Postfazione
Un romanzo sul dolore della memoria e il male dell’oblio
di Božidar Stanišic´
La memoria umana è
uno strumento meraviglioso ma fallace.
Primo Levi, I sommersi e i salvati
Amo Danilo Kiš, Mirko Kovač e Filip David,
ma soprattutto David.
Ivo Andrić
Potete immaginarvi un bimbo di tre anni che per forza di cose, con la madre e il fratello minore, vive nel villaggio Mandjelos? Ma che domanda, direte, è facile immaginarsi un bimbo! In realtà, non sappiamo dove sia Mandjelos, e non è neppure chiaro dove sia il padre del bambino. E che significa per forza di cose? Ecco, rispondo, il villaggio si trova nello Srem, a nord della città di Sremska Mitrovica (un tempo la romana Sirmium). La forza delle cose è nell’anno di guerra 1943, e nel fatto che nessuno di loro sia nato in quel villaggio, e che il bambino debba, giorno e notte, essere pronto a dichiarare un cognome falso – Kalinić.
Il nome era suo, quello vero: Filip o, come vezzeggiativo, Fića. E il padre non lo doveva nominare, in nessun caso. Il bimbo doveva tenere sempre a mente tutto questo, ed essere pronto a ogni istante alla profuganza, perché il villaggio si svuotava alle notizie di retate poliziesche o per l’arrivo di soldati occupanti. Così un giorno l’intero villaggio fu deportato nel lager di Sremska Mitrovica. Quell’immagine il bambino la ricordava probabilmente solo attraverso la memoria della madre, ma se la portò dietro per tutta la vita: lei lo tiene per mano, mentre in braccio sorregge il fratellino; la colonna è lunga, e un proiettile attende chiunque rimanga indietro o soccomba su quella strada. A un tratto il bimbo si ferma stremato, e nella sua disperazione la madre indica un albero frondoso in lontananza, dicendo che è un ciliegio. A lui le ciliegie piacevano molto e impegna le sue ultime forze per non fermarsi. Sette anni dopo la giuria del giornale per ragazzi Pionir scelse il migliore fra quattromila racconti di piccoli scrittori. Il nome dell’autore decenne era Filip David, un tempo Kalinić, di quel villaggio dello Srem. Quello fu il suo primo racconto – il ricordo vivo di quel cammino di vita e di morte, nel quale il pensiero, così semplice, delle ciliegie fece scattare la lancetta della bilancia che chiamiamo anche destino.
“Così divenni scrittore...” dice Filip David, che nell’Olocausto perse più di cinquanta familiari da parte di padre e di madre. Ancor oggi, come lettori dei romanzi, dei racconti e dei saggi di Filip David, possiamo essere grati anche a quella scintilla di decisione nella disperazione di sua madre, a un ciliegio che ciliegio non era (le cose in lontananza possono trasformarsi in speranza) e a tutti coloro che aiutarono la sua famiglia a sopravvivere in quei tempi bui.
Il romanzo di David La casa della memoria e dell’oblio è stato pubblicato nel 2014. Ha ricevuto il più importante premio per il romanzo dell’anno della letteratura serba, il Premio del settimanale NIN (che fino al 1991 veniva assegnato al miglior romanzo della Jugoslavia, e fra i premiati si distinguono scrittori le cui opere hanno contrassegnato le letterature jugoslave del xx secolo: Miroslav Krleža, Miloš Crnjanski, Mihailo Lalić, Branko Ćopić, Radomir Konstantinović, Meša Selimović, Bora Ćosić, Ranko Marinković, Borislav Pekić, Danilo Kiš, Mirko Kovač, Aleksandar Tišma, Milorad Pavić, Dubravka Ugrešić...). Il romanzo è già stato tradotto in diverse lingue straniere, e in Serbia e nella Regione (così ora viene spesso chiamato lo spazio ex jugoslavo, un tempo spazio comune) il libro di David ha avuto numerose edizioni e ha già venduto 35.000 copie, il che per il periodo attuale appare quasi incredibile. Pare che non ci sia città della Serbia dove non sia ancora stata organizzata una promozione di questo romanzo, e l’autore è stato invitato anche nelle altre repubbliche. Anche se le presentazioni pubbliche di opere letterarie sono un fattore esterno, che a un libro nulla aggiunge e ancor meno sottrae, in un’epoca in cui la rivoluzione nazionalistica in Serbia e in tutta la ex Jugoslavia postcomunista si è consolidata anche come potere politico, ogni voce della ragione è fondamentale e ci chiama all’incontro con la Memoria.
Chiedo al lettore di questa postfazione di perdonarmi per la digressione che segue e che non sarà breve. In quel 2014 qualcuno si sarà ricordato che un quarto di secolo prima era caduto il muro di Berlino e che in quel novembre del 1989 avevamo ascoltato a sazietà promesse di un’Europa più umana e più giusta. Come sarebbe oggi una conferenza immaginaria su tutti gli aspetti più importanti di quei venticinque anni di Nuova Europa? Siamo sicuri che prevarrebbero le opinioni sull’economia e la finanza, probabilmente anche le valutazioni – ancora economiche e, naturalmente, politiche – sulla transizione dell’Europa orientale ex comunista e sulla sua riunione con l’Occidente. In quale misura la Storia, anche in quanto antica arte della memoria, potrebbe essere una scomoda compagna di viaggio per quei citati aspetti primari? Nell’ex Oriente europeo, compresa naturalmente anche la ex Jugoslavia, sarebbe più scomoda che in Occidente? E tuttavia, il fatto che unifica gli aspetti più problematici della memoria da entrambe le ‘parti’ del Vecchio continente è in effetti lo sviluppo e il consolidamento dei movimenti della destra estrema (da Atene a Stoccolma e Helsinki) che basano le proprie idee del passato sulla “metamorfosi” o addirittura la negazione del passato. Ma il problema non sono solo i rappresentanti dell’estrema destra dell’Europa attuale, soprattutto quella orientale, ma anche tutti i suoi abitanti della zona grigia che, insicuri per vari motivi della propria opinione, prestano orecchio alle polemiche sul tema della memoria e accettano più facilmente di rimaneggiare il passato o, come ha detto Marija Todorova, di “farlo saltare in aria”. Soprattutto nei paesi postcomunisti, era, e attualmente è, più facile creare l’identità nazionale in aree deserte, e ancor meglio nei buchi della memoria. In questo senso, nella comprensione del fenomeno dell’oblio e del ricordo potrebbe aiutarci una barzelletta dell’epoca sovietica, in cui un ascoltatore telefona a un programma di Radio-Erevan: “È possibile prevedere il futuro?” Risposta: “Certamente, niente di più facile. Noi sappiamo esattamente come sarà il futuro. Abbiamo più problemi con il passato: cambia continuamente!”.
Non è difficile scorgere che in questa, ormai vecchia, barzelletta sovietica – che oggi potrebbe venir ancor meglio etichettata come esteuropea, mentre Radio-Erevan potrebbe essere anche Radio-Varsavia, Radio-Budapest (e così via, senza dimenticare le radio di tutti i Balcani) – manca la questione del presente. E il tempo presente lo conosciamo? “Viviamo tempi instabili, esplosivi. Ci sono tensioni razziali, religiose, etniche e di classe. Tutto è possibile: dai conflitti economici e sociali a quelli fra civiltà. Sono anche sempre più complessi i problemi ecologici e culturali. E ciò che in questo mondo d...