quelle popolazioni e ne temono la combattività, non faranno mai dei veri tentativi di conquista territoriale dell’interno della regione.
Quando infine arrivano gli italiani, per le tribù nomadi e per lo stesso Omar al Mukhtar non si tratta che di un nuovo nemico da conoscere e affrontare. Ma questa guerra sarà più lunga e più dura di quelle che l’hanno preceduta e insanguinerà per vent’anni gli altopiani della Cirenaica, segnando le sorti di una generazione di uomini, da una parte e dall’altra. Una guerra impari, logorante e interminabile, che registra alcuni degli episodi più oscuri dell’intera storia coloniale italiana. Da questo momento, la storia personale di Omar al Mukhtar sarà indissolubilmente legata alle vicende di quel confronto, e ai personaggi che ne saranno protagonisti.
* * *
Gli italiani sbarcarono in Cirenaica nell’ottobre del 1911. Durante le prime settimane del conflitto, vennero occupate tutte le principali località della costa, da Bengasi, a Derna, a Tobruk, ma fin dall’inizio fu chiaro che il controllo di quella regione vasta e selvaggia, abitata da una popolazione ostile, sarebbe stato un compito gravoso. Di fatto, per i successivi dieci anni, la dominazione italiana si limitò a Bengasi e a una fascia costiera larga non più di qualche chilometro, mentre l’entroterra rimase sempre sotto il controllo delle tribù nomadi dell’altipiano. In questo periodo, si instaurò una convivenza pacifica tra italiani e popolazioni indigene, sancita nel 1917 con la firma di un accordo di cooperazione e non belligeranza con i rappresentanti della Senussia.
L’ascesa del fascismo e le nuove direttive imposte alla politica coloniale cambiarono però la situazione. Il fascismo era impaziente di dimostrare all’Italia e al mondo la propria risolutezza politica e la propria efficienza militare: la questione della conquista della Libia, la colonia più preziosa e più irrequieta, andava risolta una volta per tutte.
Le operazioni militari in Cirenaica presero il via nel marzo 1923, quando il generale Bongiovanni attaccò di sorpresa le forze senussite nei territori aperti del Gebel. Per portare a termine la conquista, il regime fascista non aveva lesinato sulle spese e aveva dotato l’esercito italiano di autocarri, artiglieria, radio e aviazione, mezzi incomparabilmente più moderni ed efficienti di quelli di cui disponevano le tribù dell’interno. Nonostante ciò, per almeno quattro anni i successi riportati dalle offensive delle truppe coloniali furono modesti. Gli italiani si trovarono di fronte a un nemico sfuggente, organizzato in piccoli gruppi di cavalieri armati che comparivano e si dileguavano con grande rapidità. I ribelli del Gebel, come venivano chiamati, potevano contare su una perfetta conoscenza del territorio e riuscivano a sfuggire sistematicamente ai rastrellamenti delle truppe italiane. I duar, le tribù nomadi che vivevano con le loro tende e il loro bestiame a ridosso delle linee di combattimento, offrivano loro protezione e appoggio.
Era un tipo di combattimento che le truppe regolari italiane non conoscevano, una guerra nella quale la conquista del territorio era effimera e poco significativa, perché i ribelli lasciavano avanzare le truppe e si disperdevano nell’altopiano, per poi riprenderne il controllo poco dopo, quando i militari italiani facevano rientro ai loro presidi. I potenti automezzi messi in campo dal comando militare servivano a poco su quelle montagne, dove il terreno accidentato ostacolava i mezzi meccanici e favoriva l’agilità dei cavalli. Omar al Mukhtar, che aveva preso il comando delle truppe ribelli, sapeva di non poter affrontare le truppe avversarie in campo aperto e ricorse a un metodo di lotta fatto di razzie, imboscate e piccoli scontri, nei quali poteva riportare qualche successo e minare la sicurezza degli italiani.
La guerra nel Gebel fu sempre dura, senza quartiere. In quell’altopiano si combatterono decine di brevi, violentissime battaglie, con centinaia di morti dall’una e dall’altra parte. Battaglie nelle quali raramente si facevano prigionieri. Gli italiani avevano messo in campo truppe coloniali eritree, la cui ferocia era alimentata da un addestramento durissimo, non meno che dalla contrapposizione religiosa che li separava dal nemico. I ribelli, da parte loro, non risparmiavano nessuno, nemmeno se stessi. Negli scontri più duri arrivavano a legarsi l’un l’altro per resistere alla tentazione di abbandonare le linee, lasciando la vita sul campo anche quando non era necessario.
Questa guerra logorante durò per oltre cinque anni, senza che ci fosse un confronto risolutivo. Asserragliati nei fortini e nelle ridotte che avevano costruito a difesa dei punti nevralgici dell’altopiano, i soldati italiani mantenevano un controllo del territorio puramente formale. In questo periodo la Cirenaica conobbe due governi, quello italiano durante il giorno e quello di Omar al Mukhtar durante la notte.
Nel dicembre 1928 il maresciallo Badoglio fu nominato governatore unico di Tripolitania e Cirenaica. Badoglio, già all’epoca la figura di più alto grado della gerarchia militare italiana, fece della pacificazione della Cirenaica uno dei punti salienti del suo programma di governo. “Nessun ribelle avrà più pace”, proclamò, “né lui né la sua famiglia né i suoi armenti né i suoi eredi. Distruggerò tutto, uomini e cose.” Le vicende degli anni seguenti, com’è noto, avrebbero dimostrato come queste parole non fossero vane. Eppure in un primo momento Badoglio fu artefice di una politica di conciliazione, cercando di mantenere la pace attraverso mediazioni con le tribù ribelli. Questa politica portò a una serie di contatti con rappresentanti delle tribù nomadi, che culminarono nel giugno del 1929 con il celebre incontro tra Omar al Mukhtar e lo stesso Badoglio, nella località di Sidi Rahuma. Formalmente, queste iniziative portarono alla firma di un armistizio della durata di due mesi, ma nella sostanza le posizioni delle due parti rimasero immutate e non fu possibile trovare un accordo sulle richieste fondamentali dei ribelli, che rivendicavano l’amnistia generale di tutti i prigionieri politici, il ritiro dei presidi italiani dall’altopiano e il diritto della Senussia sulle decime.
Badoglio usò in modo strumentale l’armistizio di Sidi Rahuma. Era ansioso di poter comunicare al ministro delle colonie e allo stesso Duce di aver ottenuto la sottomissione di Omar al Mukhtar e delle sue genti, e di aver riportato la situazione in Cirenaica finalmente sotto controllo. Ma il maresciallo sapeva di mentire. L’armistizio avrebbe dovuto servire per delineare un compromesso accettabile da entrambi i contendenti, ma nella realtà quei due mesi erano il periodo necessario all’esercito italiano per rafforzare logistica e armamenti. Nel settembre di quell’anno, Omar al Mukhtar scriveva di suo pugno una lettera a Badoglio per ribadire le proprie richieste, ma non riceveva risposta. Un mese dopo, decise di riprendere le ostilità. L’8 novembre, in località Gasr Benigdem, un gruppo di ribelli sorprese una pattuglia di zaptiè che stava riparando una linea telefonica, e ne uccise quattro. La reazione del governo fu immediata, le truppe italiane uscirono dalle ridotte e diedero inizio a una rappresaglia durissima. Omar al Mukhtar venne accusato di aver tradito la tregua stabilita a Sidi Rahuma.
La ripresa delle ostilità in Cirenaica ebbe una larga eco presso gli ambienti governativi. Si criticarono la politica ambigua di Badoglio, il suo scarso intendimento delle vicende e l’incapacità del suo vicegovernatore in Cirenaica di tenere in mano la situazione. Fu allora che il Duce in persona, in aperta opposizione alla volontà del maresciallo, decise di inviare in Cirenaica colui che era considerato il militare più esperto di guerre coloniali, il generale Rodolfo Graziani.
Graziani aveva comandato le truppe italiane nelle vittoriose campagne del Fezzan del 1928 e 1929, che avevano riportato sotto il controllo italiano le vastissime zone desertiche comprese fra gli altopiani del retroterra tripolino e le remote oasi del sud. Ma queste guerre gli avevano anche procurato la triste fama di “macellaio del Fezzan”, per la durezza dei suoi metodi di guerra e la brutalità dimostrata con le tribù del deserto.
Graziani giunge a Bengasi il 27 marzo 1930. Ha una chiara missione, sopprimere definitivamente la resistenza in Cirenaica. Il Duce gli ha concesso mezzi finanziari e materiali pressoché illimitati: oltre tredicimila soldati, artiglieria, autocarri, aeroplani e perfino dei nuovissimi autoblindo, mezzi corazzati che per la prima volta sbarcavano sulle coste d’Africa. Il generale non può fallire: dall’altra parte ha di fronte poche centinaia di cavalieri male armati e provati da oltre dieci anni di guerre, privazioni e spostamenti continui.
Graziani si mette subito all’opera e dimostra di non lasciarsi affatto intimidire dalle difficili esperienze di coloro che l’hanno preceduto. Fin dalle prime settimane, procede con una serie di misure repressive che mai erano state osate dai suoi predecessori: chiusura di tutte le zavie senussite, deportazione dei capi religiosi, confisca dei beni mobili e immobili della Senussia. Impone il disarmo assoluto di tutte le tribù sottomesse e punisce la connivenza dei duar attraverso l’istituzione dei tristemente famosi “tribunali volanti”, aerei che trasportano una corte improvvisata che ha il compito di processare chiunque venga trovato in flagranza di reato, dove per reato si intende il possesso di un’arma, l’aiuto a un ribelle o anche solo il pagamento della decima alla confraternita senussita. In tutti i casi la sentenza è capitale e viene eseguita di fronte a un gran numero di persone, perché sia di maggior esempio. In questa giurisprudenza sommaria, che contravviene anche le norme straordinarie dello stato di guerra, gli indigeni non hanno nessuna possibilità di difesa né di ricorso, perché il tribunale speciale non prevede la procedura d’appello. Quando avvistano all’orizzonte le sagome dei due aerei del “tribunale volante”, le genti indigene sanno di dover affrontare qualche lutto. La morte, scherzano gli ufficiali italiani, scende sempre dal cielo.
In quegli stessi mesi, Graziani concepisce uno dei piani più infamanti dell’intera storia coloniale italiana: la costruzione di una serie di campi di concentramento per la deportazione di tutte le tribù del Gebel. L’esistenza di questi campi, per quanto possa apparire incredibile a coloro che si adagiano sulla fragile convenzione degli “italiani brava gente”, è un incontrovertibile dato storico. Su queste vicende la storiografia ufficiale ha lungamente taciuto. Eppure l’analisi dei documenti dell’epoca lascerà trasparire con chiarezza come la realizzazione di questi campi sia voluta e appoggiata dai più alti livelli della gerarchia politica e militare italiana. Né a quegli uomini sfuggono le potenziali conseguenze che dovranno affrontare: “Non mi nascondo la gravità di questo provvedimento”, scriveva Badoglio a Graziani, “ma la via è tracciata e dobbiamo perseguirla sino alla fine, anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica”.
Di fatto, da un punto di vista strettamente militare, che è anche l’unico ammissibile per Graziani e Badoglio, quel progetto ha una sua precisa ragione d’essere. La segregazione delle popolazioni dell’altopiano dovrebbe infatti porre termine a quella connivenza tra tribù nomadi e combattenti che rappresenta l’anima della resistenza. Negli accampamenti delle tribù, i ribelli trovano appoggio, ristoro e cibo, e in questo senso i duar rappresentano dei veri e propri gruppi mobili di sostegno alla guerriglia. Graziani ha capito che questo legame va spezzato. Per sconfiggere i ribelli occorre isolarli dal resto della popolazione.
Il 25 giugno del 1930 Graziani dà inizio alla deportazione di tutte le tribù del Gebel Al Akdhar, che vengono ammassate in campi organizzati in prossimità della costa, tra le pendici e il mare, nella regione di Tolmetta. La deportazione avviene sotto la protezione delle truppe italiane, senza incidenti, tra luglio e agosto di quell’anno. È un esodo di quasi centomila persone, con tutte le loro greggi di capre, pecore e cammelli. Da un giorno all’altro, il Gebel si trova svuotato di ogni traccia di vita. Quei gruppi di pastori e cavalieri, che per secoli hanno percorso in libertà gli altopiani con le loro greggi, si ritrovano rinchiusi in squallidi accampamenti fatti di migliaia di tende affiancate le une alle altre, sotto la stretta sorveglianza dei soldati italiani. Non ci sono eccezioni: chiunque sia stato sorpreso al di fuori delle zone consentite sarà passato per le armi in quanto ribelle.
Tuttavia nemmeno l’istituzione di questi campi di concentramento costieri è in grado di spezzare del tutto i legami tra i ribelli e le popolazioni. E così a fine agosto si decide di inasprire ulteriormente le condizioni di vita nei campi e di trasferire le tribù verso le zone desertiche della Sirtica, tra Bengasi ed El Agheila. La situazione dei deportati, in quella regione torrida e desolata, diventa insostenibile. Le uscite dai campi vengono limitate, i viveri razionati, gli spazi per i pascoli contratti e controllati. Le sanzioni per i trasgressori si fanno durissime, e si arriva persino all’imposizione del principio della responsabilità collettiva, per cui un intero accampamento deve rispondere delle infrazioni di un singolo individuo.
Le immagini e i filmati dell’epoca ci illustrano con precisione la razionalità e la gelida efficienza di questi campi. Gli allineamenti di tende, le strutture di controllo e sorveglianza, i pattugliamenti continui. Ma le condizioni di vita nei campi sono drammatiche. In ogni tenda vivono famiglie intere, in totale disprezzo delle tradizioni e delle consuetudini delle tribù beduine. Le condizioni alimentari e igieniche sono assai precarie. Soluch, Sidi Ahmed el-Magrun, Marsa Brega, El-Agheila, questi i nomi delle località che ospitano i campi di concentramento, nomi che da alcuni anni sono tornati a essere familiari ai nostri politici attraverso le recenti revisioni storiografiche e le dichiarazioni politiche di Gheddafi.
I campi di concentramento hanno portato alla decimazione delle tribù del Gebel. Condizioni climatiche estreme e totalmente diverse da quelle della montagna, marce di trasferimento, malnutrizione ed epidemie hanno determinato la morte di decine di migliaia di persone, forse cinquantamila, forse più, nel breve arco di tempo di un paio d’anni. Sorte ancora peggiore è toccata agli animali, l’unica ricchezza delle tribù, che morivano in massa per mancanza di pascoli.
Con la deportazione delle popolazioni, l’altopiano diventa il teatro della battaglia finale, che porterà all’eliminazione delle ultime sacche di ribellione in Cirenaica. Graziani mette in c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Questo libro è un talismano
  3. Dedica
  4. Sciara Sciat
  5. Hammangi
  6. L’epica della fondazione
  7. Il leone del deserto
  8. Tripoli corsara
  9. Wadi Markus
  10. Marmarica
  11. Messak
  12. Shukran