IL PIANO APERTO
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IL PIANO APERTO

  1. 200 pagine
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Ma che razza di società vogliamo? Da una parte c'è il piano rigido proprio di una società preordinata secondo schemi astratti che dalle rilevazioni sul campo esigono solo una conferma. Dall'altra c'è il piano aperto, flessibile, sottoposto alla verifica della realtà e ricreato costantemente dall'azione reciproca fra gli esseri umani e l'ambiente. A partire da questa visione, Doglio elabora una critica pungente della cultura disciplinare ufficiale, cogliendo con grande lungimiranza la crucialità di tematiche che di fatto verranno affrontate solo alcuni decenni dopo: la necessaria interazione fra interessi plurali e spesso divergenti; la dimensione deliberativa come confronto argomentativo fra voci diverse; la possibilità di apprendimento tramite negoziati o argomentazioni. La società che emerge da questa visione richiama quella che in alcune città medievali, e poi nel flusso dei moti rivoluzionari, si configurò in modo spontaneo, senza la necessità di un piano preconcetto imposto dall'alto: una società aperta e viva, in cui il sociale è l'elemento che unisce gli abitanti, in una continua e creativa partecipazione di ognuno all'opera comune.

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Informazioni

Editore
Eleuthera
Anno
2021
ISBN
9788833021607
capitolo undicesimo
La fionda sicula
Portolano del viaggio alla ricerca della fionda
Un’armonia non-prestabilita. Rami di fiumi, forza di monti. Rami senza alberi, l’acqua non trova radici. Forza formale dei monti, più ripidi che alti, più impennati bombati pungenti che muscolosi: ossa di monti.
Il viaggiatore che percorra i territori siciliani, e non solo quelli di cui ci occupiamo in questa storia, o piano di trasformazione che dir si voglia, ma ognuno che compone la distinta unità, l’armonia instabile dell’Isola, si troverà di fronte a molte diversità tanto sul piano del paesaggio quanto su quello delle disponibilità economiche e anche, geneticamente, dell’ambiente umano. Non si lasci ingannare, il nostro viaggiatore, dalle simiglianze apparenti che depressione e miseria stemperano sugli aggregati urbani; sarebbe come se giudicasse egualmente spenti i volti degli ex-zolfatari delle zone riesine, che danno tutto il giorno di spalle a cornici di porte settecentesche e più antiche, e quanto di sguardi traspare dai cappucci dei mantelli di Prizzi nel Corleonese. Sarebbe, errore imperdonabile, come far tutt’uno delle marmellate di case di Gela e delle feritoie, occhi di roccia, di Caltabellotta, degli alberi del pepe nella piazza diruta di Menfi e dello spicchio di giardino al sommo di Santa Ninfa da dove svaria, e fugge, lo sguardo sopra lo spurgo delle baraccopoli. E qui riconosce ancora Sicani e Siculi misti delle torme di schiavi illirici, siri, quant’altri mai popolarono il centro della Sicilia da invasione a invasione; e lì rimasugli punici ed elimi, o guizzi greci, o pesanti orme normanne. Non creda che gli possa esser di guida l’etimo arabo di Gibellina, l’armatura absidale di Monreale o di Cefalù, la smisurata, e perenne, plebe di Palermo o, Dio ne guardi, la proliferazione delle colture viticole alla «alcamese». Difficile, per non dir disperata, e probabilmente inutile, è l’impresa di ricondurre a unità le differenziazioni e riprodurne un quadro ordinatamente atteggiato: ci si sono rotte le ossa, a tentarlo, millanta invasori e predoni di mare, re e baroni, industriali e burocrati, carabinieri e prefetti.
La verità è che non di un «ordine» abbisogna la Sicilia, ma di un’armonia che contemperi strette valli e slarghi di piana, fungaia metropolitana e lontane uve di lumi dei paesi nei monti, scroscio di frane e del mare. Un’armonia che raccoglie le sue note diverse, che prende forza dalle dissonanze e slancio dalle contraddizioni, componendosi secondo una propria linea organica: il viaggiatore, a poco a poco, d’occhio e orecchia andrà trovando le vene riposte e segrete come acque carsiche. A furia di guardare solo dentro di sé i siciliani sono diventati l’uno specchio dell’altro: ristanno immobili per timore che l’immagine riflessa improvvisamente si sgrovigli, e colpisca. La questione è di individuare i gesti che sciolgono invece di imbozzolare, che s’alzano invece di sprofondare, che mutano e trasformano e diventano vita invece di mummificare: alla maniera del secolo ix, o xvi, o xx sempre sudario inviluppante restò.
La diversità e il superamento progettuale. L’equivoco della pianificazione contemporanea in Sicilia sta proprio in questo: nell’attribuire una capacità «ordinatoria» a elementi del tutto estrinseci alle caratteristiche dell’Isola, come sarebbero quelli di un’industrializzazione carismatica, salvo poi frammentarsi e frantumarsi nei provvedimenti legislativi e nelle attuazioni, se ne avvengano, che corrono dietro a ogni piega del terreno, a ogni sollecitazione settoriale o, nello stato di democrazia in cui siamo, elettorale. Sicché potrebbe dirsi che riesca, quella pianificazione, a cogliere il peggio delle esistenti, e reali, contraddizioni tramite intuizioni unitarie che si sfilacciano in sigle, in puri nomi che insistono a indicare una serie di provvidenze e di azioni prive di una qualsiasi logica globale.
Questo è d’altronde il problema generale del sottosviluppo meridionale e siciliano in ispecie. Per via di una collocazione geografica che si è andata emarginando, e che, quando marginale non era, portò in Sicilia padroni né mai lieviti; per via della mancanza di impulso che tragga dal coacervo l’armonia di un suo proprio volto e personalità, i provvedimenti che dovrebbero implicare una trasformazione economica globale, una generale modifica culturale e sociale finiscono, da sempre e tuttora, con l’individuarsi in interventi validi solamente sul piano del sussidio.
Evidentemente ciò che stiamo dicendo vale per i due ambiti, in parte contigui lungo le coste del mar d’Africa, in parte separati dall’acrocoro del Corleonese e dall’urbanizzazione palermitana, della fascia centro-meridionale e delle zone terremotate con tutta una loro interna distinzione e contrapposizione particolare.
Il nostro intento è di confermare, nell’attento esame delle pianificazioni correnti ai giorni nostri, codesta caratteristica della programmazione, fisica come economica, meridionale per cui non si è giunti a formulare un quadro di riferimento relativamente organico all’una e all’altra parte; e come un’eventuale preoccupazione iniziale sia stata stravolta dagli avvenimenti, oppure, e meglio, da ordinamenti che vogliono essere unitari astrattamente e naturalmente divengono divergenti e opposti.
Certo, ognuna delle due zone, o aree, o come dir si voglia (giacché non possiamo «nominare» se prima non cogliemmo natura e volto del soggetto), ha grande diversità geografico-sociale, lo dicemmo e ripetiamo. La realtà di Agrigento muta profondamente a Palma e a Licata (distanti 50 chilometri), e in modo diverso ma altrettanto profondo tra Gela e Riesi (ancora 50 chilometri) come poi tra le zone limitrofe a nord-est e a ovest. Lo stesso accade entro i perimetri delle zone terremotate, dove, a parte l’aggregazione Gibellina-Salaparuta-Camporeale, è uno sfascio di frane a Roccamena, di solitudine a Ostessa Entellina, e Santa Ninfa reitera di non aver niente a che fare con la valle del Belice. Identica, nella difformità, la situazione del Corleonese poiché tra Palazzo Adriano, per esempio, e Bisacquino, pur simiglianti di strette e monti, non c’è, nel loro intimo, niente in comune: e le distanze di scarsi chilometri divengono, nel viaggiatore che le percorra, separazioni di secoli.
Ma allora perché conglobare in un’unica progettazione territori che mai sono stati unificati da provvedimenti legislativi, e di cui sono chiarissime le differenze-di base? Perché orientarsi a una ricerca, a un viaggio quale quello che stiamo intraprendendo allorché basta uno sguardo affrettato per campire una linea di divisione geografica chiara e distinta, costituita a mare dalle pianeggianti zone orticole di Sciacca e Ribera e all’interno dalle catene montuose di Cammarata e della Busambra? Perché, infine, pretendere di correlare progettualmente un sito caratterizzato dal fatto emergente del terremoto e un altro che non subì sisma affatto, o quello palermitano, che ne soffrì solamente lo scatenarsi di una paura endemica?
Sono due le ragioni, l’una in negativo e l’altra in positivo, che ci hanno indotto a seguire una traccia apparentemente evasiva e contraddittoria, come sono, d’altronde, storia e situazione odierna della Sicilia.
In «negativo», gli è che l’esame delle vicende politico-amministrative che hanno interessato i due ambiti, e la loro cerniera, si risolve nella constatazione di una reciprocità di carenze e contraddizioni tanto culturali quanto decisionali, le quali, sommandosi, ci conferiscono un quadro incisivo di interventi presuntivamente unitari e coordinati che si sgomitolano in progressive frantumazioni. Inabili poi, codeste, e per le ragioni che enunciavamo poc’anzi, a innervarsi nelle diversità concrete per costituirsi in armonia di risultati.
In «positivo», perché le caratteristiche di quegli ambiti fluiscono, a saperne individuare le essenze, in una positività armonica che da formale si fa reale: e l’intervento di piano territoriale scioglie contraddizioni e barriere nel tumulto continuamente strutturato e destrutturato di un’esistenza sollecita, inarcata a sforzare le preclusioni antiche e a slanciarsi verso l’esterno da mille e un punti che proprio nella tensione innovano la propria coordinazione.
Certo, sia l’una sia l’altra ragione abbisognano di un’attenta documentazione e, in pratica, in tavole e parole di questo sarà contesto il presente volume. Ma fin da questa Introduzione sarà bene darne contezza riassuntiva, una mappa, un portolano appunto, che aiuti il viaggiatore sprovveduto, o male informato, o incapricciato di tesi tradizionali, a puntare la bussola verso il punto cardinale che di sé informa qualunque speranza di trasformazione siciliana – e non è il Nord ma, astronomica contraddizione d’avvio a tante altre, l’Est-Sud-Ovest.
I due terremoti e la stabilità burocratico-culturale. Per quel che attiene all’argomento in «negativo», rifacciamoci al 13 gennaio 19681.
Subito dopo il terremoto che colpì duro e sordo nelle zone d’ora innanzi definite «zone terremotate», si creò una forte atmosfera di tensione in cui si intrecciavano due motivi: quello dell’occasione di tagliar corto con un passato di staticità, e quello della critica alle intempestività e inadeguatezze dei provvedimenti. C’era una specie di cupa speranza che la scossa subita generasse una reazione finalmente sana, e contemporaneamente tutto appariva estremamente lento, quasi come una rarefatta dissolvenza incrociata che già lasciasse indovinare ulteriori rovine al posto di quelle che traballavano e scrosciavano a terra quei giorni.
In effetti la stesura e approvazione dei documenti con cui affrontare i tempi lunghi della ricostruzione fu lesta invece, giacché il 3 febbraio 1968 era già approvata la legge per gli interventi, con indicazioni urbanistico-territoriali di un qualche rilievo tramite l’istituzione di «comprensori». Sicché la critica non è a proposito di lentezze che, d’inizio, ha da mordere, ma per il modo macroscopico in cui Stato e Regione entrarono tosto in concorrenza: e circa la promulgazione delle leggi, e a proposito degli organi da preporre alla ricostruzione.
Il fatto che lo Stato abbia e dovere e diritto di intervenire in occasione di calamità naturali, e che la Regione Siciliana, in forza del suo statuto autonomo, legiferi sui problemi territoriali, è all’origine di questo dualismo.
Lo Stato infatti promulgava il 18 marzo 1968 un «suo» decreto-legge per le provvidenze a favore delle aree sinistrate, ignorando del tutto la legge regionale del 3 febbraio. E, mentre i provvedimenti si sovrapponevano, prendeva piede, anche da codesta sovrapposizione, un sottovalutare gli aspetti economici che minacciava di far scadere gli interventi ipotizzati «di sviluppo» a mere provviste da «opere pubbliche». Beninteso, un vertice unico, un momento decisionale organico – e sia pure di vertici, che d’altronde in quei contesti legittimi sono – non si è mai realizzato nonostante che da più parti lo si sollecitasse; e bisogna anche dire che gli ambienti siciliani «di governo», a mano a mano che i mesi trascorrevano, andavano appannando la propria sensibilizzazione al problema di fondo per polarizzarsi su infrastrutture, urbanizzazioni, opere pubbliche… che è il malanno, non solamente tecnico e culturale ma pur politico, di certi modi di intendere la pianificazione. […]
C’era sì un comitato che apparentemente avrebbe dovuto coordinare tutte le attività d’ogni genere, e per questo la Regione vi inviò propri rappresentanti: ma quando fin dalle prime battute il comitato stesso fu avviato a devolvere i fondi senza la predisposizione di un piano e di un programma organico di opere, a chi lo faceva notare fu risposto, da parte dell’Ispettorato, che al comitato non competevano formulazioni di piano e che, comunque, il piano organico lo avrebbe fornito l’ises2, che ne aveva già ricevuto incarico dal ministero dei Lavori Pubblici. E intanto questo e quel Comune dava incarichi di redazione di piano regolatore generale (per esempio, Santa Ninfa). E contemporaneamente liberi gruppi di lavoro e di studio, come il Centro studi di Danilo Dolci a Partinico, affrontavano per proprio conto, o in contatto secondo parametri diversi con le popolazioni, il problema.
In parallelo con le decisioni «regionali» si provvedeva alla costituzione di gruppi cui dare l’incarico delle pianificazioni comprensoriali: question...

Indice dei contenuti

  1. Epigrafe
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Nota della curatrice
  5. Introduzione
  6. Capitolo primo
  7. Capitolo secondo
  8. Capitolo terzo
  9. Capitolo quarto
  10. Capitolo quinto
  11. Capitolo sesto
  12. Capitolo settimo
  13. Capitolo ottavo
  14. Capitolo nono
  15. Capitolo decimo
  16. Capitolo undicesimo
  17. Nota agli scritti scelti