(Non) un corso di scrittura e narrazione
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(Non) un corso di scrittura e narrazione

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(Non) un corso di scrittura e narrazione

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"Questo libro tenta di presentare l'attività dello scrivere e del narrare come una normale attività umana, buona per la vita come sono buoni per la vita il far da mangiare, l'andare a spasso e il conversare con le amiche e gli amici. Anche per questo il discorso è un po' divagante, come sono divaganti la conversazione con gli amici e l'andare a spasso. E anche per questo i discorsi più o meno teorici, i commenti a testi, l'illustrazione di regole e criteri si mischiano continuamente con ricordi di lezioni, pezzi d'autobiografia, conversazioni notturne con amici e colleghi" (G. Mozzi)

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Informazioni

Anno
2010
ISBN
9788861899971
Le tre vite di questo libro
Buondì.
Il libro che state cominciando a leggere è un libro che ha avute tre vite. Questa che avete in mano è la terza.
La prima vita fu una vita in 100 puntate, prima settimanali e poi quindicinali, nella rivista di letteratura Stilos inventata e diretta da Gianni Bonina e oggi, ahimè, non più esistente.
La seconda vita fu una vita in forma di documento prelevabile gratuitamente in vibrisse, il bollettino di letture e scritture che curo in rete dal 6 agosto del 2000. Ed è una vita che continua ancora.
Tra la prima e la seconda vita, il testo è rimasto identico, ma il supporto è cambiato: prima la carta, poi i bit. In questa terza vita il testo ricupera l’antico supporto, ma cambia un po’. L’editore mi ha chiesto di “adattare il testo alla forma/libro”. Come è giusto che sia: una serie di articoli (di “chiacchierate”, come le chiamavo io) è una cosa, un libro è un’altra cosa. Quindi questo libro, rispetto alle 100 chiacchierate originarie, è un po’ diverso: è più ordinato; quindi un po’ più corto; più preciso in qualche punto (spero); e inevitabilmente un po’ meno fresco e frizzante.
Nel 1993 Roberto De Gaspari mi propose di tenere un “corso di scrittura creativa” presso il circolo Arci Lanterna Magica, a Padova. Con quel corso cominciò una pratica di riflessione sullo scrivere e sul narrare che è stata assai importante per la mia vita. Nell’estate del 2009 Roberto ci è stato sottratto: questo libro è dedicato a lui e a Silvia che tanto lo ama.
Ragioni per leggere questo libro
Il libro che state cominciando a leggere non è un corso di scrittura e narrazione. È una lunga conversazione nella quale si parla di scrittura e di narrazione. Non ha la forma organizzata del manuale. Non pretende di esaurire l’argomento. Ha il tono della “chiacchierata”: cerca di essere insieme preciso e semplice, profondo e cordiale.
Questo libro tenta di presentare l’attività dello scrivere e del narrare come una normale attività umana, buona per la vita come sono buoni per la vita il far da mangiare, l’andare a spasso e il conversare con le amiche e gli amici. Anche per questo il discorso è un po’ divagante, come sono divaganti la conversazione con gli amici e l’andare a spasso. E anche per questo i discorsi più o meno teorici, i commenti a testi, l’illustrazione di regole e criteri si mischiano continuamente con ricordi di lezioni, pezzi d’autobiografia, conversazioni notturne con amici e colleghi.
L’autore di questo libro - io, Giulio - è un cinquantenne che come tutti lavora; ha cambiato vari mestieri; attualmente (2009) fa il consulente editoriale, ovvero legge dattiloscritti e, se gli sembrano interessanti, si batte perché un editore li pubblichi; di suo ha pubblicato vari libri di racconti; e ha avuto il privilegio di stare centinaia di ore in aula a insegnare a scrivere e raccontare.
Domande
“Ma si può insegnare a scrivere e raccontare?”
La domanda è rituale. Rispondo: si può insegnare tutta la parte tecnica dello scrivere e del narrare. A me la parte tecnica dello scrivere e del narrare è stata insegnata. In gioventù ho lavorato sette anni nell’ufficio stampa della Confartigianato del Veneto, cominciando col rispondere al telefono e copiare in bella i testi, e lì alcuni giornalisti bravi e generosi mi hanno insegnato molte cose. Tra un racconto d’amore e un comunicato stampa sulle norme igieniche nella produzione del gelato c’è una bella differenza; ma la tecnica che ci sta sotto, vi piaccia o no, è sempre quella.
“Come mai questa moda dei corsi di scrittura?”
Non è una moda. La tecnica di composizione del discorso, ossia la Retorica, ossia la tecnica di argomentare e raccontare con efficacia, si insegna da sempre. I primi manuali di tecnica del discorso li scrissero alcuni avvocati siracusani, riferisce Cicerone, più di quattrocent’anni avanti Cristo. Grammatica (cioè conoscenza della lingua) e Retorica sono state per secoli le colonne portanti della cultura europea. Ovviamente la Retorica d’oggi non è la stessa cosa della Retorica di duemill’anni fa. Ma vi assicuro che quando ho letto l’Institutio oratoria (“La formazione dell’oratore”) di Quintiliano, pubblicata tra il 90 e il 100 dopo Cristo, ho avuta l’impressione di leggere un libro scritto da un insegnante mio contemporaneo.
“Ma allora, se a scrivere e raccontare si insegna, dove sta di casa il talento?”
Faccio un esempio. La cortesia (cioè il comportamento formalmente ineccepibile) può essere insegnata: è una tecnica. La gentilezza d’animo non può essere insegnata: non è una tecnica.
La gentilezza d’animo può essere il frutto, si dice, di una buona educazione. Allora diciamo che “insegnare” è tutt’altra cosa da “educare”. Il talento può essere “educato”. Ci sono persone più giovani di me, secondo me dotate di talento, alle quali io volentieri offro tempo, disponibilità a discutere di qualunque cosa (in particolare dei loro tentativi di scrittura), libri in prestito (centinaia), complicità, sostegno morale, aiuto pratico. In sostanza, offro la mia amicizia, per quel che vale. Questo è, per me, il modo di occuparmi del loro talento. Ovviamente la relazione con voi che leggete questo libro è tutt’altra cosa. Ma magari un giorno ci incontreremo.
“Si può diventare scrittori leggendo un manuale o frequentando un laboratorio di scrittura?”
No. Come non si diventa un Vittorio Gassman frequentando un laboratorio di teatro, né una Federica Pellegrini frequentando un corso di nuoto. Ma se si è un Vittorio Gassman potenziale o una Federica Pellegrini potenziale, bisognerà pur cominciare da qualche parte.
“Ma allora, se ciò che si insegna è tutta tecnica, dove stanno i sentimenti, la creatività, l’ispirazione?”
Appunto: i sentimenti, la creatività, l’ispirazione hanno bisogno della tecnica. Se io - nel senso più banale della parola - non so scrivere, se sono analfabeta, dei sentimenti e della creatività e dell’ispirazione mi faccio poco. Oppure me ne farò tanto, ma non nella direzione della scrittura. Racconterò a voce, dipingerò, farò salti e capriole, canterò: ma non scriverò. Si tratta di accettare l’idea che esistano un abbiccì e una grammatica della narrazione: e che senza abbicc e grammatica non si può andare tanto avanti.
“Per imparare a scrivere, bisogna leggere molto?”
Lo pensano in tanti: e sarà dunque vero. Ma io penso che la scrittura ha bisogno di allenamento: e quindi bisogna anche scrivere molto. Chi ha la patente ma non guida quasi mai, quando guida è un pericolo ambulante: lo sappiamo tutti. E nessuno penserebbe di poter giocare seriamente a calcio senza un po’ di allenamenti.
“Tanto, io scrivo per me.”
Certamente si può scrivere solo per sé. È importante però capire che la scrittura “per sé” è una cosa del tutto diversa dalla scrittura “per gli altri”. Tutti i libri che abbiamo letti (o quasi tutti) sono stati scritti perché altri li leggessero. Le nostre scritture private, quelle che teniamo per noi soli o, al massimo, per noi e per le persone che ci sono più care, sono scritture d’altra specie e funzionano in tutt’altro modo.
Se si vuole imparare a scrivere e narrare storie, è bene rendersi conto che non si narra mai a Nessuno; si narra sempre a Qualcuno. E quel Qualcuno è importante, più importante di noi che raccontiamo. Infatti, se smette di ascoltarci o di leggerci, è come se la nostra storia svanisse. Se voi decidete di interrompere qui la lettura di questo libro, questo libro muore.
Retorica in cinque o in tre parti
La tecnica della narrazione (o l’arte, dice qualcuno; ma la parola greca tèchne, da cui “tecnica”, e la parola latina ars, da cui “arte” sono quasi perfetti sinonimi) si divide in tre parti: l’invenzione, l’organizzazione del discorso, lo stile. In questo libro ci occuperemo soprattutto dell’invenzione. Perché, sapete, quando qualcuno viene da me e mi dice, colpendosi la fronte con un dito: “Sa, io la storia ce l’ho tutta qui, nella mia testa”, la verità è (di solito) che in testa ha solo un germe della storia. Si tratta di far germogliare il germe.
In realtà i maestri di Retorica dell’antichità dividevano la Retorica stessa in cinque parti, i cui nomi latini sono: inventio, elocutio, dispositio, memoria e actio. Possiamo tradurli grosso modo così: trovare la materia, ornare lo stile, organizzare il testo, mandare a mente, saper dire con efficacia. Gli antichi maestri di Retorica, ricordiamolo, insegnavano a scrivere discorsi da pronunciare in pubblico; quindi anche il mandare a mente e il saper recitare con voce e gestualità efficaci facevano parte del loro insegnamento.
Va detto però che la memoria non è solo un insieme di tecniche per ricordare, ma anche la capacità di “tenere sotto controllo” un testo di una certa lunghezza (provate a scrivere un romanzo di 400 pagine, e vedrete se non vi servirà memoria); e l’actio, cioè la “presentazione” al pubblico per mezzo del gesto e della voce, può essere identificata, per noi che siamo produttori di narrazioni scritte, con la “presentazione grafica”: un giornale, un libro, un dattiloscritto male impaginati o scorretti, non si lasciano leggere volentieri.
Comunque le prime tre parti della Retorica, inventio, elocutio, dispositio, erano anche le più importanti. Inventio ed elocutio erano intrecciatissime tra loro: infatti trovare gli argomenti, la materia, i contenuti, significa automaticamente già cominciare a organizzarli, a disporli secondo logica, narrazione ed efficacia. L’elocutio invece spesso si riduceva a una sorta di catalogo, tendenzialmente sterminato, di “bei modi di dire”: figure retoriche, giri di frase, ritmi sonanti, parole belle, e così via. Insomma, più che di “stile” (lo stile dovrebbe essere, credo, qualcosa che agisce dentro la scrittura), quei trattati parlano di “ornamenti” del discorso (e l’ornamento è qualcosa che si appiccica per di fuori). Tutti noi sappiamo che non bastano gli ornamenti (abiti, gioielli, maquillage) a fare di una donna una donna elegante, cioè una donna provvista di stile.
Inventare: andar trovando
E così, alla fin fine, il cuore del cuore della Retorica è la prima delle sue cinque parti: l’inventio, il “trovare” la materia. La parola “inventare” deriva infatti dal latino invenire, che significa: trovare. E noi diciamo facilmente, nel linguaggio familiare, “una bella trovata” per dire “una buona idea, una buona invenzione”. Ma non è che le storie, gli argomenti, la materia, si trovino per caso o per fortuna. Chi cerca trova, si dice; e chi dorme non piglia pesci. E cercare non basta: ci vuole del metodo, del criterio, dell’abilità nel cercare.
Si può dunque imparare a inventare? Si può imparare a cercare e trovare? In linea di massima sì. O almeno: impegnandosi, ci si può migliorare. Si possono imparare dei metodi (ne proporrò alcuni seri, altri divertenti o imbarazzanti). Ma a una condizione. Che è questa: accettare di considerare la fantasia come il nostro peggior nemico.
Cerco di spiegarmi. I bambini, si dice, hanno tanta fantasia. Spesso inventano storie mirabolanti. Eppure, se ci pensate, i bambini vogliono sentirsi raccontare sempre le stesse storie (e guai a cambiare una sola parola!). Il bambino ama la ripetizione. E le storie che i bambini inventano sono in fondo sempre le stesse storie. Ci stupiscono talvolta non per le loro qualità, ma per un loro difetto: i bambini se ne fregano della coerenza, e perciò a volte mescolano cose impossibili da mescolare - con un effetto senza dubbio divertente. Ma la storia, pur divertente, non sta in piedi. Il bambino che si racconta storie è, senza saperlo, un po’ come l’atleta che instancabilmente ripete, ripete, ripete il gesto o la serie di gesti che gli serviranno durante la competizione o la partita. Si allena. Ma un gesto o una serie di gesti non è ancora una strategia di gioco.
La potenza della fantasia sta nella sua capacità di passare da una cosa a un’altra per mezzo di somiglianze, vicinanze, differenze, opposizioni, appartenenze, condivisioni eccetera. Il limite della fantasia è che essa procede sempre per contiguità, passa da una cosa alla cosa vicina, fa il minimo sforzo - e, soprattutto, non si guarda intorno e non pensa al futuro: è tutta concentrata lì, sul presente, sul passaggio che sta compiendo in quel momento. E inoltre è involontaria: fa quello che vuole, non funziona a comando, quando decide di incrociare le braccia non c’è niente da fare, non va.
Nel lavoro di invenzione si adopera anche la fantasia; ma si adopera soprattutto l’immaginazione. Immaginare significa: produrre un’immagine, e la prima qualità di un’immagine è di essere guardabile e comprensibile, ossia di essere coerente.
Parlato/scritto
Noi viviamo immersi nelle storie. Torniamo a casa dal lavoro e qualcuno ci chiede: “Com’è andata?”; noi raccontiamo, e poi: “E a te, com’è andata?”. Prendiamo il treno e in trenta o trecento chilometri impariamo tutta la vita dei nostri compagni di viaggio. Leggiamo il giornale. Guardiamo la televisione. Andiamo al cinema. Mentiamo alla moglie, all’amante, e anche a noi stessi. Raccontiamo storie vere, storie false, storie inventate. Continuamente.
Il raccontare è un comportamento normale, che mettiamo in atto senza neanche pensarci su. Ci sono persone più o meno abili nel raccontare, e questo lo sappiamo tutti. Può succedere che un’emozione buona o ca...

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  1. Copertina
  2. Un corso di scrittura e narrazione