capitolo undicesimo
La fionda sicula
Portolano del viaggio alla ricerca della fionda
Un’armonia non-prestabilita. Rami di fiumi, forza di monti. Rami senza alberi, l’acqua non trova radici. Forza formale dei monti, più ripidi che alti, più impennati bombati pungenti che muscolosi: ossa di monti.
Il viaggiatore che percorra i territori siciliani, e non solo quelli di cui ci occupiamo in questa storia, o piano di trasformazione che dir si voglia, ma ognuno che compone la distinta unità, l’armonia instabile dell’Isola, si troverà di fronte a molte diversità tanto sul piano del paesaggio quanto su quello delle disponibilità economiche e anche, geneticamente, dell’ambiente umano. Non si lasci ingannare, il nostro viaggiatore, dalle simiglianze apparenti che depressione e miseria stemperano sugli aggregati urbani; sarebbe come se giudicasse egualmente spenti i volti degli ex-zolfatari delle zone riesine, che danno tutto il giorno di spalle a cornici di porte settecentesche e più antiche, e quanto di sguardi traspare dai cappucci dei mantelli di Prizzi nel Corleonese. Sarebbe, errore imperdonabile, come far tutt’uno delle marmellate di case di Gela e delle feritoie, occhi di roccia, di Caltabellotta, degli alberi del pepe nella piazza diruta di Menfi e dello spicchio di giardino al sommo di Santa Ninfa da dove svaria, e fugge, lo sguardo sopra lo spurgo delle baraccopoli. E qui riconosce ancora Sicani e Siculi misti delle torme di schiavi illirici, siri, quant’altri mai popolarono il centro della Sicilia da invasione a invasione; e lì rimasugli punici ed elimi, o guizzi greci, o pesanti orme normanne. Non creda che gli possa esser di guida l’etimo arabo di Gibellina, l’armatura absidale di Monreale o di Cefalù, la smisurata, e perenne, plebe di Palermo o, Dio ne guardi, la proliferazione delle colture viticole alla «alcamese». Difficile, per non dir disperata, e probabilmente inutile, è l’impresa di ricondurre a unità le differenziazioni e riprodurne un quadro ordinatamente atteggiato: ci si sono rotte le ossa, a tentarlo, millanta invasori e predoni di mare, re e baroni, industriali e burocrati, carabinieri e prefetti.
La verità è che non di un «ordine» abbisogna la Sicilia, ma di un’armonia che contemperi strette valli e slarghi di piana, fungaia metropolitana e lontane uve di lumi dei paesi nei monti, scroscio di frane e del mare. Un’armonia che raccoglie le sue note diverse, che prende forza dalle dissonanze e slancio dalle contraddizioni, componendosi secondo una propria linea organica: il viaggiatore, a poco a poco, d’occhio e orecchia andrà trovando le vene riposte e segrete come acque carsiche. A furia di guardare solo dentro di sé i siciliani sono diventati l’uno specchio dell’altro: ristanno immobili per timore che l’immagine riflessa improvvisamente si sgrovigli, e colpisca. La questione è di individuare i gesti che sciolgono invece di imbozzolare, che s’alzano invece di sprofondare, che mutano e trasformano e diventano vita invece di mummificare: alla maniera del secolo ix, o xvi, o xx sempre sudario inviluppante restò.
La diversità e il superamento progettuale. L’equivoco della pianificazione contemporanea in Sicilia sta proprio in questo: nell’attribuire una capacità «ordinatoria» a elementi del tutto estrinseci alle caratteristiche dell’Isola, come sarebbero quelli di un’industrializzazione carismatica, salvo poi frammentarsi e frantumarsi nei provvedimenti legislativi e nelle attuazioni, se ne avvengano, che corrono dietro a ogni piega del terreno, a ogni sollecitazione settoriale o, nello stato di democrazia in cui siamo, elettorale. Sicché potrebbe dirsi che riesca, quella pianificazione, a cogliere il peggio delle esistenti, e reali, contraddizioni tramite intuizioni unitarie che si sfilacciano in sigle, in puri nomi che insistono a indicare una serie di provvidenze e di azioni prive di una qualsiasi logica globale.
Questo è d’altronde il problema generale del sottosviluppo meridionale e siciliano in ispecie. Per via di una collocazione geografica che si è andata emarginando, e che, quando marginale non era, portò in Sicilia padroni né mai lieviti; per via della mancanza di impulso che tragga dal coacervo l’armonia di un suo proprio volto e personalità, i provvedimenti che dovrebbero implicare una trasformazione economica globale, una generale modifica culturale e sociale finiscono, da sempre e tuttora, con l’individuarsi in interventi validi solamente sul piano del sussidio.
Evidentemente ciò che stiamo dicendo vale per i due ambiti, in parte contigui lungo le coste del mar d’Africa, in parte separati dall’acrocoro del Corleonese e dall’urbanizzazione palermitana, della fascia centro-meridionale e delle zone terremotate con tutta una loro interna distinzione e contrapposizione particolare.
Il nostro intento è di confermare, nell’attento esame delle pianificazioni correnti ai giorni nostri, codesta caratteristica della programmazione, fisica come economica, meridionale per cui non si è giunti a formulare un quadro di riferimento relativamente organico all’una e all’altra parte; e come un’eventuale preoccupazione iniziale sia stata stravolta dagli avvenimenti, oppure, e meglio, da ordinamenti che vogliono essere unitari astrattamente e naturalmente divengono divergenti e opposti.
Certo, ognuna delle due zone, o aree, o come dir si voglia (giacché non possiamo «nominare» se prima non cogliemmo natura e volto del soggetto), ha grande diversità geografico-sociale, lo dicemmo e ripetiamo. La realtà di Agrigento muta profondamente a Palma e a Licata (distanti 50 chilometri), e in modo diverso ma altrettanto profondo tra Gela e Riesi (ancora 50 chilometri) come poi tra le zone limitrofe a nord-est e a ovest. Lo stesso accade entro i perimetri delle zone terremotate, dove, a parte l’aggregazione Gibellina-Salaparuta-Camporeale, è uno sfascio di frane a Roccamena, di solitudine a Ostessa Entellina, e Santa Ninfa reitera di non aver niente a che fare con la valle del Belice. Identica, nella difformità, la situazione del Corleonese poiché tra Palazzo Adriano, per esempio, e Bisacquino, pur simiglianti di strette e monti, non c’è, nel loro intimo, niente in comune: e le distanze di scarsi chilometri divengono, nel viaggiatore che le percorra, separazioni di secoli.
Ma allora perché conglobare in un’unica progettazione territori che mai sono stati unificati da provvedimenti legislativi, e di cui sono chiarissime le differenze-di base? Perché orientarsi a una ricerca, a un viaggio quale quello che stiamo intraprendendo allorché basta uno sguardo affrettato per campire una linea di divisione geografica chiara e distinta, costituita a mare dalle pianeggianti zone orticole di Sciacca e Ribera e all’interno dalle catene montuose di Cammarata e della Busambra? Perché, infine, pretendere di correlare progettualmente un sito caratterizzato dal fatto emergente del terremoto e un altro che non subì sisma affatto, o quello palermitano, che ne soffrì solamente lo scatenarsi di una paura endemica?
Sono due le ragioni, l’una in negativo e l’altra in positivo, che ci hanno indotto a seguire una traccia apparentemente evasiva e contraddittoria, come sono, d’altronde, storia e situazione odierna della Sicilia.
In «negativo», gli è che l’esame delle vicende politico-amministrative che hanno interessato i due ambiti, e la loro cerniera, si risolve nella constatazione di una reciprocità di carenze e contraddizioni tanto culturali quanto decisionali, le quali, sommandosi, ci conferiscono un quadro incisivo di interventi presuntivamente unitari e coordinati che si sgomitolano in progressive frantumazioni. Inabili poi, codeste, e per le ragioni che enunciavamo poc’anzi, a innervarsi nelle diversità concrete per costituirsi in armonia di risultati.
In «positivo», perché le caratteristiche di quegli ambiti fluiscono, a saperne individuare le essenze, in una positività armonica che da formale si fa reale: e l’intervento di piano territoriale scioglie contraddizioni e barriere nel tumulto continuamente strutturato e destrutturato di un’esistenza sollecita, inarcata a sforzare le preclusioni antiche e a slanciarsi verso l’esterno da mille e un punti che proprio nella tensione innovano la propria coordinazione.
Certo, sia l’una sia l’altra ragione abbisognano di un’attenta documentazione e, in pratica, in tavole e parole di questo sarà contesto il presente volume. Ma fin da questa Introduzione sarà bene darne contezza riassuntiva, una mappa, un portolano appunto, che aiuti il viaggiatore sprovveduto, o male informato, o incapricciato di tesi tradizionali, a puntare la bussola verso il punto cardinale che di sé informa qualunque speranza di trasformazione siciliana – e non è il Nord ma, astronomica contraddizione d’avvio a tante altre, l’Est-Sud-Ovest.
I due terremoti e la stabilità burocratico-culturale. Per quel che attiene all’argomento in «negativo», rifacciamoci al 13 gennaio 19681.
Subito dopo il terremoto che colpì duro e sordo nelle zone d’ora innanzi definite «zone terremotate», si creò una forte atmosfera di tensione in cui si intrecciavano due motivi: quello dell’occasione di tagliar corto con un passato di staticità, e quello della critica alle intempestività e inadeguatezze dei provvedimenti. C’era una specie di cupa speranza che la scossa subita generasse una reazione finalmente sana, e contemporaneamente tutto appariva estremamente lento, quasi come una rarefatta dissolvenza incrociata che già lasciasse indovinare ulteriori rovine al posto di quelle che traballavano e scrosciavano a terra quei giorni.
In effetti la stesura e approvazione dei documenti con cui affrontare i tempi lunghi della ricostruzione fu lesta invece, giacché il 3 febbraio 1968 era già approvata la legge per gli interventi, con indicazioni urbanistico-territoriali di un qualche rilievo tramite l’istituzione di «comprensori». Sicché la critica non è a proposito di lentezze che, d’inizio, ha da mordere, ma per il modo macroscopico in cui Stato e Regione entrarono tosto in concorrenza: e circa la promulgazione delle leggi, e a proposito degli organi da preporre alla ricostruzione.
Il fatto che lo Stato abbia e dovere e diritto di intervenire in occasione di calamità naturali, e che la Regione Siciliana, in forza del suo statuto autonomo, legiferi sui problemi territoriali, è all’origine di questo dualismo.
Lo Stato infatti promulgava il 18 marzo 1968 un «suo» decreto-legge per le provvidenze a favore delle aree sinistrate, ignorando del tutto la legge regionale del 3 febbraio. E, mentre i provvedimenti si sovrapponevano, prendeva piede, anche da codesta sovrapposizione, un sottovalutare gli aspetti economici che minacciava di far scadere gli interventi ipotizzati «di sviluppo» a mere provviste da «opere pubbliche». Beninteso, un vertice unico, un momento decisionale organico – e sia pure di vertici, che d’altronde in quei contesti legittimi sono – non si è mai realizzato nonostante che da più parti lo si sollecitasse; e bisogna anche dire che gli ambienti siciliani «di governo», a mano a mano che i mesi trascorrevano, andavano appannando la propria sensibilizzazione al problema di fondo per polarizzarsi su infrastrutture, urbanizzazioni, opere pubbliche… che è il malanno, non solamente tecnico e culturale ma pur politico, di certi modi di intendere la pianificazione. […]
C’era sì un comitato che apparentemente avrebbe dovuto coordinare tutte le attività d’ogni genere, e per questo la Regione vi inviò propri rappresentanti: ma quando fin dalle prime battute il comitato stesso fu avviato a devolvere i fondi senza la predisposizione di un piano e di un programma organico di opere, a chi lo faceva notare fu risposto, da parte dell’Ispettorato, che al comitato non competevano formulazioni di piano e che, comunque, il piano organico lo avrebbe fornito l’ises2, che ne aveva già ricevuto incarico dal ministero dei Lavori Pubblici. E intanto questo e quel Comune dava incarichi di redazione di piano regolatore generale (per esempio, Santa Ninfa). E contemporaneamente liberi gruppi di lavoro e di studio, come il Centro studi di Danilo Dolci a Partinico, affrontavano per proprio conto, o in contatto secondo parametri diversi con le popolazioni, il problema.
In parallelo con le decisioni «regionali» si provvedeva alla costituzione di gruppi cui dare l’incarico delle pianificazioni comprensoriali: question...