L'isola di Pasqua
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L'isola di Pasqua

Diario di un allievo ufficiale della Flore

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L'isola di Pasqua

Diario di un allievo ufficiale della Flore

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Alla fine del 1871 lo scrittore francese Pierre Loti si imbarca sulla Flore, una fregata a vela della Marina francese, per partecipare a una spedizione verso le isole più remote dell'Oceano Pacifico. Scopo del viaggio è riportare in Francia un esemplare delle famose ed enigmatiche statue dell'Isola di Pasqua, i Moai. Ma l'esperienza vissuta da Loti va oltre gli obiettivi della missione. Immerso nel mondo arcaico e incorrotto degli indigeni, Loti descrive – come un novello Robinson Crusoe – la storia, i riti e i costumi dei suoi abitanti, in precario rapporto con le scarse risorse naturali dell'isola. Ne nasce un diario lirico e potente, l'appassionante racconto di un luogo ancora oggi tra i più remoti e misteriosi del nostro pianeta. Questo testo (comparso sulla Revues de Paris a vent'anni di distanza dagli eventi narrati) viene tradotto in italiano per la prima volta.

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Informazioni

Editore
Bordeaux
Anno
2019
ISBN
9788832103311
Categoria
Viaggi
IV
6 gennaio
Prima delle quattro di mattina, in una notte ancora buia, sotto un cielo cupo, lasciamo la fregata. E raggiungiamo la spiaggia prima che faccia giorno, scegliendo di sbarcare in un punto difficile e isolato, per non svegliare gli indigeni che vorrebbero tutti seguirci. Siamo quattro dello stato maggiore, io, il comandante e due ufficiali; il vecchio danese e un maori di fiducia ci guidano; tre marinai avvezzi alla marcia ci seguono, portando in spalla il pranzo nostro e loro. Dal lato delle capanne, laggiù, si vedono brillare fuochi tra l’erba.
All’inizio passiamo vicino al marae devastato ieri, il cui aspetto è sinistro. Il cielo ha come un unico velo, tranne uno squarcio a livello dell’orizzonte orientale, che lascia intravedere un bagliore giallo che annuncia la fine della notte.
Tutti in fila, attraverso l’erba bagnata, ci dirigiamo verso l’interno dell’isola, che dovremo attraversare da un versante all’altro e, dopo mezzora, dietro l’avvallamento di una collina, il mare e i fuochi lontani della fregata scompaiono ai nostri occhi, il che ci fa ritrovare di colpo ancora più isolati. Ci inoltriamo in questa parte centrale dell’isola che, sulla cartina del comandante, è coperta dalla parola Tekaouhangoaru, scritta in grandi caratteri dalla mano del vescovo di Tahiti. Tekaouhangoaru è il primo nome che i polinesiani diedero a quest’isola; e più del nome Rapa Nui, Tekaouhangoaru suona di selvaggeria triste, preda di vento e tenebre.
Anche ai tempi in cui la popolazione era numerosa, pare che questo territorio centrale fosse inabitato. Succede la stessa cosa, d’altronde, sulle altre isole abitate dai maori, che sono una razza di pescatori e navigatori, che vivono soprattutto del mare; così il centro di Tahiti e quello di Nuka Hiva, nonostante una vegetazione ammirabile e delle foreste piene di fiori, non hanno mai smesso di essere dei silenziosi deserti. Ma niente foreste qui a Rapa Nui, niente alberi, niente; delle piane brulle, funebri, puntellate da innumerevoli piccole piramidi di pietra; sembrano dei cimiteri senza fine.
Spunta il giorno, ma il cielo resta molto scuro, una pioggia fine comincia a cadere e, sebbene avanziamo senza sosta, il nostro orizzonte resta chiuso da ogni parte da crateri che si susseguono sempre uguali, con la stessa forma di tronco di cono, lo stesso colore bruno.
Siamo nell’erba bagnata fino alle ginocchia. Anche quest’erba è sempre la stessa; ricopre l’isola in tutta la sua estensione; è una sorta di pianta rude, di un verde grigiastro, dallo stelo legnoso adornato da piccoli insetti che in Francia si chiamano effimere. Per quanto riguarda le piramidi che continuiamo a trovare a ogni passo, sono composte da pietre grezze, poggiate semplicemente l’una sull’altra; il tempo le ha rese nere; sembrano star lì da secoli.
Ma ecco una valle in cui la vegetazione cambia un po’; vi crescono felci, canne da zucchero selvatiche, magri cespugli di mimosa e anche qualche altro alberello basso, che gli ufficiali riconoscono essere di specie di piante molto diffuse in Oceania, ma che qui diventano alberi. – Sono stati portati qui dall’uomo? Oppure vivono qui sin dal grande mistero delle origini, e allora perché sono rimasti allo stato di sterpaglia e per giunta solo in questo punto, invece di svilupparsi e invadere attorno come hanno fatto altrove?
* * *
Finalmente, verso le nove e mezza, dopo aver attraversato l’isola in tutta la sua larghezza, vediamo nuovamente aprirsi davanti a noi le linee blu dell’Oceano Pacifico. E smette di piovere, e le nuvole si squarciano, e il sole appare. Davvero, veniamo fuori da Tekaouhangoaru come svegliandoci da un incubo di buio e di pioggia.
In lontananza, vicino al mare, c’è addirittura qualcosa che assomiglia a una casetta all’europea. Il Robinson danese ci dice che si tratta della terza delle abitazioni costruite all’epoca dei missionari; in quel posto, che si chiama Vaihu, a quei tempi c’era una tribù felice che viveva sulle rive della spiaggia; non c’è più nessuno oggi; Vaihu è un deserto e la casetta cade in rovina.
Intravediamo già il cratere di Ranoraraku, ai cui piedi troveremo, a quanto pare, le statue annunciate, diverse da tutte le altre, più strane, e ancora in piedi. Presto ci resteranno solo due leghe, e sarà la fine del nostro viaggio. Perciò ci fermeremo a mangiare qui nella casa vuota; innanzitutto potremo dar sollievo alle spalle dei marinai prima del previsto, e poi avremo almeno il riparo di quel che resta di un tetto.
Un’anziana donna selvaggia e di una orribile bruttezza appare sulla soglia della porta per poi venire verso di noi con sorrisi intimoriti. È la sola creatura vivente incontrata durante la marcia. Ha fatto di questa rovina solitaria il suo rifugio e, probabilmente, è figlia della tribù scomparsa. – Ma di che vive e cosa potrà mai mangiare? Radici, probabilmente, licheni, e qualche pesce pescato da lei.
* * *
A partire da Vahiu, attraversiamo una regione solcata da sentieri battuti e calpestati come se ogni giorno passasse da lì una folla gremita di gente. E nonostante ciò tutto è deserto: ce lo avevano detto, e lo vediamo noi stessi; la nostra guida indigena ci assicura addirittura che a parte quella vecchia, non potremmo trovare un solo essere umano in un raggio di meno di cinque leghe. Ma allora, che pensare?... In quest’isola, tutto sembra fatto per perturbare l’immaginazione.
Il posto verso cui continuiamo ad avvicinarci dev’essere stato, nella notte dei tempi, un qualche centro di adorazione, tempio o necropoli, poiché adesso l’intera area è cosparsa di rovine: basamenti di pietra ciclopici, resti di spesse mura, frantumi di costruzioni gigantesche. E l’erba, sempre più alta, copre quelle tracce di tempi misteriosi – l’erba dagli steli legnosi come quelli della ginestra, sempre, sempre la stessa erba e dello stesso verde slavato.
Adesso camminiamo lungo il mare. In riva alle spiagge, sulle falesie, ci sono terrazze fatte con pietre immense; un tempo vi si saliva tramite gradini simili a quelli delle antiche pagode indù e supportavano pesanti idoli, oggi rovesciati a testa in giù, con la faccia sepolta tra le macerie. Lo Spirito delle Sabbie e lo Spirito delle Rocce8, entrambi guardiani delle isole contro l’invasione dei mari, sono loro i personaggi delle vecchie teogonie polinesiane raffigurati da queste statue.
È qui, in mezzo alle rovine, che i missionari scoprirono una fila di piccole tavolette di legno, incise con geroglifici; – oggi è il vescovo di Tahiti che le possiede, e sicuramente svelerebbero l’enigma di Rapa Nui, se si riuscisse a tradurle.
Gli dèi continuano a moltiplicarsi, man mano che avanziamo verso il Ranoraraku e anche le loro dimensioni aumentano; ne misuriamo alcuni di dieci o addirittura undici metri, fatti di un solo blocco di pietra; non si trovano più solamente ai piedi delle terrazze, il terreno ne è cosparso; si vedono ovunque le loro masse scure e informi emergere dalle erbe alte; i loro copricapo, che erano delle specie di turbanti, fatti con una lava differente e di un rosso sanguigno, sono rotolati qua e là, al momento della caduta, e sembrano mostruose pietre da macina.
Vicino a un tumulo, un mucchio di mascelle e di crani calcinati sembra attestare sacrifici umani, che si sarebbero svolti lì per un periodo molto lungo. E – altro mistero – delle strade lastricate, come le strade romane, scendono per perdersi nell’Oceano...
Mascelle, crani, del resto qui sono ovunque. Non si può sollevare un po’ di terra senza smuovere resti umani, come se questa regione fosse un immenso ossario. C’è stata un’epoca (il cui terrore si è trasmesso per generazioni fino ai vecchi dei nostri giorni) in cui gli uomini di Rapa Nui conobbero l’orrore di essere troppi, di soffrire la fame e di soffocare sulla propria stessa isola da cui non sapevano più andar via; allora sopravvennero grandi guerre di stermin...

Indice dei contenuti

  1. Nota dell’editore
  2. Bibliografia minima
  3. Notizie biografiche
  4. I.
  5. II.
  6. III.
  7. IV
  8. V.